Piattaforme online agenti di commercio

Ma le piattaforme online sono agenti di commercio?

Nell’articolo precedente si è cercato di andare
a delineare la natura giuridica delle piattaforme online, ripercorrendo
il percorso argomentativo compiuto dalla Corte di Giustizia nelle recenti
sentenze Uber Spagna[1], Uber Francia[2] ed Airbnb Ireland[3].

Dallo studio di tale
decisioni si evince l’impossibilità di classificare le piattaforme online
tutte all’interno della medesima categoria giuridica, dovendo di volta in volta
valutare ogni singola realtà, sulla base dei servizi che questa offre: la Corte
ha riconosciuto che il servizio Uberpop, prestato dall’omonima piattaforma, dovesse
essere qualificato come servizio dei trasporti, mentre ha escluso che il
servizio di intermediazione fornito da Airbnb potesse essere inquadrato come un
rapporto di agenzia immobiliare, quanto piuttosto quale “servizio
delle società dell’informazione
”.[4]

La Corte è giunta a tali
conclusioni andando ad analizzare in maniera assai dettagliata i servizi di
intermediazione che le due piattaforme concretamente prestano, partendo dal
presupposto che, per delineare la natura giuridica di tali soggetti, sia
necessario identificare l’“elemento principaleche li caratterizza
tramite uno studio dettagliato dei servizi erogati. Nella sentenza Uber si
legge infatti che:

il servizio di intermediazione in discussione [deve] essere considerato come parte integrante di un servizio complessivo di cui l’elemento principale era un servizio di trasporto, e dunque rispondente non alla qualificazione di “servizio della società dell’informazione.”[5]

Ne consegue che,
indipendentemente dalla qualificazione che le parti hanno dato al rapporto, è
necessario andare di volta in volta a verificare quello che è l’effettivo
fattore caratterizzante la collaborazione.

Si può ragionevolmente affermare che la massima enunciata dalla Corte (infondo) non si distacca troppo da principi nazionali in tema di interpretazione dei contratti di cui all’art. 1362 e ss. c.c., in base ai quali un negozio giuridico deve essere inquadrato tenendo conto di quella che è l’effettiva volontà dei contraenti, dando maggiore rilievo alle concrete modalità di svolgimento del rapporto: il nomen juris, pur restando un elemento di necessaria valutazione,[6] non costituisce vincolo per il giudice chiamato a decidere del caso concreto, che resta comunque libero di riqualificare il rapporto conferendogli la veste giuridica che ritiene essere più corretta.[7]

(Cfr. sul punto: differenza tra agente e lavoratore subordinato, differenza tra agente e procacciatore d’affari, differenza tra agente e contratto di distribuzione).

È chiaro, quindi, che se
si intende comprendere se l’attività di intermediazione prestata da parte di
una piattaforma online possa essere inquadrata come rapporto di agenzia,
non bisogna solamente verificare se le parti abbiano attribuito al rapporto
suddetta qualifica, ma altresì indagare quale fosse la loro comune intenzione, andando
ad individuare l’elemento principale che caratterizza l’attività di
intermediazione.

Punto di partenza di tale percorso interpretativo è determinare cosa è un contratto di agenzia; la definizione di agente che viene resa all’art. 1742 c.c. ci viene certamente incontro:

Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l'incarico
di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione, la conclusione di
contratti in una zona determinata.

Semplificando, gli elementi fondamentali di tale contratto sono:

  1. l’attività di promozione di contratti (sia di merci che di servizi);[8]
  2. la stabilità dell’incarico;
  3. l’onerosità del contratto;
  4. l’autonomia.

In ogni caso, ci si può spingere ad affermare che l’attività più tipica tra tutte quelle sopra elencate è certamente quella di promozione degli affari, da intendersi come l’opera di (stabile) ricerca e convincimento del potenziale cliente, destinata a sfociare in caso di successo nella conclusione di un contratto tra cliente e preponente.[9]

Ciò premesso, se l’attività di agenzia dovesse essere limitata alla promozione delle vendite, comprendere se l’intermediazione di una piattaforma online possa essere ricondotta a tale schema contrattuale sarebbe quasi lineare.  In ogni caso, la questione si complica non poco se si tiene conto del fatto che la promozione dell’affare non esaurisce i compiti esercitati dall’agente, che di norma comprendono una serie di attività preliminari o collaterali, molto spesso accessorie al contratto di agenzia e ad esso funzionali.

L’agente deve in primo luogo individuare il potenziale cliente, contattarlo ed illustrargli le caratteristiche tipiche dei prodotti; può essergli richiesta la tenuta in deposito di prodotti del preponente e la conseguente consegna all’acquirente, la partecipazione alla campagna pubblicitaria, così come potrà essergli affidata la fase di post-vendita; potrà inoltre svolgere un servizio di assistenza tecnica dei prodotti, o ancora essergli richiesto di organizzare e guidare una rete di vendita sottostante.[10]

(Cfr. Agente e/o Area Manager? Una breve panoramica)

Come se ciò non dovesse bastasse, tra le attività accessorie al contratto di agenzia può anche rientrare quella di verifica della corretta esposizione e presentazione dei prodotti nei punti vendita, così come controllare il flusso di acquisti ivi effettuati (c.d. sell out e sell in).[11] In linea con tale indirizzo, la Cassazione ha ritenuto addirittura compatibile con il rapporto di agenzia lo svolgimento di un’attività accessoria di "merchandising",ossia

un contratto avente ad
oggetto [la scelta delle modalità di] esposizione di prodotti negli spazi e
sugli appositi banchi di vendita di un grande magazzino o centro commerciale,
al fine di rendere i prodotti stessi più appetibili per i consumatori
.”[12]

In sintesi, la giurisprudenza ritiene compatibili con il contratto di agenzia tutta una serie di attività complementari a quella principale di promozione degli affari, a condizione (e con il limite) che tali servizi non siano predominanti e quindi tali da mutare la causa tipica del rapporto.[13]

Applicando i principi qui sopra richiamati al mercato elettronico e più precisamente al mondo delle piattaforme online, si può ragionevolmente affermare che l’attività di intermediazione svolta per tale tramite possa potenzialmente essere riconducibile allo schema contrattuale del contratto di agenzia, non solo se la piattaforma svolge unicamente un’attività di promozione delle vendite, ma altresì se la stessa offra ulteriori servizi accessori, purché non prevalgano sull’attività principale.

Tale
impostazione, a parere di chi scrive, sarebbe altresì in linea con la
giurisprudenza della Corte di Giustizia sopra richiamata, tenuto conto che
questa, nell’accertare se la piattaforma Airbnb potesse o meno essere
inquadrata come “agente immobiliare” ha tenuto esplicitamente presente il fatto
che all’elemento principale che caratterizza l’attività di intermediazione fossero
collegati ulteriori servizi accessori[14] che, seppure costituissero
parte integrante di un servizio globale[15], non erano tali da
snaturare l’attività caratterizzante prestata da Airbnb.

Seppure si ritiene che in linea di principio una piattaforma online possa svolgere l’attività di agente di commercio, è compito certamente assai complesso quello di cercare di adeguare a tale tipologia di mercato principi giuridici ed orientamenti giurisprudenziali che sono stati sviluppati negli anni unicamente su rapporti di agenzia “tradizionali”. Si cercherà qui di seguito di dare al lettore degli spunti che possano aiutare ad eseguire tale processo interpretativo, andando a riprendere le attività tipiche ed accessorie del contratto di agenzia qui sopra richiamate e tentando di comprendere se e come le stesse possano essere adeguate al mercato online, seppure con la consapevolezza che si tratta unicamente di spunti di riflessione su una tematica nuova e assai complessa.

a) Promozione delle vendite, individuazione del cliente ed illustrazione del prodotto.

È indubbio che l’individuazione di un cliente all’interno di un’area può essere effettuato tramite l’utilizzo di strumenti elettronici quali ad esempio il SEO[16], così come l’attività di illustrazione del prodotto può essere resa grazie all’utilizzo di foto, filmati, descrizioni, così come di live chat predisposte direttamente dalla piattaforma, tramite l’ausilio di personale demandato a tale compito (interno od esterno alla piattaforma), ovvero di programmi di risposta automatica che sfruttano algoritmi per riscontrare le domande più ricorrenti dei clienti.

b) Partecipazione alla campagna pubblicitaria.

Anche in questo caso la campagna pubblicitaria può essere utilizzata tramite l’utilizzo di strumenti digitali molto accurati ed integrati alla piattaforma: si pensi allo strumento più noto, ossia Google Adwords, che permette di individuare in maniera molto precisa e dettagliata non solo la tipologia di utente (e quindi potenziale cliente) verso cui indirizzare una campagna pubblicitaria, ma altresì circoscrivere l’area territoriale ove dirigere tali promozioni (strumento che permettere di rispettare i limiti di zona che dovessero essere imposti alla piattaforma/agente da parte del preponente)

(Cfr. L’esclusiva di zona nel contratto di agenzia).

c) Attività di merchandising e sell in e sell out delle piattaforme online.

Non è certamente insolito che una piattaforma online possa occuparsi di curare al massimo la corretta esposizione e presentazione dei prodotti all’interno del proprio sito, suggerendo in maniera automatica determinati prodotti ai clienti che già hanno effettuato acquisti, ovvero a potenziali clienti sulla base delle ricerche da questi effettuate su Google. Inoltre, l’attività di controllo delle vendite in entrata ed in uscita molto spesso viene utilizzato come servizio di default da diverse piattaforme, che indicano all’utente la disponibilità dei prodotti messi in offerta sulla piattaforma.

d) Attività di deposito.

Anche questo servizio spesso viene reso da molte piattaforme online, posto che permette alle aziende che utilizzano la piattaforma, di sgravarsi dal gestire un’attività logistica che (con particolare riguardo alla vendita al dettaglio) richiede un know-how assai sviluppato, di cui spesso non sono in possesso, ovvero non hanno sufficienti risorse per gestirlo.

e) Retribuzione o provvigione: agenti di commercio?

È assai frequente che una piattaforma venga remunerata tramite il riconoscimento di una percentuale sull’ammontare dell’affare portato a compimento; anche questo elemento può essere considerato come un indizio per inquadrare un rapporto all’interno degli schemi dell’agenzia, potendo tale compenso essere inquadrato quale provvigione sulla conclusione dell’affare (ex art. 1748 c.c.)

(Cfr. Il diritto alla provvigione dell’agente).


È chiaro che qui sopra sono stati brevissimamente sviluppati solamente alcuni elementi caratterizzanti il rapporto di agenzia e non sono stati analizzati altri punti ugualmente (se non ancora più) importanti di tale tipologia contrattuale (ad es. il rapporto di interdipendenza tra piattaforma e produttore, la rappresentanza, eventuali ripercussioni previdenziali, etc.), posto che ciò richiederebbe una analisi certamente più approfondita. Si ricorda comunque che il fine di questo articolo non era certamente di compiere una analisi completa su tale tematica, ma unicamente porre l'attenzione su un argomento tanto importate, quanto attuale.

Ciò premesso, alla luce di quanto sopra, non solo non si può escludere che le piattaforme online possano svolgere l’attività di agenti di commercio, ma si può verosimilmente ritenere che già qualche piattaforma online stia svolgendo di fatto tale attività, senza essere stata inquadrata come tale.

In ogni caso, tenuto conto del potenziale della rete e dei servizi che possono essere resi tramite tale mezzo, forse bisognerebbe iniziare a pensare che il mercato elettronico non debba a priori essere considerato uno strumento “nemico” al rapporto di agenzia, ma piuttosto un mezzo che permette di ampliare e potenziare le capacità commerciali degli agenti e delle imprese. Verosimilmente, tale modello dovrà essere sempre più incoraggiato e possibilmente integrato all’interno delle strategie di intermediazione di vendite delle reti distributive delle aziende nazionali.


[1] Sentenza del 20 dicembre 2017, Associación Profesional Elite Taxi vs. Uber Systems
SpainSL.

[2] Sentenza del 10 aprile 2018, Uber France
s.a.s.

[3] Sentenza del 19.12.2019 Airbnb
Ireland UC vs. Association pour un hébergemen et un tourisme professionnels.

[4] se si ricerca
all’interno della normativa europea la sola definizione che ci viene fornita è
quella di “intermediazione online” di cui all’art. 2 del Regolamento 2019/1150[6]: tale norma qualifica
detta attività come quella prestata dai “servizi della società
dell’informazione
”, ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della direttiva 2015/1535[7], a sua volta ripresa
dall’art. 2, lett. a) della  direttiva 2000/31[8] sul commercio
elettronico.

[5] Sentenza Uber, n. 40.

[6] Cass. civ. Sez.
lavoro Ord., 2018, n. 18262.

[7] Tra le tante, cfr.
Tribunale Milano Sez. lavoro, 26 ottobre 2017.

[8] Interessante
considerare che la direttiva
86/653
relativa a coordinamento degli Stati membri in tema di contratto di
agenzia, copre solo l’ipotesi di agenti che promuovono contratti di compravendita
di merci, mentre la nostra legge comprende l’intermediazione di qualsiasi
contratto, ivi incluso la prestazione di servizi. La Corte di Giustizia Poseidon
Chartering
,Sentenza 16.3.2006
, ha comunque riconosciuto la
possibilità degli stati membri di includere nello schema negoziale dei
contratti di agenzia anche la prestazione dei servizi. Sul punto cfr.
Bortolotti, Contratti
di distribuzione, pag. 106, 2016, Wolters Kluwer.

[9] Bortolotti, pag. 106,
op. cit.

[10] In tema di attività
accessoria al contratto di agenzia, cfr. Venezia, Il contratto di agenzia, pag.
600, 2015, Giuffrè Editore.

[11] Bortolotti,
pag. 106, op. cit.

[12] Cass. Cass. civ. Sez.
lavoro, 2004, n. 6896.

[13] Sul punto Cass. Civ.
2006, n. 1308, Bortolotti, op. cit., pag. 118 e ss.

[14] I
servizi presi in considerazione sono quelli di cui al n. 19 della sentenza
ossia “Oltre al servizio consistente nel mettere in contatto locatori e
locatari tramite la sua piattaforma elettronica di centralizzazione delle
offerte, la Airbnb Ireland propone ai locatori un certo numero di altre
prestazioni, quali uno schema che definisce il contenuto della loro offerta, in
opzione, un servizio di fotografia, parimenti in opzione, un’assicurazione per
la responsabilità civile nonché una garanzia per i danni fino a un importo pari
a EUR 800 000. In aggiunta, essa mette a loro disposizione un servizio
opzionale di stima del prezzo della loro locazione alla luce delle medie di
mercato ricavate da detta piattaforma. […] La Airbnb Payments UK custodisce i
fondi per conto del locatore dopodiché, 24 ore dopo l’ingresso del locatario
nell’alloggio, li trasmette al locatore mediante bonifico, consentendo così al
locatario di avere la sicurezza dell’esistenza del bene e al locatore la
garanzia del pagamento. Infine, la Airbnb Ireland ha istituito un sistema
mediante il quale il locatore e il locatario possono formulare un giudizio
mediante un voto che va da zero a cinque stelle, voto consultabile sulla
piattaforma elettronica in questione.”

[15]
Sentenza Airbnb Ireland, n. 54.

[16] SEO è l'acronimo di Search
Engine Optimization
, ossia "ottimizzazione per i Motori di ricerca".
Questo termine viene utilizzato per indicare tutti i lavori e le
implementazioni necessarie affinché un sito web abbia la struttura e i
contenuti di facile indicizzazione per i Motori di ricerca.


piattaforme online La natura giuridica delle piattaforme online Uber ed Airbnb

La natura giuridica delle piattaforme online: i casi Uber ed Airbnb

Con le sentenze Airbnb ed Uber la Corte di giustizia si è espressa in merito alla qualificazione giuridica di due importantissime piattaforme online. Con il presente articolo si andrà a comprendere quanto una piattaforma online possa essere qualificata come "società dell'informazione" e quando no.

Uno dei principi fondanti il mercato interno dell’UE è rappresentato dalla libera circolazione dei beni e dei servizi. Dato che si è già avuto modo di trattare alcune delle problematiche che il Legislatore Europeo si è trovato a gestire nel tentare di trovare un equilibrio tra il principio del libero scambio delle merci e l’interesse dei produttori di creare delle reti distributive competitive (Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva), con il presente articolo si intende incentrare l’attenzione su come il principio della libera circolazione dei servizi si coordini con il funzionamento delle piattaforme online, che sempre più caratterizzano il tessuto economico del mercato interno.

Per fare ciò, bisogna probabilmente partire dalle origini del diritto europeo che, con l’introduzione del mercato interno (art. 26 del TFUE), ha inteso garantire ad ogni soggetto che opera in uno Stato membro di esercitare un’attività economica in un altro Stato membro (art. 54 – Libertà di stabilimento) ed ivi offrire i propri servizi (art. 56 – I servizi)[1].

Con la direttiva 2006/123/CE[2] (relativa
ai servizi nel mercato interno) l’Europa ha inteso rafforzare il principio della
libertà di prestazione di servizi[3], ritenendo
che il perseguimento di tale obbiettivo “mira a stabilire legami sempre più
stretti tra gli Stati ed i popoli europei e a garantire il progresso economico
e sociale
[4], nonché
ad eliminare “ostacoli nel mercato interno [che] impedisc[ono] ai
prestatori, in particolare alle piccole e medie imprese, di espandersi oltre i
confini nazionali e di sfruttare appieno il mercato unico
.”[5]

Per comprendere se i servizi offerti dalle piattaforme online, che sempre più spesso svolgono il ruolo di intermediatori con l'utente finale, rientrino nella definizione di “servizi” di cui agli artt. 56 del TFUE e 4 della direttiva 2006/123 e siano pertanto destinatari delle tutele garantite da tali norme, bisogna in primo luogo dare una definizione di "piattaforma online". Invero, se si ricerca all’interno della normativa europea la sola definizione che ci viene fornita è quella di “intermediazione online” di cui all’art. 2 del Regolamento 2019/1150[6]: tale norma qualifica detta attività come quella prestata dai “servizi della società dell’informazione”, ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della direttiva 2015/1535[7], a sua volta ripresa dall’art. 2, lett. a) della  direttiva 2000/31[8] sul commercio elettronico.

È quindi al termine “servizio della società dell’informazione” che bisogna ricorrere per iniziare a dare una veste giuridica a tali soggetti; esso viene qualificato (dalle direttive qui sopra citate) come qualsiasi servizio “prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza[9], per via elettronica[10] e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.

L’UE dopo avere definito, seppure genericamente, il concetto di società dell'informazione, con la direttiva 2000/31 ha ritenuto opportuno garantire che il libero mercato dei servizi venga assicurato anche ai soggetti che operano online e, al fine di indurre gli Stati membri ad eliminare le restrizioni alla circolazione transfrontaliera dei servizi resi dalle società dell’informazione, all’art. 2 ha previsto che gli Stati membri non possono adottare provvedimenti che limitano tale esercizio, a meno che non siano necessari per questioni di ordine pubblico, sanità, pubblica sicurezza e tutela dei consumatori (art. 3).

Inoltre ha disposto che lo Stato membro prima di adottare i provvedimenti in questione deve (salva la nullità del provvedimento)[11] avere precedentemente notificato alla Commissione e allo Stato membro sul cui territorio il fornitore del servizio in oggetto è stabilito, la sua intenzione di prendere i provvedimenti restrittivi in questione (art. 3, lett. b, secondo trattino).

Da ciò si evince che è di essenziale importanza comprendere se una piattaforma online possa o meno essere qualificata come società dell’informazione, posto che solo in tale ultimo caso il soggetto godrà delle sopra richiamate specifiche tutele riconosciute dal diritto europeo in tema di libera circolazione dei servizi.

Sul punto, si rileva come la Corte di Giustizia è stata recentemente interrogata proprio su tale questione, in relazione ai servizi di mediazione forniti dalle piattaforme digitali Uber Spagna, Uber Francia ed Airbnb Ireland.  Si vanno qui di seguito ad analizzare brevissimamente tali sentenze, al fine di cercare di comprendere quella che è la ratio che ha portato la Corte a prendere decisioni opposte, su situazioni (apparentemente) tra loro assai analoghe.

1. I casi Uber Spagna e Uber Francia.

Con due decisioni “gemelle”, Uber Spagna del 20.12.2017[12] e Uber Francia del 10.4.2018[13], la Corte di Giustizia è stata chiamata a decidere se il servizio UberPop, che viene prestato tramite una piattaforma internazionale, debba essere valutato come servizio dei trasporti e in tal caso soggetto alla normativa nazionale che subordina lo svolgimento di tale attività all’ottenimento di una licenza da parte dei trasportatori, oppure un servizio della società dell’informazione, con conseguente obbligo di preventiva approvazione da parte della Commissione dei provvedimenti normativi nazionali che vietano tale attività.

La Corte di Giustizia Europea in prima analisi ha dato atto del fatto che:

un servizio di intermediazione, il quale consenta la trasmissione, mediante un’applicazione per smartphone, delle informazioni relative alla prenotazione di un servizio di trasporto tra il passeggero e il conducente non professionista, che usando il proprio veicolo, effettuerà il trasporto, soddisfa, in linea di principio, i criteri per essere qualificato come ‘servizio della società dell’informazione’.”[14]

In ogni caso, la
Corte continua il proprio ragionamento andando ad analizzare in maniera
dettagliata quelli che sono i servizi di intermediazione effettivamente
prestati tramite l’utilizzo dell’applicazione Uber, rilevando che la compagnia non
si limita unicamente a mettere in contatto (e quindi a intermediare) il
trasportatore ed il trasportato, ma altresì:

  • seleziona i conducenti non professionisti
    che utilizzando il proprio veicolo e tramite l’ausilio dell’app di Uber,
    forniscono un servizio di trasporto a persone che intendono effettuare uno
    spostamento nell’aerea urbana, che altrimenti non sarebbero potuti ricorrere
    a suddetti servizi;
  • fissa se non altro il prezzo
    massimo della corsa;
  • riceve il pagamento del cliente e successivamente
    lo versa al proprio conducente;
  • esercita un controllo sulla qualità dei
    veicoli e dei loro conducenti e sul loro comportamento;
  • in alcuni casi può esercitare nei confronti dei
    propri conducenti l’esclusione dal servizio.

La Corte, analizzato il rapporto nella sua interezza, è quindi giunta alla conclusione di ritenere che:

il servizio di intermediazione in
discussione [deve] essere considerato come parte integrante di un servizio
complessivo di cui l’elemento principale era un servizio di trasporto, e
dunque rispondente non alla qualificazione di “servizio della società dell’informazione”
[…] bensì a quella di servizio della “qualità dei trasporti”, ai sensi
dell’articolo 2 paragrafo 2, lettera d), della direttiva 2006/123.”[15]

Stante tale
inquadramento giuridico del servizio prestato da Uber, la Corte ha ritenuto
legittimi provvedimenti normativi che lo Stato spagnolo e francese avevano
emanato volti a vietare e reprimere l’esercizio di tale attività, tenuto conto
che i servizi di trasporto sono esplicitamente esclusi dall’ambito di
applicazione della direttiva 2006/123[16] (e pertanto
neppure soggetti all’obbligo di informazione alla Commissione di cui all’art. 3
della direttiva 2000/31).

2. Il caso Airbnb del 21.12.2019

La medesima procedura
argomentativa è stata seguita dalla Corte in un caso analogo,[17] ove si
è trovata impegnata a decidere in merito all’inquadramento giuridico del
servizio di intermediazione prestato dalla società Airbnb Ireland tramite la
propria piattaforma elettronica, con la quale vengono messi in contatto, dietro
retribuzione, potenziali locatari con locatori, professionisti o meno, che
offrono servizi di alloggio di breve durata.

La questione era sorta in quanto l’associazione francese per l’alloggio e il turismo professionale (AHTOP) aveva presentato una denuncia nei confronti di Airbnb Ireland, lamentando che la società di diritto irlandese svolgesse nel territorio francese un’attività di mediazione immobiliare, soggetta secondo le normative interne (legge Houget) ad un obbligo di licenza.

Airbnb Ireland, negando di esercitare attività di agente immobiliare, si è costituita in giudizio rivendicando il diritto di libertà di stabilimento e deducendo l’inapplicabilità nei suoi confronti della legge Houget a causa della sua incompatibilità con la direttiva 2000/31, asserendo di operare nel territorio francese unicamente in qualità di società dell'informazione.

La Corte riprendendo quanto deciso nelle precedenti sentenze Uber, ha nuovamente affermato il principio di diritto che per potere riconoscere la natura giuridica di società dell’informazione, non è sufficiente che vengano unicamente soddisfatte le quattro condizioni cumulative di cui all’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della succitata direttiva 2015/1535, ma è altresì necessario verificare se risulti che:

detto
servizio di mediazione costituisce parte integrante di un servizio globale il
cui elemento principale è un servizio al quale va riconosciuta una diversa
qualificazione giuridica
”.

La Corte ha ritenuto che i servizi prestati dalla piattaforma relativi a presentare le offerte in maniera coordinata, con aggiunta di strumenti per la ricerca, la localizzazione e il confronto con tali offerte, costituisce l’elemento principale del servizio e non possono quindi essere considerati semplicemente accessori di un servizio al quale va applicata la differente vesta giuridica di prestazione di alloggio.[18] Contrariamente, tutti questi servizi (analiticamente analizzati al considerando 19 della sentenza)[19] rappresentano il vero valore aggiunto della piattaforma elettronica che permettono di distinguerla dai propri concorrenti.[20]

Seguendo tale ragionamento, la Corte ha ritenuto che Airbnb Ireland non possa essere inquadrata agente immobiliare, posto che la sua attività non è mirata unicamente alla locazione di alloggio, bensì a fornire uno strumento che agevoli la conclusione di contratti vertenti su operazioni future. Si legge sul punto che:

un servizio come quello fornito dalla
Airbnb Ireland non risulta per nulla indispensabile alla realizzazione di
prestazioni di alloggio sia dal punto di vista dei locatari che dei locatori
che vi fanno ricorso, posto che entrambi dispongono di numerosi altri canali […].
La mera circostanza che la Airbnb Ireland entri in concorrenza diretta con
questi ultimi canali
, fornendo ai suoi utenti, ossia tanto ai locatori come
ai locatari, un servizio innovativo basato sulle particolarità di un’attività
commerciale della società dell’informazione non consente di ricavare da ciò
il carattere indispensabile ai fini della prestazione di un servizio di
alloggio.

Stante la natura giuridica di Airbnb Ireland di società dell’informazione, la Corte ha dichiarato che la stessa non è assoggettata all'obbligo di licenza imposto dalla normativa francese (legge Houget), in quanto limitativa della libera circolazione dei servizi, rilevando altresì che tale provvedimento normativo non era comunque stato notificato alla Commissione in conformità dell’art. 3 della direttiva 2000/31.

Molto interessante notare come la Corte sia giunta ad una diversa decisione rispetto al caso Uber, riconoscendo la natura di servizio della società dell’informazione, sul presupposto che Airbnb Ireland non esercita un’influenza decisiva sulle condizioni della prestazione dei servizi di alloggio ai quali si ricollega il proprio servizio di mediazione, tenuto conto che la stessa non determina né direttamente, né indirettamente i prezzi delle locazioni e non effettua tantomeno la selezione dei locatori o degli alloggi proposti in locazione sulla sua piattaforma.[21]

Dallo studio delle due sentenze, si può quindi rilevare che è l'indipendenza e il mancato controllo sul soggetto che si avvale della piattaforma elettronica per promuovere il proprio servizio, un elemento centrarle per comprendere se la piattaforma online eroghi o meno un servizio di intermediazione, inquadrabile come servizio della società dell'informazione e che tale aspetto deve essere valutato analizzando il rapporto nella sua interezza.

Le sentenze qui sopra riportate hanno certamente un peso assai rilevante non solo da un punto di vista giuridico, in quanto pongono le basi per inquadrare delle figure che occupano sempre più un ruolo fondamentale del nostro tessuto economico e sociale.


[1] Art. 56
TFRUE “Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera
prestazione dei servizi all'interno dell'Unione sono vietate nei confronti dei
cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello
del destinatario della prestazione
.”

[2] Direttiva
2006/123/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006,
relativa ai servizi nel mercato interno.

[3] Tale direttiva
definisce all’art. 4, paragrafo 1, come “‘servizio’: qualsiasi attività
economica non salariata di cui all’articolo 50 del trattato fornita normalmente
dietro retribuzione
.”

[4] Id.
Considerando n. 1.

[5] Id.
Considerando n. 2.

[6]
Regolamento del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli
utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, in vigore a decorrere
dal 12.7.2020.

[7]
Direttiva che ha abrogato e sostituito la precedente direttiva
98/34/CE
, che definiva i servizi

[8]
Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo relativa a taluni aspetti giuridici
dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio
elettronico, nel mercato interno (“direttiva sul commercio elettronico”)

[9] La
direttiva definisce: “a distanza: un servizio fornito senza la
presenza simultanea delle parti.

[10] La
direttiva definisce: “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine
e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento
(compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è
interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici
o altri mezzi elettromagnetici.

[11] Cfr.
sul punto Sentenza
del 19.12.2019
Airbnb Irland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels (AHTOP).

[12] Sentenza
del 20 dicembre 2017
, Associación Profesional Elite Taxi vs. Uber Systems
SpainSL,

[13] Sentenza
del 10 aprile 2018
, Uber France s.a.s.

[14] Id. 19

[15] Id. 40.

[16] Cfr.
art. 2, paragrafo 2, lettera d) direttiva 2006/123

[17] Sentenza
del 19.12.2019
Airbnb Ireland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels.

[18] Sentenza
del 19.12.2019 Airbnb Irland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels (AHTOP), n. 54

[19] Id. Nel
considerando 19 elenca in maniera analitica i servizi effettivamente offerti da
Airbnb che sono “Oltre al servizio consistente nel mettere in contatto
locatori e locatari tramite la sua piattaforma elettronica di centralizzazione
delle offerte, la Airbnb Ireland propone ai locatori un certo numero di altre
prestazioni, quali uno schema che definisce il contenuto della loro offerta, in
opzione, un servizio di fotografia, parimenti in opzione, un’assicurazione per
la responsabilità civile nonché una garanzia per i danni fino a un importo pari
a EUR 800 000. In aggiunta, essa mette a loro disposizione un servizio
opzionale di stima del prezzo della loro locazione alla luce delle medie di
mercato ricavate da detta piattaforma. Peraltro, se un locatore accetta un
locatario, quest’ultimo trasferisce alla Airbnb Payments UK il prezzo della
locazione al quale va aggiunto un importo, che varia dal 6% al 12% di detto
ammontare, a titolo delle spese e del servizio a carico della Airbnb Ireland.
La Airbnb Payments UK custodisce i fondi per conto del locatore dopodiché, 24
ore dopo l’ingresso del locatario nell’alloggio, li trasmette al locatore
mediante bonifico, consentendo così al locatario di avere la sicurezza dell’esistenza
del bene e al locatore la garanzia del pagamento. Infine, la Airbnb Ireland ha
istituito un sistema mediante il quale il locatore e il locatario possono
formulare un giudizio mediante un voto che va da zero a cinque stelle, voto
consultabile sulla piattaforma elettronica in questione
.”

[20] Id. 64

[21] Id. 68


contratto di licenza e nomativa antitrust. Hello Kitty

Contratto di licenza e normativa antitrust: Il caso Hello Kitty.

Il produttore può bloccare le vendite del proprio licenziatario? Il contratto di licenza è sottoposto alla normativa antitrust? Alcune risposte dallo studio dei casi Hello Kitty, Campari e Grundig.

Da decenni il legislatore europeo si è trovato a dovere risolvere il potenziale conflitto che sussiste tra le regole di concorrenza, che si oppongono ad ogni misura suscettibile di restringere il libero mercato all’interno dell’UE, e proteggere i titolari di diritti di proprietà intellettuale di disporre a titolo esclusivo del bene da questi detenuto.

Ecco che si pone la questione di comprendere in che modalità e in che limiti le regole sulla concorrenza e l'esercizio dei DPI possono limitarsi a vicenda.

L'impostazione che sin da subito è stata adottata dal legislatore europeo, è stata quella, da un lato, di assegnare un ruolo centrale alla creazione di un vasto spazio economico unificato[1] e, dall’altro lato, prevedere (con l’art. 36 TFUE) che anche la tutela della proprietà industriale, possa derogare al divieto di apporre restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito di beni, purché

"tali divieti o restrizioni non [costituiscano] una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri.”

Qui di seguito si cercherà di ripercorrere in estrema sintesi, quello che è stato il processo di armonizzazione normativa e giurisprudenziale seguito dalle Istituzioni europee, volto a trovare un bilanciamento tra regole apparentemente tra loro contraddittorie.

1. Contratto di licenzia e normativa antitrust dagli ’60 ad oggi.

Già negli anni ’60 la Corte di Giustizia Europea per la prima volta ha preso atto di tale potenziale conflitto tra l’esistenza dei DPI (che certamente non vengono messi in discussione dal diritto dell’Unione Europea) ed il loro esercizio, che può trovare limiti nelle norme del Trattato sulla concorrenza, di cui all'art. 101.

Tale pietra miliare è rappresentata dal caso Grundig[2] (già brevemente analizzato sotto l’aspetto delle vendite parallele all’interno dell’UE): un produttore (Grundig) aveva concordato con la propria licenziataria francese (Costen), di fare ricorso ad uno strumento riconosciutogli dalla normativa nazionale francese (la registrazione di un marchio della soc. Grundig in favore della Costen), di fatto con il solo ed unico fine di isolare tale territorio dalle vendite parallele dei prodotti Grundig in Francia, così assicurando una esclusiva assoluta al licenziatario. La Corte ha ritenuto nullo tale accordo in quanto contrario alle norme sulla concorrenza europea; si legge appunto che:

l’articolo 36, il quale limita la portata delle norme relative alla liberalizzazione degli scambi contenute nel titolo I, capo 2, del trattato, non può restringere l’ambito di applicazione dell’articolo [101].”

In pratica, seppure l’accordo siglato tra le parti non infrangesse le norme di diritto industriale interno, la Corte lo ha ritenuto illegittimo, in quanto aveva di fatto portato ad un isolamento del mercato francese, consentendo di praticare per i prodotti prezzi sottratti ad una efficace concorrenza.

Negli anni ’70, la Corte conferma tale principio nella sentenza Sirena,[3] ove viene nuovamente confermato che:

gli artt. [101] e [102] del trattato non ostano all'esistenza del diritto all'uso esclusivo di un marchio, che sia stato attribuito a chi di dovere da uno Stato membro. Tuttavia, l'esercizio di tale diritto può ricadere sotto detti articoli qualora ne ricorrano i presupposti.”

Nuovamente, con il caso Bitter Campari del 1977,[4] la Commissione ha ritenuto applicabile l’art. 101 ad un contratto di licenza di marchio, tramite il quale la produttrice aveva concesso ai propri licenziatari il diritto di fabbricare i prodotti concessi in licenza in rigorosa osservanza delle istruzioni impartite dalla licenziante, nonché gestirne la commercializzazione, seppure con delle forti limitazioni alle esportazioni.

La Commissione, ritenuto il contratto soggetto alla disciplina antitrust, ha concesso all’accordo l’esenzione ex art. 101 § 3, considerando che le limitazioni imposte da Campari-Milano ai propri distributori contribuivano

“a migliorare la produzione e la distribuzione dei prodotti, [a] perfezionare le tecniche di fabbricazione […], a costruire nuovi stabilimenti, [nonché ad] intensificare i propri sforzi di promozione del marchio [raddoppiando] il volume complessivo delle vendite.”[5]

Successivamente, negli anni ’90 e ’00, la Commissione ha nuovamente considerato alla stregua di un accordo di distribuzione dei contratti di licenzia di marchio nei casi Mooesehead/Whitbread[6] e Der Grüne Punkt,[7] andando così di fatto a rafforzare una tesi già ormai consolidata.

Siamo quindi giunti nel 2004, anno in cui la Commissione ha pubblicato le “Linee direttrici all’applicazione dell’art. 101”, ove non si è fatta mancare di ribadire il concetto già più volte sostenuto,[8] argomentando che sia i DPI, che la concorrenza sono entrambi necessari per favorire le innovazioni e per assicurarne lo sfruttamento competitivo.[9]

Nel 2010 è quindi entrato in vigore il Regolamento 330/2010, che ha introdotto con l’art. 2 § 1 il cd. principio dell’”esenzione universale”, in base al quale sono consentite tutte le restrizioni della concorrenza, che non siano espressamente vietate. In particolare, all’art. 2 § 3 il legislatore europeo ha voluto “mettere nero su bianco”, che l’esenzione si estende anche alle “disposizioni relative alla cessione all’acquirente o all’uso da parte dell’acquirente di diritti di proprietà intellettuale” che abbiano però carattereaccessorio[10].”

Il carattere dell’accessorietà del DPI, rispetto all’elemento commerciale è uno strumento interpretativo assai rilevante, per comprendere quali contratti di licenza di DPI, rientrino nel campo di applicazione del regolamento di esenzione per categoria. Gli Orientamenti della Commissione hanno chiarito sul punto che:

l’oggetto primario dell’accordo non deve essere la cessione di DPI o la concessione in licenza di DPI, bensì l’acquisto, la vendita o la rivendita di beni o servizi, mentre le disposizioni relative ai DPI sono finalizzate all’esecuzione dell’accordo verticale.[11]

Ciò comporta che il rapporto fra le parti deve avere per oggetto (principale) la compravendita di beni e i DPI, invece, il ruolo (appunto “accessorio”) di “facilitare l’uso, la vendita o la rivendita di beni o servizi da parte dell’acquirente o dei suoi clienti”.[12]

Quindi, qualora un contratto di licenzia rientri nel campo di applicazione dell’art. 101, le clausole di limitazione pattizia alla libera concorrenza ivi eventualmente contenute, saranno soggette alla rigorosa disciplina europea in materia disciplinata appunto dal regolamento 330/2010.

Tale elemento di “accessorietà” è stato trovato in una interessantissima decisione del 2019,[13] con cui la Commissione ha inflitto alla società giapponese Sanrio una multa di 6,2 milioni di euro, per avere stipulato accordi di licenza per la produzione e commercializzazione di prodotti (tra cui rientrava il conosciuto marchio “Hello Kitty”) che violavano le norme dell'UE in materia di concorrenza. Si legge nel dispositivo della decisione che la Sanrio aveva introdotto una serie di misure dirette volte a limitare le vendite al di fuori del territorio di competenza da parte dei licenziatari, nonché misure volte ad incoraggiare in modo indiretto il rispetto delle restrizioni relative ai territori di competenza (ad esempio l’obbligo di utilizzo di una lingua specifica su un prodotto).[14]

2. Contratto di licenzia ed esaurimento del marchio.

Dopo avere brevemente analizzato quelli che sono i limiti che i licenzianti possono imporre alle esportazioni e vendite effettuate dai propri licenziatari, si vuole qui di seguito analizzare, se e in che misura, il titolare di un DPI possa opporsi all’importazione parallela da un altro Stato Membro di un prodotto, ivi precedentemente messo in commercio da parte di un proprio licenziatario.

Come si è già avuto modo di analizzare, l’ordinamento europeo garantisce la libertà (fondamentale) della circolazione delle merci; figlio di tale libertà è il principio di esaurimento comunitario, introdotto con Direttiva Europea 2008/95/CE all’articolo 7 e recepito dal nostro ordinamento con l’art. 5 c.p.i.[15] (sul punto cfr. articolo La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley.)

In base a tale principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà industriale immette direttamente o con il proprio consenso in commercio un bene nel territorio dell’Unione europea, questi perde le relative facoltà di privativa. L’esclusiva è quindi limitata al primo atto di messa in commercio, mentre nessuna esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare della privativa, sulla circolazione del prodotto recante il marchio.

La prassi decisionale della giurisprudenza europea ha chiarito che si ha il consenso anche quando l’immissione in commercio sia stata effettuata da un’impresa controllata dal titolare del diritto di proprietà intellettuale o da un’impresa, di regola un licenziatario, a ciò autorizzata dal titolare.[16] Si legge, infatti,

“può opporsi all'importazione da un altro Stato membro di prodotti d'aspetto identico al modello depositato, purché i prodotti di cui trattasi siano stati messi in circolazione nell'altro Stato membro senza l'intervento od il consenso del titolare del diritto o di una persona ad esso legata da rapporto di dipendenza giuridica od economica.”[17]

Certamente diversa sarebbe invece la situazione, se la prima immissione fosse stata effettuata da un soggetto terzo, oppure se a seguito dell’immissione sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio.

In tali casi, l’Ordinamento prevede degli strumenti di tutela, che sono stati già oggetto di breve analisi (cfr. articolo “La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley.”), al quale ci si richiama.

_______________________ 

[1] Il Mercato europeo comune (MEC) nasce il 25 marzo 1957 con la firma dei trattati di Roma, entrati poi in vigore il 1° gennaio 1958.

[2] Sentenza Grundig-Costen, 13.7.1966. In particolare, il produttore Grundig al fine di garantire un isolamento del mercato francese, oltre ad avere imposto numerosi divieti contrattuali al proprio concessionario (la soc. Consten), aveva altresì fatto ricorso ai DPI, concludendo con Consten un accordo, in forza del quale Grundig avrebbe creato un marchio Gint (Grundig International) e che tale marchio sarebbe stato depositato in ogni Stato Membro a nome del concessionario esclusivo operante nel paese considerato (per la Francia, appunto, la società Costen); tale marchio sarebbe stato poi apposto su tutti gli apparecchi prodotti.

Ciò avrebbe avuto il fine, di fatto, di ostacolare le importazioni parallele all’interno dei vari paesi, posto che l’’importazione (ad es. in Francia) dei prodotti recanti il marchio Gint, avrebbe costituito una contraffazione, posto che solamente il distributore esclusivo di quel paese godeva del diritto di utilizzare quel marchio. Sul punto cfr. PAPPALARDO, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 870, e ss., 2018, UTET.

[3] Sentenza del 18.2.1971.

[4] Decisione Bitter Campari, 23.12.1977.

[5] Id. III, A, 1.

[6] Decisione 23.3.1990.

[7] Decisione 20.4.2001.

[8] Linee direttrici sull'applicazione dell'articolo 101 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea agli accordi di trasferimento di tecnologia, n. 7.: “Il fatto che la legislazione in materia di proprietà di beni immateriali conceda diritti esclusivi di sfruttamento non significa che tali diritti siano esclusi dall'applicazione delle regole di concorrenza. L'articolo 101 del trattato si applica in particolare agli accordi con i quali il titolare concede in licenza ad un'altra impresa lo sfruttamento dei suoi diritti di proprietà di beni immateriali”

[9] Id., n. 7 “In effetti, sia la legislazione in materia di proprietà di beni immateriali sia quella in materia di concorrenza perseguono lo stesso obiettivo generale, ovverosia accrescere il benessere dei consumatori e favorire un'attribuzione efficiente delle risorse. L'innovazione costituisce una componente dinamica ed essenziale di un'economia di mercato aperta e competitiva. I diritti di proprietà di beni immateriali favoriscono la concorrenza dinamica, in quanto incoraggiano le imprese a investire nello sviluppo o nel miglioramento di nuovi prodotti e processi; la concorrenza agisce in maniera analoga, in quanto spinge le imprese a innovare. Pertanto, i diritti di proprietà di beni immateriali e la concorrenza sono entrambi necessari per favorire le innovazioni e per assicurarne lo sfruttamento competitivo.”

[10] PAPPALARDO, op. cit. pag. 338.

[11] Orientamenti sulle restrizioni verticali, n. 35.

[12] Id. n. 36.

[13] Decisione del 9.7.2019.

[14] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_19_3950.

[15] Art. 5, comma 1, c.p.i. (Esaurimento), “Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo.”

[16] L’esaurimento si verifica quando il prodotto tutelato sia stato immesso in commercio dal titolare del diritto “col suo consenso o da persona a lui legata da vincoli di dipendenza giuridica o economico” (sent. Keurkoop, cit., n. 25).  Sul punto Cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 875, 2018, UTET.

[17] Sentenza Keurkoop, 14.9.1982.


Vendita di beni, giurisdizione e incoterms

Vendita di beni, giurisdizione e Incoterms (Wx-Works, FCA, CTP e CIF) .

In che maniera l'inserimento di una clausola Inconterms (ex-works, FCA, CIF), può influire sulla giurisdizione in caso di vendita di beni mobili? Brevi cenni sulla normativa europea e sugli sviluppi giurisprudenziali della giurisprudenza italiana ed europea.

1. Giurisdizione, vendita e incoterms: brevi cenni sulla normativa europea

In caso di compravendita di beni in ambito europeo, le parti hanno la facoltà di concordare in anticipo quali giudici saranno competenti a decidere su eventuali controversie che possano insorgere tra loro. Tale principio, di deroga del foro, è disciplinato dall’art. 25 del Regolamento UE 1215/2012,[1] che prevede come condizione di validità il fatto che l’accordo attributivo della giurisdizione sia stato:

  • concluso per iscritto o provato per iscritto;[2]
  •  in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; o
  • nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato.

Qualora le parti non abbiano espressamente formulato tale scelta, la giurisdizione sarà principalmente regolata dai seguenti principi:

  • il principio generale del foro del convenuto (art. 4 del Regolamento) e
  • il principio dell'”esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio” (art. 7 del Regolamento).

Con specifico riguardo a tale secondo opzione, l’art. 7 del Regolamento, dispone che una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro:

  1. in materia contrattuale, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio;[3]
  2. ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è: nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al con­tratto.”[4]

Leggendo tale norma, non si comprende appieno cosa debba intendersi per “luogo di consegna”, ossia se si debba considerare tale luogo quello in cui è avvenuta la consegna materiale al venditore, oppure se possa ritenersi sufficiente il luogo di consegna al vettore.

Per sciogliere tale dilemma è venuta in soccorso la Corte di Giustizia,[5] affermando che:

L’art. 5, punto 1, lett. b), primo trattino, del regolamento n. 44/2001[6] deve essere interpretato nel senso che, in caso di vendita a distanza, il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto deve essere determinato sulla base delle disposizioni di tale contratto

Se non è possibile determinare il luogo di consegna su tale base, senza far riferimento al diritto sostanziale applicabile al contratto,[7] tale luogo è quello della consegna materiale dei beni mediante la quale l’acquirente ha conseguito o avrebbe dovuto conseguire il potere di disporre effettivamente di tali beni alla destinazione finale dell’operazione di vendita.”

2. Vendita di beni, giurisidizione ed incoterms: le pronuncie delle Sezioni Unite e della Corte di Giustizia.

A tale principio si è adeguata la giurisprudenza italiana: le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che in tema di vendita internazionale di beni mobili, qualora il contratto abbia ad oggetto merci da trasportare (se non diversamente concordato dalle parti), il “luogo di consegna” deve essere individuato nel luogo di recapito finale della merce, ossia ove i beni entrano nella disponibilità materiale e non soltanto giuridica dell’acquirente, con conseguente giurisdizione

del giudice del [luogo di recapito finale della merce] rispetto a tutte le controversie reciprocamente nascenti dal contratto, ivi compresa quella relativa al pagamento dei beni alienati.[8]

Fissato tale principio, nel 2011 alla Corte di Giustizia[9] è stato sottoposto un nuovo quesito, ossia se nel contesto dell’esame di un contratto, al fine di determinare il luogo di consegna, il giudice debba anche tenere conto degli Incoterms. La Corte si è così espressa:

“il giudice nazionale adito deve tenere conto di tutti i termini e di tutte le clausole rilevanti di tale contratto che siano idonei a identificare con chiarezza tale luogo, ivi compresi i termini e le clausole generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale, quali gli Incoterms («International Commercial Terms»), elaborati dalla Camera di commercio internazionale, nella versione pubblicata nel 2000.

In particolare,

per quanto riguarda l’Incoterm «Ex-Works», […] tale clausola comprende […] anche le disposizioni dei punti A4 e B4, intitolati rispettivamente «Delivery» e «Taking delivery», che rinviano al medesimo luogo e consentono quindi di individuare il luogo di consegna dei beni.

La Corte UE ha quindi stabilito che gli Incoterms, possono essere un elemento che permette al giudice di comprendere se le parti abbiano o meno concordato un luogo di consegna differente rispetto al luogo di recapito finale. In particolare, con l’accettazione delle parti del termine “ex-works Iconterms”, le parti concordano che la consegna materiale della merce debba avvenire presso la sede del produttore e, pertanto, in caso di mancata deroga di competenza delle parti, il giudice competente a decidere sarà quello della sede del venditore.

La giurisprudenza nazionale ha recepito tale orientamento, precisando comunque che il principio generale della consegna materiale può essere derogato unicamente se ciò si evince sulla base di una “chiara ed esplicita” determinazione contrattuale. La Cassazione[10] ha quindi negato che possa “assumere valore la dicitura ex Works unilateralmente inserita nelle fatture emesse da parte venditrice, dovendo tale modalità di consegna essere stata concordata tra le parti.

La Corte di Cassazione, ha ritenuto che tali caratteristiche di chiarezza, non risultano da tutti i termini previsti negli Incoterms, posto che per essere valida anche ai fini della determinazione della giurisdizione e, quindi, assumere prevalenza, deve essere chiara, esplicita ed inequivocabile.

È stato quindi negato che le clausole CTP,[11] CIF[12] e FCA[13] palesino una chiara ed univoca volontà delle parti di stabilire il luogo di consegna della merce, in deroga al criterio fattuale del recapito finale, atteso che tali clausole sono piuttosto intese a regolamentare la ricaduto del rischio sul compratore.[14]


[1] Regolamento che ha sostituito il precedente Regolamento UE 44/2001.

[2] Con riferimento alla forma scritta, essa “comprende qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo della competenza” ex art. 25.2 del reg. La Corte di giustizia ha chiarito che le finalità di tale articolo è “quella di equiparare determinate forme di comunicazione elettronica alla forma per iscritto, in vista di semplificare la conclusione dei contratti con mezzi elettronici, poiché la comunicazione delle informazioni sono accessibili attraverso uno schermo.

Affinché la comunicazione elettronica possa offrire le stesse garanzie, in particolare in materia di prova, è sufficiente che sia ‘possibile’ salvare e stampare le informazioni prima della conclusione del contratto.” (CG UE 21.5.2015, CarsOnTheWeb.Deutschland GmbH). Le Sez. Un. della Cassazione 2009 n. 19447, hanno altresì affermato che la forma scritta di cui all’art. 23.2 del reg. 01/44 potesse essere integrata dalla registrazione delle fatture emesse dalla controparte sui sistemi elettronici interni della società.

[3] La giurisprudenza europea, ha affermato che, ove sussistano più obbligazioni derivanti dallo stesso contratto “il giudice adito, per determinare la propria competenza, si orienterà sul principio secondo il quale l’accessorio segue il principale; in altre parole sarà l’obbligazione principale, fra le varie in quesitone, quella che determinerà la competenza” CG UE 15.1.1987, Shenavai;  15.6.2017 Saale Kareda.

[4] Tale clausola, riprende parimenti quella di cui all’art. 5, 1, lett. b. del reg. 44/2001. In particolare, con tale disposizione il legislatore comunitario ha inteso rompere esplicitamente, per i contratti di vendita, con la passata soluzione secondo cui il luogo di esecuzione era determinato, per ciascuna delle obbligazioni controverse, in conformità del diritto internazionale privato del giudice adito.

Designando il luogo di esecuzione, il legislatore comunitario ha voluto centralizzare la competenza giurisdizionale nel luogo di adempimento e determinare una competenza giurisdizionale unica per tutte le domande fondate sul contratto di vendita. In materia cfr. anche CG UE 3.5.2008, Color Drack. Sul punto cfr. Pirruccio, Contratti inutilizzabili se non esplicite le clausole Incoterms, Guida al Diritto, 35-36, 2019, Gruppo24Ore.)

[5] Sentenza Car. Trim GmbH C-381/08.

[6] Disposizione che è stata parimenti ripresa dall’art. 7, co. 1, lett. b) del reg. 1215/2012.

[7] Secondo la dottrina (Pirruccio, op. cit.) ai fini dell’individuazione del “luogo di consegna” dei beni non è possibile fare riferimento alle definizioni del diritto nazionale (quale l’art. 1510 c.c.) dalla cui applicazione rischierebbe di essere vanificata la finalità del Regolamento. Attenzione (!), tale ultima disposizione, può invece essere utilizzata (almeno come spunto difensivo) nel caso in cui la vendita abbia carattere extra UE e, quindi, non si applica il Regolamento: cfr. Cass. Civ. 1982 n. 7040.

[8] Cass. Civ. Sez. Un. 2009 n. 21191, Cass. Civ. 2014 n. 1134. Attenzione(!) in caso di mancata applicazione del diritto Europeo (ad es. per le vendite extra UE): contra Cass. Civ. sez. Un. 2011 n. 22883.

[9]Sentenza Electrosteel Europe SA – Causa
 C‐87/10.

[10] Cass. Civ. ordinanza n. 24279 del 2014.

[11] Tribunale di Padova, 3.5.2012.

[12] Cass. Civ. 2018 n. 32362.

[13] Cass. Civ. 2019 n. 17566.

[14] In materia cfr anche http://www.membrettilex.com/ruolo-degli-incoterms-2010-nella-determinazione-del-giudice-competente/.


Distribuzione selettiva ed esclusiva. Sistema misto

Distribuzione selettiva ed esclusiva: il sistema misto funziona?

Cosa succede se un produttore applica in ambito europeo un sistema misto (distribuzione selettiva ed esclusiva). Quali sono i principali vantaggi e svantaggi?

Come si è già avuto modo di rilevare, il Legislatore Europeo è da sempre
impegnato a trovare un bilanciamento tra il principio del libero scambio delle
merci e l’interesse dei produttori di creare delle reti distributive
competitive.

Il compromesso a cui è arrivato il Legislatore è oggi disciplinato dal Regolamento
330/2010
sulle vendite verticali, che stabilisce quali accordi tra imprese
appartenenti alla medesima rete distributiva siano soggetti al divieto di
intese imposto dall’art.
101, par. 1 del Trattato Europeo
e quali, invece, beneficino dell’esenzione
da tale divieto (ex art. 103, par. 3).

In sostanza, viene conferito al produttore di scegliere tra due modalità
di distribuzione: una generale utilizzabile da ogni tipologia di produttore (quella
esclusiva) e una particolare per specifiche situazioni (quella selettiva) (cfr.
sul punto La
distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi
e Clausole
di esclusiva e accordi economici verticali in ambito europeo: e-commerce ed
esclusiva territoriale
).

Con la distribuzione esclusiva, il fornitore divide i mercati in
cui opera attraverso la nomina di distributori esclusivi, i quali si impegnano
ad acquistare le merci e a promuoverne la vendita in maniera tendenzialmente
libera.

L’art. 4 lett. a) del Regolamento prevede, infatti, che il produttore non
può restringere, né direttamente, né indirettamente,[1] la
facoltà del distributore esclusivo di determinare il prezzo di rivendita,
fatta salva la possibilità di imporre un prezzo massimo o raccomandare un
prezzo di vendita.[2]

Il produttore, inoltre, non potrà impedire, ex art. 4 lett. a) del
Regolamento, che il distributore effettui
delle vendite attive
[3]
all’interno del territorio, salva la facoltà di riservare a sé dei clienti
direzionali e impedirgli la vendita al dettaglio, al fine mantenere tale
livello della catena commerciale, distinto da quello al dettaglio.[4]

Da ultimo il distributore avrà altresì il diritto di effettuare delle
vendite fuori dal territorio, a condizione che le stesse costituiscano risposta
ad ordini non sollecitati di singoli clienti che si trovano fuori dal
territorio (cd. vendite
passive
).[5]

È chiaro che tale libertà del distributore esclusivo è spesso incompatibile
con quelli che sono gli interessi di alcune tipologie di produttori, in
particolare di chi opera nel lusso o sviluppi prodotti tecnicamente molto
complessi
, che sarà maggiormente interessato, piuttosto che ad una
distribuzione capillare, al fatto che i propri prodotti vengano rivenduti
unicamente da rivenditori autorizzati.

Come
si è già avuto modo di trattare
, eccezionalmente per specifiche situazioni
è prevista la facoltà per il produttore di creare un sistema di distribuzione
selettiva
, che gli consente, ex art. 4 lett b), iii),  di vietare ai membri del sistema selettivo di
vendere a distributori non autorizzati nel territorio che il produttore ha
riservato a tale sistema: in un sistema selettivo i beni possono passare solo
dalle mani di un’impresa ammessa alla rete a quelle di un'altra, ovvero a
quelle dell’utilizzatore finale.[6]

In osservanza del principio del libero scambio delle merci, quale
contropartita del diritto del produttore di imporre tali limitazioni alla
libertà di rivendita dei membri del sistema, il Regolamento:

  • all’art. 4, lett b), iv), conferisce agli stessi, la libertà di effettuare le cd. vendite incrociate, che consistono nell’approvvigionarsi senza ostacoli presso “altri distributori designati della rete, operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale”[7];
  • all’art. 4, lett. c) impedisce al produttore di limitare ai membri di un sistema distribuzione selettiva, operanti nel commercio al dettaglia, le vendite attive o passive agli utenti finali.[8]

Ciò premesso, molto spesso un produttore, per questioni pratiche, gestionali ed economiche, non è in grado di applicare per l’intero mercato europeo un unico sistema distributivo e riserva la distribuzione selettiva unicamente per i Paesi che sono per lui più strategici. In tale ambito, si pone la questione di comprendere, in primo luogo se tale sistema “misto” sia legittimo e, in secondo luogo, quali sono i rischi ad esso annessi.

1. Sistemi misti all’interno dello stesso territorio.

L’adozione di un sistema misto all’interno dello stesso territorio comporterebbe un conflitto di interessi tra il distributore esclusivo, che avrebbe il diritto di essere tutelato dalle vendite attive nel proprio territorio, e il distributore selettivo, che avrebbe il diritto di effettuare vendite attive e passive all’interno del territorio esclusivo, a norma del sopra richiamato art. 4, lett c) del Regolamento.

La Commissione si è domandata in merito alla legittimità di un sistema misto ed ha chiarito, tramite gli Orientamenti, che una siffatta combinazione non è ammissibileall’interno del territorio in cui il fornitore gestisce una distribuzione selettiva […] poiché renderebbe una restrizione delle venite attive o passive da parte dei rivenditori” incompatibile con l’art. 4, lett. c).[9]

2. Sistemi misti in territori differenti dell’UE.

Posto che il divieto degli Orientamenti di applicare un sistema misto si riferisce unicamente alla circostanza che lo stesso venga sviluppato all’interno dello stesso territorio, si desume implicitamente che il diritto antitrust non vieta al produttore di creare un sistema misto all’interno dei differenti Stati Membri.

Ciò non toglie che tale scelta, seppure legittima, possa comunque creare delle problematiche di non poco rilievo, consistenti principalmente nell’impossibilità del produttore di controllare:

  • le vendite provenienti dal territorio esclusivo, dirette al territorio selettivo;
  • le vendite provenienti dal territorio selettivo, dirette al territorio esclusivo.

Si vanno qui di seguito ad analizzare, assai brevemente, le singole fattispecie.


a) Vendite provenienti dal territorio esclusivo, dirette al territorio selettivo.

Sul fatto che al distributore esclusivo non possa essere impedito di effettuare vendite passive al di fuori del territorio e, quindi, anche all’interno di un sistema distributivo selettivo che il produttore ha riservato per un altro territorio, risulta piuttosto pacifico.

Più controverso (e impattante da un punto di vista commerciale) è la
questione se il distributore esclusivo possa effettuare anche delle vendite
attive all’interno del territorio selettivo
e, quindi, effettuare anche delle
vere e proprie campagne commerciali all’interno di tale territorio. Da una lettura
rigorosa del Regolamento si evince che l’art. 4, lett. b), i), vieta ai
distributori esclusivi di effettuare vendite attive “nel territorio
esclusivo o alla clientela esclusiva riservati al fornitore o da questo
attribuiti ad un altro acquirente”
e non estende tale divieto anche al
sistema distributivo.

Sul punto ad oggi non risultano precedenti giurisprudenziali che abbiano chiarito tale questione che rimane ancora aperta. In ogni caso, si ritiene possa essere legittima una clausola contrattuale che imponga al distributore esclusivo di effettuare vendite attive nel sistema selettivo, che, per le modalità in cui vengono presentate al pubblico, non creino pregiudizio all’immagine di lusso e di prestigio dei prodotti del produttore (sul punto cfr. anche La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley.).


b) Vendite provenienti dal territorio selettivo, dirette al territorio esclusivo.

I problemi per il produttore esclusivo, in caso in cui il produttore crei
un mercato misto, sono essenzialmente collegati al fatto che:

  • in primo luogo, ex art. 4, lett. c) del
    Regolamento, il produttore non può vietare ai dettaglianti autorizzati di
    effettuare delle vendite passive ed attive all’interno dell’UE. Ci si chiede se
    tra queste debbano essere anche incluse le vendite all’interno del
    territorio esclusivo
    , oppure se l’esclusiva del distributore lo protegge da
    tali azioni di vendita;
  • in secondo luogo, il produttore può vietare, ex
    art. 4, lett. b, iii), le vendite dei membri del sistema selettivo a rivenditori
    non autorizzati all’interno del territorio che il produttore stesso ha
    riservato a tale sistema. Ne consegue che, da una lettura restrittiva della norma,
    tale divieto non parrebbe potere essere esteso anche alle vendite che i
    distributori selezionati effettuino al di fuori del sistema distributivo
    selettivo
    : se si seguisse tale interpretazione, i distributori autorizzati potrebbero
    vendere liberamente all’interno di un differente territorio riconosciuto in
    esclusiva ad un distributore nominato dal produttore.

Con riferimento ai punti qui sopra richiamati, si fa presente che gli
Orientamenti dispongono che “ai rivenditori di un sistema di distribuzione
selettiva […] non possono essere imposte restrizioni tranne per proteggere un
sistema di distribuzione esclusiva gestito altrove.
[10]

Ci si trova in una situazione di grave incertezza interpretativa,
posto che da una lettura del dettato normativo, si propende per ritenere che il
titolare di una esclusiva non abbia il diritto di essere tutelato dalle “invasioni
di zona” da parte dei distributori selettivi, mentre gli Orientamenti farebbero
propendere per la tesi opposta.[11]

Unica cosa che è certa è che i rischi di creare un sistema misto sono molto elevati e che se tale strategia distributiva viene adottata dal produttore, nel medio-lungo periodo comporterebbero grandissime difficoltà nella gestione, soprattutto delle vendite parallele e delle reciproche e continue invasioni di zona.


[1] L’art. 4 lett. a) prevede, infatti, che l’imposizione
di prezzi fissi, non può avvenire neppure indirettamente, per effetto di
pressioni esercitate o incentivi offerti da una delle parti. Gli Orientamenti,
n. 48 elencano numerosi esempi di misure del genere e, in particolare “accordi
che fissano il margine del distributore, o il livello massimo degli sconti che
il distributore può praticare a partire da un livello di prezzo prescritto; la
subordinazione di sconti o del rimborso dei costi promozionali da parte del
fornitore al rispetto di un dato livello di prezzo; il collegamento del prezzo
di rivendita imposto ai prezzi di rivendita dei concorrenti; minacce,
intimidazioni, avvertimenti, penalità, rinvii o sospensioni di consegne o
risoluzioni di contratti in relazione all’osservanza di un dato livello di
prezzo
” In giurisprudenza, si richiama la decisione della Commissione, Caso Yamaha, 16.7.2003, nella quale sono stata riconosciuta come imposizione
indiretta dei prezzi la seguente clausola: i premi/bonus “saranno
concessi solo ai rivenditori che abbiano applicato, nelle loro azioni
pubblicitarie, i margini normali” e che “le azioni pubblicitarie e
promozionali che prevedano sconti superiori al 15% non sarebbero da noi
considerate normali.”

[2] Importante sottolineare che gli Orientamenti, n. 225
giustificano tale scelta del Legislatore Europeo, ritenendo che “’l’imposizione
di prezzi di rivendita può […] ridurre il dinamismo e l’innovazione al livello
di distribuzione [e così] impedire a dettaglianti più efficienti di entrare sul
mercato e/o di acquisire dimensioni sufficienti con prezzi bassi.”
D’altro
canto, viene altresì dato atto del fatto che “A volte l’imposizione di
prezzi di rivendita non ha soltanto l’effetto di limitare la concorrenza ma può
condurre, in particolare se determinata dal fornitore, a incrementi di
efficienza, che verranno valutati ai sensi dell’articolo 101, paragrafo
3 […].
L’imposizione di prezzi di rivendita più evitare un fenomeno di parassitismo
[…].  
Secondo la migliore Dottrina
(Pappalardo, 356, op. cit.) in attesa di decisioni che consentono di verificare
con tale apertura della Commissione, certamente il fondamento dell’approccio
aperto e positivo della Commissione, è preferibile considerarlo come la
conferma dell’assenza, nel diritto della concorrenza dell’UE, di divieti
automatici.

[3] Cfr.
Orientamenti, n. 51.

[4] Sul punto cfr. anche Orientamenti, n. 55.

[5] Cfr. Orientamenti, n. 51.

[6] Cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza
dell’Unione Europea
pag. 363, 2018, UTET.

[7] Sul punto gli Orientamenti, n. 58, dispongono che “[…]
un accordo o una pratica concordata non possono avere come oggetto diretto o
indiretto quello di impedire o limitare le vendite attive o passive dei
prodotti contrattuali fra i distributori selezionati, i quali devono rimanere
liberi di acquistare detti prodotti da altri distributori designati della rete,
operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale
.”

[8]

[9] N. 57.

[10] Orientamenti,
n. 56.

[11] Sul
punto cfr. Pappalardo, op. cit., 364.


geoblocking, diritto antitrust

Vendere online all'estero: legge applicabile, geoblocking e diritto antitrust.

Il presente articolo è volto a fornire al lettore degli spunti per strutturare una strategia di vendita online indirizzata ai mercati esteri, che tenga conto delle normative comunitarie sul geoblocking, delle normative dei Paesi in cui si intende esportare e, non da ultimo, del diritto antitrust.

1. Geoblocking: cos’è e quando si applica?

In primo luogo bisogna
analizzare la recente disciplina europea, introdotta con Reg.
28 febbraio 2018, n. 302/2018
, in vigore dal 3 settembre 2018, recante
misure volte a impedire i blocchi geografici ingiustificati (conosciuta anche
come “geoblocking”).

Il geoblocking è stato introdotto dall’UE con
il fine di assicurare che venga correttamente applicato anche al mercato
elettronico, uno dei principi fondanti dell’Unione Europea: la libera circolazione
delle merci.

Il nuovo Regolamento, si
propone dunque di impedire i blocchi geografici ingiustificati o altre forme di
discriminazione basate, direttamente o indirettamente, sulla nazionalità, sul luogo
di residenza o stabilimento dei clienti.

L’art. 3 di tale regolamento dispone
infatti che:

Un professionista [ossia un imprenditore/impresa]
non può bloccare o limitare attraverso l’uso di strumenti tecnologici o
in altro modo, l’accesso di un cliente alla sua interfaccia online per
motivi legati alla nazionalità, al luogo di residenza o al luogo di stabilimento
del cliente.”

Tale articolo prosegue:

“Un professionista
non può per motivi legati alla nazionalità
, al luogo di residenza, o al
luogo di stabilimento di un cliente, reindirizzare tale cliente ad una versione
della sua interfaccia online diversa da quella cui il cliente desiderava
accedere inizialmente
, per via della sua struttura della lingua usata o di
altre caratteristiche che la rendono specificamente destinata ai clienti con
una particolare nazionalità, luogo di residenza o luogo di stabilimento, a
meno che il cliente non vi abbia esplicitamente acconsentito
.”

Da un punto di vista concreto, il
Regolamento vieta la pratica per la quale venga impedito ad un utente, ad
esempio francese, di comperare un prodotto su sito italiano, in quanto viene reindirizzato
automaticamente su altro sito designato a gestire i clienti francesi.

Attenzione, con ciò non si
intente che il professionista non possa usare diverse versioni della propria
interfaccia online, al fine di rivolgersi a clienti provenienti da
Stati membri diversi[1]
(ad esempio la versione in lingua tedesca, per il mercato tedesco, quella
francese per la Francia, etc.), ma impone che le diverse versioni pensate per i
differenti mercati, possano essere accessibili da tutti i paesi dell’UE (un
francese, può vedere il sito italiano e le condizioni di vendita ivi contenute).

Sul punto, l’art. 3, comma 2,
punto 2 del Regolamento chiarisce infatti che:

in caso di reindirizzamento con l’esplicito
consenso del cliente, la versione dell’interfaccia online del professionista
cui il cliente desiderava accedere inizialmente deve restare facilmente accessibile
al cliente in questione.”

Ne consegue che il professionista non solo sarà libero di utilizzare diverse versioni della propria interfaccia online per rivolgersi a clienti provenienti da Stati membri diversi, ma anche di reindirizzare automaticamente il cliente ad una determinata versione dell’interfaccia, qualora l’utente abbia espresso il proprio consenso esplicito[2] ed a condizione che l’utente sia comunque libero di accedere a tutte le altre versioni della stessa interfaccia.


2. Geoblocking significa che devo vendere ovunque?

Un punto va chiarito: il nuovo Regolamento
cancella il blocco, ma non obbliga a vendere fuori dal proprio Paese.

Il geoblocking non limita la possibilità di decidere
di commercializzare i propri prodotti online in determinati Paesi, bensì vieta
che se il sito prevede la consegna unicamente in determinati paesi (per
semplificare, in Italia), venga impedito al cliente di altro Paese comunitario (Germania)
di acquistare online quel prodotto, ove accetti la consegna in Italia.[3]

Inoltre, se si prevede la commercializzazione
in più Paesi è consentita una differenziazione di prezzi, per tener conto, ad esempio,
dei diversi costi da sostenere per la consegna della merce, purché la scelta
non avvenga in maniera discriminatoria.

Infatti, l’art. 4, comma 1 del Regolamento
dispone che il geoblocking:

non impedisce ai professionisti di offrire condizioni generali di accesso, ivi compresi prezzi di vendita netti, che siano diverse tra Stati membri o all’interno di uno Stato membro e che siano offerte a clienti in un territorio specifico o a gruppi specifici di clienti su base non discriminatoria.”


3. A chi rivolgo la vendita?

Posto che la proposta di
vendita inserita online sul proprio sito comporta che la stessa sia visibile
da parte di tutti gli utenti della rete, in assenza di precisazioni si
applicherebbe la disciplina generale che prevede che se il professionista dirige
la propria attività di vendita in un determinato Stato estero, implicitamente fa
ritenere che la vendita sia rivolta anche ai clienti domiciliati in quel determinato
Paese.

Ne consegue che se il sito è
tradotto in tedesco è implicito che la vendita venga rivolta nei confronti di Germania,
Austria, Lichtenstein e Lussemburgo, così come se è tradotto in inglese, che la
stessa venga promossa nei confronti di (quasi) tutto il mondo.

Seppure la scelta di “massima
apertura” possa sembrare commercialmente molto conveniente, si invita a valutarla
prudenzialmente, avendo la stessa notevoli ripercussioni giuridiche (principalmente
collegate alla legge applicabile ai singoli contratti di vendita ed alla
violazione di eventuali norme straniere), fiscali (in particolare con
riferimento alla soggezione della transazione all’IVA del Paese di domicilio dell’acquirente)
e doganali (in caso di vendita Extra UE).

Pertanto, affinché non vi siano dubbi, una volta che si è valutato in quali Paesi si intende dirigere effettivamente la propria attività di vendita, è consigliato indicarlo direttamente nel sito e nelle condizioni generali di vendita.


4. Da quale legge e disciplinata la vendita?

Se le vendite sono rivolte solamente
ad un mercato (ad es., per semplificare, l’Italia), con consegna della merce
nel territorio di tale Paese e l’acquirente è un consumatore domiciliato in un diverso
Paese (ad es. Germania), che richiede che la consegna della merce avvenga in
Italia, tale vendita sarà regolata dal diritto italiano, senza che ci si debba preoccupare
di prevedere nelle condizioni generali di vendita di rispettare eventuali norme
imperative previste dalla Germania. [4]

Diverso discorso, invece, nel caso in cui l’ordine parte dalla Germania e la consegna della merce avvenga in territorio tedesco, in tal caso, la legge applicabile al contratto di vendita sarà il diritto tedesco e, nel caso in cui l’utente finale è un consumatore, tale scelta non potrà essere derogata, neppure con il consenso scritto delle parti.[5]


5. Violazione degli obblighi di informazione e normative straniere.

Se il sito prevede la vendita
anche in Paesi diversi dall’Italia, sarà necessario organizzarlo assicurandosi
che:

  • le condizioni generali di vendita rispettino gli obblighi di
    informazione al consumatore, di cui all’art. 6 del comma 1 della Direttiva
    2011/83/UE;[6]
  • le condizioni generali di vendita rispettino eventuali norme imperative
    dei Paesi in cui si intende esportare, diverse e/o ulteriori rispetto a quelle
    previste dalla legge italiana;
  • siano inseriti sul sito le informazioni commerciali richieste dallo
    Stato in cui si esporta.

Con riferimento ai sopracitati
obblighi informativi, si evidenzia che:

  • la limitazione alla consegna della merce deve risultare con chiarezza
    dal sito, sin dall’inizio dell’iter che porta alla conclusione del contratto, ex art. 8, comma 3 della
    Direttiva 2011/83/UE;[7]
  • dovranno essere nella lingua del consumatore (l’art. 8 comma 1 della Direttiva
    prevede l’obbligo di “informare il consumatore con un linguaggio semplice e comprensibile”).[8]

La sanzione in caso di
violazione degli obblighi d’informazione al consumatore consiste nell’estensione
del diritto di recesso da quattordici giorni, a dodici mesi e quattordici
giorni.[9]

Oltre al rischio di tale sanzione, in alcuni Paesi europei vi è altresì quello di subire una diffida e, nei casi più gravi, un’azione inibitoria davanti al Tribunale competente: la legge tedesca, ad esempio, prevede che in caso di clausole inefficaci nelle condizioni generali di vendita e di violazione delle norme a tutela dei consumatori, la diffida e/o azione inibitoria possa essere esperibile non solo dal consumatore, ma addirittura da un concorrente, ovvero da un’associazione di tutela dei consumatori.[10]


6. Possono i distributori e rivenditori vendere online?

Nel caso in cui il produttore si avvalga anche di distributori e rivenditori terzi per la commercializzazione dei propri prodotti, è opportuno ricordare brevemente quelli che sono i poteri di controllo nei confronti di tali soggetti, rimandando, per maggiori approfondimenti, alla sezione antitrust di questo blog.

Il Regolamento 330/2010 sulle vendite verticali e recenti sentenze della Corte di Giustizia Europea[11] hanno previsto che un produttore non può vietare ad un proprio distributore/rivenditore di vendere i prodotti acquistati attraverso un proprio sito internet, né commercializzare per mezzo di piattaforme digitali di terzi soggetti.

L’unico modo per limitare tale possibilità da parte di soggetti terzi è (per i prodotti di alta gamma, di lusso e tecnicamente sviluppati) quello di creare una rete distributiva selettiva, in cui i distributori e rivenditori si impegnano a vendere i beni oggetto del contratto, solamente a distributori selezionati sulla base di criteri oggettivi di carattere qualitativo stabiliti indistintamente e non discriminatorio per tutti i soggetti appartenenti alla rete.

In tal caso, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia,[12], un produttore è autorizzato ad imporre al proprio distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite internet, ma a condizione che tale attività di vendita online sia realizzata tramite una “vetrina elettronica” del negozio autorizzato e che venga in tal modo preservata l’aurea di lusso ed esclusività di questi prodotti (sul punto cfr. il Caso Amazon e Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).


[1] Confronta considerando n. 20
del Regolamento sul geoblocking.

[2] Il consenso una volta prestato, può essere ritenuto valido
anche per le visite successive dello stesso cliente alla stessa interfaccia
online, purché venga offerta la possibilità al cliente di revocarlo quando ritiene
opportuno. Sul punto cfr. considerando n. 20 del Regolamento sul geoblocking.

[3] Sul punto cfr. Stefano
Dindo, E-Wine, Aspetti gius-economici della comunicazione e distribuzione del vino
online, G. Giappichelli Editore, p. 41, 2018.

[4] In base all’art. 6, comma 1,
lett. a) e b) del Regolamento 593/2008.

[5] Cfr. nota precedente.

[6] Direttiva 2011/83/UE del
parlamento europeo e del consiglio del 25 ottobre 2011 sui diritti dei
consumatori. Importante, trattandosi di Direttiva (e non di Regolamento), la
stessa deve essere recepita con delle leggi nazionali, lasciando comunque i
Paesi membri liberi di scegliere la via normativa più consona per raggiungere gli
obiettivi ivi imposti; ne consegue che ogni Paese e libero di inserire degli
obblighi informativi ulteriori rispetto a quelli indicati nella direttiva stessa.

[7] Art. 3 Direttiva 2011/83/UE:
“I siti di commercio elettronico indicano in modo chiaro e leggibile, al più
tardi all’inizio del processo di ordinazione, se si applicano restrizioni
relative alla consegna e quali mezzi di pagamento sono accettati.”

[8] Attenzione! Tali parametri
di lingua devono essere inoltre rispettati anche per l’applicazione delle disposizioni
del GDPR. Sul punto cfr. Considerando n. 20 di tale Regolamento.

[9] Art. 10 comma 1 della Direttiva 2011/83.

[10] Cfr. Robert Budde, E-Wine,
Aspetti gius-economici della comunicazione e distribuzione del vino online, G.
Giappichelli Editore, p. 51 e ss., 2018.

[11] Cfr. sentenza Corte di
Giustizia nel caso Pierre Fabre C‑439/09.

[12] Sentenza del 6 dicembre 2017,  C-230/16 Coty Germany GmbH.


esaurimento del marchio e vendite parallele

Vendite parallele e principio dell'esaurimento del marchio.

I distributori non autorizzati possono effettuare delle vendite parallele? Quando ci si può avvalere del principio dell'esaurimento del marchio? I casi Amazon, Sisley e L'Oréal.

Come
si è già avuto modo di spiegare (cfr. La
distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi
), la
distribuzione selettiva ha la funzione di proteggere la commercializzazione dei
prodotti che, in funzione delle loro caratteriste, necessitano di un sistema di
rivendita più selezionato e curato rispetto ai prodotti di largo consumo.

In
tali casi, il produttore è portato non tanto a puntare sulla vastità e
capillarità della propria rete vendita, quanto a prediligere una limitazione dei
canali commerciali
, preferendo affidare i propri prodotti ad un ristretto
numero di rivenditori specializzati, scelti in funzione di determinati criteri
oggettivi dettati dalla natura dei prodotti: competenza professionale (per
quanto riguarda gli aspiranti distributori),[1] qualità
del servizio offerto, ovvero prestigio e cura dei locali nei quali i
rivenditori dovranno svolgere la loro attività.[2]

Tale sistema, regolamentato dal Regolamento UE 330/2010 sugli accordi verticali,[3] è conforme all’art. 101 § 3 del Trattato (e quindi non ricade nel divieto generale fissato dal § 1 di suddetto articolo), essenzialmente se:

  • la scelta dei rivenditori avvenga secondo criteri oggettivi di indole qualitativa, riguardanti la qualificazione professionale del rivenditore del suo personale e dei suoi impianti”,
  • che “questi requisiti siano richiesti indistintamente per tutti i rivenditori potenziali”,
  • e che “vengano valutati in modo non discriminatorio”.[4]

Con
riferimento alla tipologia di prodotti per i quali può essere
giustificato il ricorso ad un sistema selettivo, seppure il Regolamento
330/2010 non fa alcun cenno in merito, poiché si limita a dare una definizione
di tale sistema, si ritiene che la stessa è riservata solamente a prodotti di
lusso, di alta qualità e tecnologicamente sviluppati.[5]

Uno
degli elementi essenziali collegati alla distribuzione selettiva, è sicuramente
collegato al fatto che, in tale sistema, il produttore può imporre l’obbligo di
non vendere a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti
alla rete (ex art. 4 lett. b), iii)).[6]

Secondo
vantaggio è collegato ai limiti che possono essere imposti a membri del sistema
selettivo, in merito alla possibilità di vendere i prodotti online. Sul
punto la giurisprudenza europea ha affermato che, mentre un
produttore di un sistema non selettivo, non può impedire ai suoi distributori
di vendere online
,[7]
in un sistema selettivo, il produttore è autorizzato ad imporre al proprio
distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite interneta
condizione che tale attività di vendita online
 sia
realizzata tramite una “vetrina elettronica” del negozio autorizzato e che
venga in tal modo preservata l’aurea di lusso ed esclusività di questi
prodotti
.[8]

Inoltre, la giurisprudenza[9] ha considerato legittima una clausola contrattuale che vieta ai distributori autorizzati di un sistema di distribuzione selettiva di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita a mezzo internet dei prodotti contrattuali, purché ciò sia finalizzato a salvaguardare l’immagine di detti prodotti e che sia stabilita indistintamente e applicata in modo non discriminatorio.


1. La distribuzione parallela di distributori non autorizzati.

In ogni caso, nella pratica è altamente diffuso che, anche se il produttore crea un sistema selettivo, si sviluppino distribuzioni parallele all’interno del mercato stesso. Ciò può essere dovuto al fatto che molto spesso i produttori distribuiscono in via “selettiva” soltanto nei mercati più importanti, riservando, contrariamente, un sistema “classico” (ossia tramite un importatore esclusivo e non selettivo) alle altre zone, così permettendo (e facilitando) che i distributori “classici” vendano i prodotti anche a distributori paralleli che si trovano all’intero di un mercato selettivo.[10]

Leggi anche Le vendite parallele nell’UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle? e Distribuzione selettiva ed esclusiva: il sistema misto che selettiva.

Cosa
succede quindi se la società produttrice rileva la vendita non autorizzata di
propri prodotti su una piattaforma e-commerce, da parte di un
distributore/intermediario estraneo alla rete di distribuzione selettiva?

È
chiaro, infatti, che in tale situazione il rapporto tra produttore e il terzo è
di natura extracontrattuale e bisogna quindi comprendere quali (e se vi) siano strumenti
giuridici che consentano al produttore di difendersi da tali vendite estranea
al sistema selettivo.

Per potere rispondere a tale domanda è necessario fare un breve passo indietro.


2. Il principio di esaurimento comunitario.

Come è noto, l’ordinamento europeo garantisce la libertà (fondamentale) della circolazione delle merci; figlio di tale libertà è il principio di esaurimento comunitario, introdotto con Direttiva Europea 2008/95/CE all'articolo 7 e recepito dal nostro ordinamento con l’art. 5 c.p.i.[11]

Secondo
tale principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà
industriale immette direttamente o con il proprio consenso[12]
(ad es., dal licenziatario) in commercio un bene nel territorio dell'Unione
europea, questi perde le relative facoltà di privativa.

L’esclusiva
è quindi limitata al primo atto di messa in commercio, mentre nessuna
esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare della privativa,
sulla circolazione del prodotto recante il marchio.

Il
principio dell’esaurimento conosce tuttavia un’importante eccezione: il secondo
comma dell’articolo 5 c.p.i. reca, infatti, una norma di salvaguardia che, con
riferimento al marchio, consente al titolare, anche quando abbia immesso il
prodotto sul mercato e, pertanto, “esaurito” il diritto, di evitare che la
privativa subisca una diminuzione di attrattiva e di valore
.

Al
fine di eludere che il titolare del marchio possa arbitrariamente comprimere la
libera circolazione sul mercato comunitario, la deroga al principio
dell’esaurimento del marchio è circoscritta al ricorrere di condizioni che
rendono necessaria la salvaguardia dei diritti oggetto specifico della
proprietà: il secondo comma dell’art. 5 c.p.i. dispone infatti che devono
sussistere

motivi
legittimi
perché il titolare stesso si opponga all'ulteriore
commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è
modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio
”.

La
giurisprudenza comunitaria[13]
ha confermato che l’esistenza di una rete di distribuzione selettiva può essere
ricompresa tra i “motivi legittimi”, ostativi all’esaurimento, a condizione che
il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio che
legittimi la scelta di adottare un sistema di distribuzione selettiva.

Spetterà
al giudice nazionale, pertanto, chiamato a giudicare verificare se
sussistano “motivi legittimi” affinché il titolare del marchio possa opporsi
all’ulteriore commercializzazione dei suoi prodotti e, quindi, verificare se i
contratti di distribuzione selettiva siano conformi al diritto antitrust
europeo.[14] Ciò
consiste (per semplificare, ma lungi dal volere banalizzare) nell’accertare:

  • la liceità del sistema di distribuzione dei
    prodotti, valutando la natura dei medesimi (ossia che siano beni di lusso o,
    comunque prodotti di alta qualità o tecnologicamente sviluppati);
  • che il terzo rispetti gli standard che
    il produttore esige dai propri distributori autorizzati.

In
caso negativo, quindi se le modalità di commercializzazione utilizzate del
terzo non rispettano gli standard richiesti e siano lesivi del marchio
del produttore, tale attività sarà sottratta al principio dell’esaurimento.

Per portare qualche esempio pratico e quindi cercare di rendere per il lettore il più possibile chiara tale tematica, si riportano qui di seguito tre recenti (ed interessantissime) sentenze del Tribunale di Milano.


Il Caso Landoll s.r.l. contro MECS s.r.l.

Nella
2018 il Tribunale è stato chiamato a decidere sulla seguente questione: Landoll,
azienda leader nel settore della ricerca, sviluppo e commercializzazione
di prodotti cosmetici professionali e titolare di diversi marchi, provvedeva
alla distribuzione selettiva dei propri prodotti, sulla base di standard qualitativi
prescelti, volti alla tutela dell’immagine di lusso e prestigio. La ricorrente
ha rilevato l’offerta in vendita non autorizzata dei suoi prodotti su una
piattaforma e-commerce, riconducibile alla resistente. La ricorrente ha quindi
chiesto l’inibitoria nei confronti della resistente alla prosecuzione dell’attività
di vendita.

Il
Tribunale ha riconosciuto che la violazione dei diritti di privativa della
ricorrente sui propri marchi registrati, si evinceva dalla

 “valutazione dell’esistenza di un
pregiudizio effettivo all’immagine di lusso e di prestigio di essi che consegue
dall’esame delle modalità di presentazione al pubblico dei prodotti […] sia
su piattaforma e-commerce, che sul suo sito web
, che ne manifestano nella
loro presentazione la piana assimilazione a qualsiasi generico prodotto del
settore anche di minore qualità.”[15]

Ha
quindi inibito alla resistente l’ulteriore pubblicizzazione,
commercializzazione, offerta in vendita dei prodotti di parte ricorrente.  


Caso Sisley Italia s.r.l. contro Amazon Europe Core s.a.r.l.

In
tale vertenza,[16] Sisley
Italia s.r.l., società anch’essa leader nel settore della cosmesi e
organizzata tramite un sistema di distribuzione selettiva, ha proposto ricorso affinché
il Tribunale di Milano inibisse ad Amazon di commercializzare sul territorio
italiano i prodotti recanti i marchi Sisley, ritenendo che le modalità di immissione
in commercio utilizzate dalla resistente violassero gli standard richiesti
da Sisley ai propri distributori autorizzati. Nel dispositivo si legge che sul
portale di Amazon

i prodotti Sisley
vengono mostrati e offerti mescolati ad altri articoli, quali prodotti per la
casa e per le pulizie, prodotti comunque di basso profilo e di scarso valore
economico. Anche nella sezione ‘Bellezza Luxory’ […] il marchio Sisley è
accostato a marchi di fascia bassa, di qualità, reputazione e prezzo molto
inferiori o comunque di gran lunga meno prestigiosi.”

La
sentenza prosegue:

Laddove si
consideri che, nei propri contratti, Sisley esplicitamente richiede che i
propri prodotti vengano venduti in profumerie di lusso o in reparti
specializzati di profumeria e cosmesi di grandi magazzini, con personale
qualificato, in un determinato contesto urbano, appare indubbiamente
inadeguata, rispetto agli standard richiesti, la messa in vendita dei prodotti
in questione accanto a contenitori per microonde, prodotti per la pulizia dei
pavimenti e per gli animali domestici,”

Il Tribunale di Milano ha quindi riconosciuto che la commercializzazione e promozione di tali prodotti nella stessa pagina internet di prodotti di altre marche – anche di segmenti di mercato più bassi – fosse “lesivo del prestigio e dell’immagine del marchio Sisley.”


Ma cosa succede se i prodotti vengono importati da un paese Extra-UE? Il Caso L’Oréal.

Come
si è avuto modo di vedere condizione perché l’esaurimento ex art. 5 c.p.i.
abbia luogo è che la prima immissione in commercio sia stata effettuata dal
titolare (o con il suo consenso) e che tale immissione venga effettuata
all’interno del mercato unico.

Diversa
la situazione in cui la prima immissione viene effettuata nel mercato unico da
terzi non autorizzati: la giurisprudenza della Corte di Giustizia sin dal 1982
ha deciso che se l’immissione in commercio del bene tutelato sia effettuata dal
titolare al di fuori della Comunità, questi può far valere il proprio diritto
per opporsi all’importazione nell’Unione da parte di un distributore
extracomunitario.[17]

Applicando
tali principi il Tribunale di Milano[18]
ha vietato alla IDS International Drugstore Italia s.p.a., l’offerta in vendita
e commercializzazione, in qualsiasi modo e forma, compreso l’uso di internet
e di social network, dei prodotti L’Oréal. Tali prodotti
erano stati invero acquistati da IDS da un distributore extracomunitario,
il quale li aveva acquistati direttamente dal produttore.

Posto
che la prima immissione in commercio all’interno dell’UE non era stata
effettuata da parte del titolare (o con il suo consenso), questi continuava a
detenere, ai sensi degli art. 5 e 20 c.p.i., il diritto di opporsi all’importazione
parallela da paesi extracomunitari senza il suo consenso.

Diversa
questione sarebbe invece nel caso in cui il titolare del marchio acconsenta all’immissione
in commercio in un determinato Stato membro dello SEE; in tal caso egli esaurisce
i propri diritti di proprietà intellettuale e, quindi, non potrà più vietare l’importazione
in un diverso Stato membro.


[1] Si pensi alla
decisione Grundig approvata nel 1985 dalla Commissione, in cui
si richiedeva la presenza “di personale qualificato e di un servizio esterno
con la competenza tecnica necessaria per assistere e consigliare la clientela”,
nonché “l’organizzazione tecnica necessaria per l’immagazzinamento e il
tempestivo rifornimento degli acquirenti”; “presentare ed esporre i prodotti
Grundig in maniera rappresentativa in locali appositi, separati dagli altri
reparti, e il cui aspetto rispecchi l’immagine di mercato di Grundig”.

[2] Sul punto cfr.
PAPPALARDO, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 409, UTET,
2018.

[3] che definisce distribuzione
selettiva come: “un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si
impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o
indirettamente, solo a distributori selezionati sulle base di criteri
specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali
beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha
riservato a tale sistema.”

[4] Sentenza Metro I,
25.10.1977 e causa C-31/80, L’Oréal/ PVBA. Tale orientamento è stato confermato
anche dagli Orientamenti della Commissione al n. 175, che dispongono che “In
genere, si ritiene che la distribuzione selettiva basata su criteri puramente
qualitativi non rientri nell’ambito dell’articolo 101, paragrafo 1, in quanto
non provoca effetti anticoncorrenziali, purché vengano soddisfatte tre
condizioni. In primo luogo, la natura del prodotto in questione deve rendere
necessario un sistema di distribuzione selettiva nel senso che un tale sistema
deve rappresentare un requisito legittimo, in considerazione delle
caratteristiche del prodotto in questione, per conservarne la qualità e
garantirne un utilizzo corretto. In secondo luogo, la scelta dei rivenditori
deve avvenire secondo criteri oggettivi d’indole qualitativa stabiliti
indistintamente e resi disponibili per tutti i rivenditori potenziali e
applicati in modo non discriminatorio. In terzo luogo, i criteri stabiliti non
devono andare oltre il necessario.”

[5] In ogni caso, una risposta si ritrova all’interno degli Orientamenti della Commissione, ove al n. 176, viene affermato che: “se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva […], tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio. Se si verificano effetti anticoncorrenziali sensibili, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato”. Cfr. anche, n. 25, caso Coty Germany, sentenza del 6.12.2017, che dispone:

[6] A tal proposito, si
richiama quanto affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Metro-Saba
I
, sentenza del 25.10.1977, al par. 27 “Qualsiasi sistema di vendita
fondato sulla selezione dei punti distribuzione implica inevitabilmente –
altrimenti non avrebbe senso – l’obbligo per i grossisti che fanno parte della
rete, di rifornire solo i rivenditori autorizzati”.

[7] Caso Pierre Fabre, sentenza del 13.10.2011.

[8] Caso Coty Germany, sentenza del 6.12.2017.

[9] Cfr.
nota precedente.

[10] In tal caso, il
produttore non può imporre il divieto di effettuare vendite passive, nei
confronti dei rivenditori appartenenti alle zone in cui non esiste il sistema
selettivo, ma unicamente vietare allo stesso, ex art. 4 let. b) i), le vendite
attive.

[11] Art. 5,
comma 1, c.p.i. (Esaurimento), “Le facoltà esclusive attribuite dal presente
codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una
volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano
stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio
dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello
Spazio economico europeo.”

[12] La prassi
decisionale e la giurisprudenza europea hanno chiarito che si ha il consenso
quando l’immissione in commercio sia stata effettuata da un’impresa controllata
dal titolare del diritto di proprietà intellettuale o da un’impresa, di regola
un licenziatario, a ciò autorizzata dal titolare. L’esaurimento si verifica
quando il prodotto tutelato sia stato immesso in commercio dal titolare del
diritto “col suo consenso o da persona a lui legata da vincoli di dipendenza
giuridica o economico”
(sent. Keurkoop, cit., n. 25).  Sul punto Cfr. Pappalardo, Il diritto
della concorrenza dell’Unione Europea
, pag. 875, 2018, UTET.

[13] Caso Copad SA, sentenza del 23 aprile 2009, “Quando la commercializzazione di prodotti di prestigio da parte del licenziatario in violazione di una clausola del contratto di licenza deve considerarsi nondimeno effettuata con il consenso del titolare del marchio, quest’ultimo può invocare tale clausola per opporsi ad una rivendita di tali prodotti sul fondamento dell’art. 7, n. 2, della direttiva 89/104, come modificata dall’Accordo sullo Spazio economico europeo, solo nel caso in cui si accerti, tenuto conto delle circostanze della fattispecie, che tale rivendita nuoce alla notorietà del marchio.”

[14] Sul punto, cfr. Fratti, Distribuzione selettiva di cosmetici di lusso: il Tribunale di Milano chiarisce i presupposti per l’esclusione del principio dell’esaurimento del marchio.

[15]
Tribunale di Milano, ordinanza del 18.12.2018. Cfr. nota precedente.

[16] Tribunale di Milano, ordinanza del 3.7.2018

[17] Cfr. Pappalardo,
op. cit., pag. 878.

[18]
Tribunale di Milano, ordinanza del 19.11.2018, cfr. nota 12.


cessione del contratto di agenzia e trasferimento di azienda

Conseguenze in caso di cessione del contratto di agenzia o di trasferimento di azienda.

Quali sono le conseguenze della cessione del contratto di agenzia? In caso il preponente decida di effettuare un trasferimento di azienda, l'agente può recedere dal contratto?

L’istituto giuridico della cessione del contratto è disciplinato dagli artt. 1406 e ss. del codice civile. In sintesi, si ha cessione del contratto qualora una parte di un rapporto a prestazioni corrispettive (il cedente), stipula con un terzo (il cessionario) un nuovo contratto (di cessione), con il quale il cedente si accorda di trasferire al cessionario il contratto originario o, per essere più corretti, tutti i rapporti attivi e passivi derivanti dal contratto ceduto. La cessione del contratto è, quindi, un negozio trilaterale, che si perfeziona solamente (ex art. 1406 c.c.) con il consenso di tutte le parti: contraenti originari (cedente e ceduto) e cessionario.[1]


1. Cessione del contratto di agenzia

Il contratto di agenzia, ovviamente, soggiace anch’esso ai principi generali in tema di contratti qui sopra brevemente richiamati. Ne consegue che, affinché la cessione di un contratto di agenzia sia valida, è necessario che venga comunicata ed accettata dal soggetto ceduto.[2]

Con riferimento alla forma del contratto di cessione, il silenzio del legislatore lascia aperto un problema; la giurisprudenza è comunque costante nel risolverlo, affermando che per il contratto di cessione, debbano essere osservate le stesse forme prescritte per il contratto che si trasferisce, posto che la cessione realizza una vera e propria modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio.[3] In forza di tale principio, la cessione del contratto di agenzia sarà anch’essa subordinata alla forma scritta ad probationem richiesta ex art. 1742, secondo comma del codice civile.

Leggi anche Requisiti di forma del contratto di agenzia.

Nell’ipotesi in cui sia l’agente a cedere il rapporto contrattuale, è
essenziale sottolineare che viene meno il diritto
dello stesso a percepire l’indennità di fine rapporto
ex art. 1751
c.c. Il secondo comma di tale articolo dispone che:

L’indennità non
è dovuta
quando ai sensi di un accordo con il preponente, l’agente cede
ad un terzo i diritti e gli obblighi
che ha in virtù di un contratto
d’agenzia.”

Tale disposizione, si fonda sul fatto che il nuovo agente subentra nella posizione giuridica complessiva dell’agente originario, ossia in tutti i rapporti attivi e passivi derivanti dal contratto ceduto, tra i quali è certamente ricompreso il diritto all’indennità di fine rapporto.[4]


2. Contratto di agenzia e trasferimento d'azienda

Una altra tematica assai interessante, anch’essa collegata alla problematica
della cessione dei contratti, è la fattispecie della successione del
rapporto
di agenzia a seguito di acquisto d’azienda.

Tale problematica è disciplinata dall’art. 2558 c.c.[5] che prevede quale effetto naturale del trasferimento dell’azienda, la successione dell'acquirente in tutti i rapporti contrattuali stipulati per l'esercizio dell'azienda che non abbiano carattere personale;[6] si tratta quindi di un vero e proprio trasferimento automatico del rapporto obbligatorio, non subordinato al consenso del soggetto ceduto, così come previsto in caso di cessione del contratto. Con tale disposizione il legislatore ha inteso garantire il mantenimento della funzionalità economica dell'unità aziendale che è stata ceduta e, quindi, tutelare gli interessi del soggetto acquirente.

Importante evidenziare che le parti (alienante ed acquirente) possono comunque derogare tale disposizione ed evitare il conseguente subingresso dell'acquirente in determinati rapporti negoziali del cedente, a condizione che il/i rapporto/i contrattuali che intendono escludere dal trasferimento, non abbiano "carattere personale". (cfr. Cass. Civ. n. 3312 del 2001)

La dottrina[7] tende a ritenere che il rapporto di agenzia non debba essere escluso a priori dai contratti intuitu personae, stante la assoluta eterogeneità della categoria degli agenti di commercio, che possono appunto presentarsi sia sotto forma di società di capitali, sia di persone fisiche; contrariamente la giurisprudenza maggioritaria[8] esclude che tale figura contrattuale possa essere ricompresa tra i rapporti a carattere personale, asserendo che:

 “il contratto di agenzia non riveste carattere personale, ma costituisce un tipico contratto attinente all’esercizio dell’impresa e all’organizzazione della struttura aziendale, sicché in caso di cessione d’azienda esso prosegue automaticamente con il cessionario, salvo che le parti abbiano stabilito diversamente.”[9]

Il fatto che al contratto di agenzia venga attribuita natura "personale", ne comporta l'impossibilità di applicare allo stesso la disciplina di cui all'art. 2112 c.c.,[10] che conferisce ai rapporti di lavoro maggiori tutele in caso di operazioni che comportano il trasferimento dell’azienda.

In primo luogo, ex art. 2112 c.c., i rapporti di lavoro subordinato proseguono automaticamente in capo al cessionario e (diversamente dalla disciplina ex art. 2558 c.c.) tale disposizione è inderogabile dalle parti.

In secondo luogo, l'art. 2112 c.c. conferisce al lavoratore il diritto di rassegnare le proprie dimissioni entro tre mesi dall’acquisto dell’azienda, qualora vi sia stata una modifica sostanziale delle condizioni di lavoro; diversamente, l'art. 2558 c.c. prevede la possibilità di recedere dal rapporto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, unicamente se sussiste una giusta causa:

 “l’agente non gode di una libertà di
recesso assoluta, bensì condizionata alla sussistenza di una giusta causa.”[11]

Per comprendere quanto l'agente sia legittimato a recedere dal contratto, qualora il preponente ceda l'azienda, ci viene in soccorso una sentenza del 2007, che ha espresso il seguente principio:

l’agente ha diritto
di recedere dal contratto per giusta causa nel caso in cui per ragioni
estrinseche al contratto, non inerenti direttamente ad esso, la sostituzione
del cessionario al cedente quale controparte del rapporto contrattuale realizza
una situazione in vista della quale si sarebbe rifiutato di contrarre se
l’avesse conosciuta in tempo utile
.”

Per portare un esempio pratico, potrà essere invocata quale causa di scioglimento del rapporto di agenzia l’insufficiente sicurezza di solidità finanziaria dell’acquirente, che non garantisce al terzo contraente un regolare adempimento delle obbligazioni derivanti dalla prosecuzione del contratto di durata.[12]


3. Debiti anteriori al trasferimento dell'azienda

In caso di trasferimento di azienda del preponente, la successione dell’acquirente nel rapporto in essere con l’agente, non comporta un automatico accollo cumulativo dei debiti anteriori all’alienazione (ad esempio provvigioni non pagate). La sorte dei debiti relativi all’azienda ceduta viene regolata dall’art. 2560 c.c., in base al quale l’alienante non è liberato nel caso in cui i debiti siano anteriori al trasferimento (comma 1) e gli stessi risultino dai libri contabili obbligatori (comma 2).

Si riporta qui di seguito un estratto di una sentenza del 2017, della Corte che è stata interrogata su tale problematica:

La sola (presunta)
trasmissione dei documenti contabili relativi al contratto di agenzia
(trasferito all’impresa subentrata ex art 2558 c.c.) non equivale di certo a
significare anche soddisfatta la condizione richiesta espressamente dall’art.
2560, comma 2 ossia l’iscrizione dei debiti risultante dai libri contabili
obbligatori, affinché si verifichi pure l’obbligazione solidale accessoria a
carico dell’acquirente dell’azienda ceduta.

Pertanto, chi intenda far valere i corrispondenti crediti contro l’acquirente dell’azienda ha l’onere di provare fra gli elementi costitutivi del proprio diritto anche detta iscrizione.[13]

Leggi anche Fallimento del preponente e insinuazione al passivo dell'agente.


[1] Per una
panoramica dell’istituto cfr. TORRENTE E SCHLESINGER, Manuale di diritto
privato, GIUFFRÈ EDITORE.

[2] Sul
punto cfr. Tribunale Reggio Calabria, 15.1.2003 che ha disposto che “ai fini
della cessione del contratto di agenzia, occorre
il consenso del contraente ceduto
.”

[3] Cass. Civ. 2001 n. 10498; Cass.
Civ. 1993 n. 12163.

[4] Cfr.
VENEZIA, Il contratto di agenzia, pag. 462 e ss., 2015, Giuffrè Editore.

[5] L’art.
2558 c.c. recita “se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda
subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non
abbiano carattere personale.

[6] Cfr. sul
punto Cass. civ. Sez. II,
19/06/1996, n. 5636

[7] Cfr. VENEZIA, Il contratto di agenzia, pag. 462 e ss., 2015, Giuffrè Editore; TRADATI, Il contratto di agenzia nel trasferimento d’azienda, in Agenti & Rappresentanti 2003, n. 4, p. 14 e ss.

[8] Cass.
Civ. 2017 n. 15956, Tribunale di Perugia 17.5.2011 Cass. Civ. 2004 n. 21678,
Trib. Reggio Emilia 8.2.2002. Contra per la personalità del contratto di
agenzia, con la conseguente necessità del consenso per la sua cessione Trib.
Reggio Calabria 15.1.2003.

[9] Trib. Di
Reggio Emilia 8.2.2002.

[10] Cass. Civ. 2004 n. 21678, Cass.
Civ. 2000 n. 6351.

[11]
Tribunale di Perugia 17.5.2011.

[12] Cass. Civ. 2007 n. 21445, con nota di SANGIOVANNI, Obbligazioni e contratti, n. 5 del 2008.

[13] Cass.
Civ. 2017 n. 15956.


diritto alla provvigione e contratti di lunga durata

Diritto alla provvigione dell'agente sui contratti di lunga durata.

Se un agente procura contratti di lunga durata, ha diritto alla provvigione se i contratti proseguono anche dopo lo scioglimento del rapporto di agenzia?

Qualora un agente procuri contratti di lunga durata, quali ad esempio contratti di somministrazione pluriennali, ovvero di subfornitura, ci si domanda se lo stesso abbia o meno diritto alla provvigione sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto procurato a seguito di un eventuale scioglimento del rapporto di agenzia.

Per rispondere a tale domanda, bisogna fare un breve passo indietro e comprendere nel dettaglio, quando nasce il dritto dell’agente alle provvigioni (sul punto cfr. anche  Le provvigioni dell’agente per gli affari conclusi dal preponente dopo lo scioglimento del rapporto). L’art. 1748, terzo comma del c.c., dispone sul punto che:

L’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta; in tali casi la provvigione è dovuta solo all’agente precedente, salvo che da specifiche circostanze risulti equo ripartire la provvigione tra gli agenti intervenuti.”

Tale impostazione[1] è volta ad evitare che il preponente possa correre il rischio di pagare una doppia provvigione: una all’agente uscente ed una a quello entrante.[2] In caso di scioglimento del rapporto, pertanto, l’agente avrà diritto alla provvigione:

  • se la proposta è pervenuta in data antecedente allo scioglimento del rapporto;
  • se l’affare è concluso entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività dell’agente.

Mentre la prima ipotesi non dà luogo a particolari problemi interpretativi, la seconda, diversamente, può originare diversi dubbi, principalmente connessi all’interpretazione del concetto di “prevalenza” e di “ragionevolezza[3]”.

Un aiuto interpretativo si può ricavare dall’art. 6, ult. comma, AEC 30.7.2014[4] (cfr. quando si applicano gli AEC e come si calcola l’indennità di fine rapporto AEC Industria 2014), che impone all’agente l’obbligo di relazionare la mandante in maniera dettagliata, in merito alle trattative intraprese e non concluse al momento della cessazione del rapporto; tale disposizione prevede altresì che, qualora nell’arco di sei mesi dalla data di scioglimento del rapporto, alcune di tali trattative vadano a buon fine, l’agente avrà diritto alle relative provvigioni (cfr. L’obbligo di informazione dell’agente nei confronti del preponente).

Sulla base di quanto sopra brevemente esposto, nel caso in cui l’agente nel corso del rapporto promuova contratti di durata, il diritto alla provvigione sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto procurato successivamente allo scioglimento del rapporto, dipende essenzialmente dalla natura del contratto di durata.

In linea di massima, nel caso in cui il contratto di durata sia un contratto di somministrazione, di subfornitura, ovvero un contratto di vendita a consegne ripartite, si può affermare che (salvo non sia stato diversamente pattuito)[5], l’agente abbia diritto alla provvigione su tutte le forniture effettuate anche a seguito dello scioglimento del contratto di agenzia, essendo questi di fatto atti di esecuzione di un contratto concluso nel corso del rapporto.

Contrariamente, qualora il contratto promosso sia un contratto quadro, in cui ciascuna fornitura deve formare oggetto di un ulteriore accordo (ordine - accettazione), in tal caso le singole forniture dovranno essere considerate come contratti di vendita indipendenti,[6] seppure conclusi nel contesto del contratto quadro, con la conseguenza che tali successivi contratti di vendita non daranno diritto alla provvigione (fatto salvo che l’agente non riesca a dimostrare che tali affari, siano riconducibili alla sua attività di promozione e siano stati conclusi entro un termine ragionevole).

Proseguendo con il ragionamento, nel caso in cui, invece, il rapporto di durata venga sottoscritto dal preponente a seguito dello scioglimento del rapporto, per comprendere se l’agente possa avere diritto alla provvigione, non sarà sufficiente accertare la natura del rapporto di durata, ma, altresì, dimostrare che la conclusione dell’affare, sia riconducibile all’attività di promozione dell’agente.

Si richiama qui di seguito un caso molto interessante[7], che è stato deciso da una serie di tre sentenze del Tribunale di Grosseto, avente ad oggetto la seguente fattispecie: un agente, a seguito di gravose trattative protrattesi per diversi mesi, aveva procurato alla preponente (una società che opera nel settore degli alimenti surgelati) un affare con una catena di supermercati, avente ad oggetto la somministrazione a tempo indeterminato di piatti pronti surgelati e preconfezionati. Il contratto di somministrazione veniva stipulato qualche mese dopo lo scioglimento del rapporto di agenzia.

L’agente conveniva in giudizio la preponente, affinché gli venissero riconosciute le provvigioni sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto di somministrazione. Con sentenza n. 52/2012 il Tribunale di Grosseto accoglieva le richieste attoree, ritenendo che:

il contratto di somministrazione, è stato formalmente stipulato […] poco più di due mesi dopo lo scioglimento del contratto di agenzia […], termine che deve essere considerato, per la sua oggettiva brevità, assolutamente ragionevole.

Seppure il Tribunale avesse accertato il diritto dell’agente alle provvigioni, ha respinto la domanda attorea, volta ad ottenere la condanna del preponente al pagamento delle stesse

fino al termine del contratto di somministrazione […] in quanto si tratterebbe di una pronuncia di condanna “in futuro” correlata, per di più ad un termine che nel contratto di somministrazione non è stato individuato dalle parti, giacché lo stesso contratto risulta essere stato stipulato a tempo indeterminato.”

L’agente, qualche anno dopo l’emanazione della prima sentenza, ha promosso un ulteriore giudizio, con il quale ha domandato la condanna della preponente al pagamento delle provvigioni sulle forniture eseguite dopo l’accertamento peritale di cui al primo giudizio. L’agente ha fondato la propria richiesta, sul principio di cui all’art. 2909 c.c., in base al quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti. Il Tribunale ha condannato nuovamente la preponente, asserendo che

il diritto ad ottenere il pagamento delle provvigioni via via che matureranno in relazione all’esecuzione protratta nel tempo del contratto di somministrazione, è pacifico e già accertato nella sentenza irrevocabile emessa da questo Ufficio con conseguente applicazione dell’effetto revulsivo previsto dall’art. 2909 (sul punto tra le tante Cass. Sez. Lav. 2001 n. 4304).”

A seguito di tale pronuncia, al fine di evitare il pagamento delle provvigioni sugli affari futuri, la preponente ha provveduto a cedere di fatto l’affare  ad una società dello stesso gruppo, anch’essa attiva nel settore degli alimenti surgelati. L’agente è ricorso, quindi, nuovamente al Tribunale di Grosseto, sostenendo che la cessione del contratto di durata ex art. 1406 c.c., comportava l’obbligo del cessionario di provvedere al pagamento delle provvigioni. Il Tribunale di Grosseto[8], sposava nuovamente la tesi dell’attore, affermando che:

poiché la caratteristica della cessione del contratto ex art. 1406 c.c. è l’avere ad oggetto la trasmissione di un complesso unitario di situazioni giuridiche attive e passive che derivano da ciascuna delle parti del contratto […], la cessionaria sarà tenuta a corrispondere al ricorrente le provvigioni – nella stessa misura convenuta nel contratto di agenzia à sulle forniture di prodotti alimentari surgelati effettuate in favore della X srl.

* * *

Da ultimo, si tiene altresì a sottolineare, che la sottoscrizione di contratti di durata, possa essere utilizzato come elemento determinante per provare che sussistono le condizioni richieste dall’art. 1751 c.c., perché scaturisca il diritto dell’agente a percepire l’indennità di fine rapporto (cfr. Indennità di fine rapporto dell’agente. Come si calcola se non si applicano gli AEC?). Si legge in una interessante sentenza della Cassazione che:

L'indennità di cessazione del rapporto di agenzia compensa l'agente per l'incremento patrimoniale che la sua attività reca al preponente sviluppando l'avviamento dell'impresa. Ne consegue che tale condizione deve ritenersi sussistente, ed è quindi dovuta l'indennità, ove i contratti conclusi dall'agente siano contratti di durata, in quanto lo sviluppo dell'avviamento e la protrazione dei vantaggi per il preponente, anche dopo la cessazione del rapporto di agenzia, sono in re ipsa”.[9]

______________________________

[1] Articolo riformato con D.Lgs. n. 65/1999, con il quale il legislatore ha recepito i principi della Direttiva europea n. 86/653 e, in particolare, di cui all’art. 8 che così dispone: “Per un'operazione commerciale conclusa dopo l'estinzione del contratto di agenzia, l'agente commerciale ha diritto alla provvigione; a) se l'operazione è dovuta soprattutto al risultato dell'attività da lui svolta durante il contratto di agenzia e se l'operazione è conclusa entro un termine ragionevole dopo l'estinzione del contratto, o b) se, conformemente alle condizioni di cui all'articolo 7, l'ordinazione effettuata dal terzo è stata ricevuta dal preponente o dall'agente commerciale prima dell'estinzione del contratto di agenzia.”

[2]Cfr. Tribunale di Rimini, 22.9.2004, n. 238 che ha escluso il diritto dell’agente alle provvigioni in caso di proroghe delle offerte di fornitura, stante l’assenza del preponderante intervento promozionale dell’ex agente. Sul punto cfr. VENEZIA, Il contratto di agenzia, pag. 281, 2015, CEDAM.

[3] La giurisprudenza ha considerato ragionevole anche un termine di sei mesi (Cass. Civ. 9.2.2006) e in taluni casi, tale termine si è esteso addirittura a due anni (cfr. Cass. Civ. 16.1.2013 in cui la Corte ha ritenuto ragionevole il termine biennale delle carte di fidelizzazione vendute grazie all’attività di promozione dell’agente, considerando quindi le vendite di carburante effettuate successivamente alla risoluzione del rapporto imputabili alla prestazione dell’agente.

[4] Art. 6, ult. comma AEC 2014 Industria: “L’agente o rappresentante ha diritto alla provvigione sugli affari proposti e conclusi anche dopo lo scioglimento del contratto, se la conclusione è effetto soprattutto dell’attività da lui svolta ed essa avvenga entro un termine ragionevole dalla cessazione del rapporto. A tal fine, all’atto della cessazione del rapporto, l’agente o rappresentante relazionerà dettagliatamente la preponente sulle trattative commerciali intraprese, ma non concluse, a causa dell’intervenuto scioglimento del contratto di agenzia.

Qualora, nell’arco di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto, alcune di tali trattative vadano a buon fine, l’agente avrà diritto alle relative provvigioni, come sopra regolato. Decorso tale termine, la conclusione di ogni eventuale ordine, inserito o meno nella relazione dell’agente, non potrà più essere considerata conseguenza dell’attività da lui svolta e non sarà quindi riconosciuta alcuna provvigione. Sono fatti comunque salvi gli accordi fra le parti, che prevedano un termine temporale diverso o la ripartizione della provvigione fra gli agenti succedutisi nella zona ed intervenuti per la promozione e conclusione dell’affare.”

[5] L’art. 1748 comma 3 c.c., sulle provvigioni spettanti per affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto è interamente derogabile: a favore Saracini-Toffoletto, Il contratto di agenzia. Commentario, 2014, GIUFFRÈ e Bortolotti, opera cit., pag. 276; contrario, Trioni, che ritiene che tale norma non è inderogabile, posto che il terzo comma dell’art. 1748 c.c., diversamente dal secondo e quarto, non prevede espressamente la salvezza dei patti contrari.

[6] Cfr. sul punto BORTOLOTTI, Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, pag. 8, 2007, CEDAM.

[7] Per maggiori approfondimenti cfr. Giulia Cecconi, Le provvigioni sui contratti di durata, in Agenti e rappresentanti di commercio, 1/2019, AGE EDITRICE.

[8] Tribunale di Grosseto, sentenza n. 269 del 2018.

[9] Cass. Civ. sez. lav. n. 24776 del 2013.


vendite parallele

Le vendite parallele nell'UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle?

Quando si parla di vendite parallele, ci si riferisce alle importazioni che si affiancano a quelle effettuate da un importatore “ufficiale”, ossia territorialmente competente[1]: i commercianti paralleli entrano nel mercato riservato a distributori esclusivi, senza avere accesso diretto al fornitore, che appunto alimenta e fornisce unicamente i rivenditori autorizzati.

Il commercio parallelo, nel corso degli anni ha assunto forme assai diversificate e spesso ha permesso il sorgere di reti commerciali “alternative”, che si sono affiancate a quelle ufficiali impostate dal produttore; a volte sono alimentate dai distributori esclusivi stessi, che avendo acquistato la merce dal produttore, trovano più conveniente rivenderla a commercianti paralleli, con i quali hanno instaurato dei rapporti commerciali; altre volte i commercianti paralleli si procurano i beni presso rivenditori al dettaglio di un altro paese, ove i prezzi di mercato sono più bassi.[2]

1. È lecito un sistema di vendita esclusivo che blocca la distribuzione parallela?

La normativa comunitaria, si è sin dal principio confrontata con tale fenomeno ed ha dovuto cercare di trovare un bilanciamento tra, da un lato, il principio del libero scambio delle merci e, dall’all’altro lato, gli interessi commerciali dei singoli produttori di suddividere i diversi mercati europei tramite la nomina di concessionari esclusivi. L’impostazione della Commissione è stata da sempre, quella di permettere al produttore di creare delle reti tramite la nomina di concessionari esclusivi, affinché questi potesse gestire con maggiore facilità i diversi mercati europei. Il “compromesso” che è stato raggiunto, è stato quello di creare una netta linea di demarcazione tra le forme di distribuzione esclusiva “aperta”, considerate in linea di principio ammissibili, e le c.d. esclusive “chiuse”, ritenute quasi sempre non autorizzate[3].

Le prime forme si contraddistinguono dal fatto che il concessionario ottiene il diritto di essere l’unico soggetto a venire rifornito dal produttore in un determinato territorio. In ogni caso, la posizione che viene a questi garantita non è di “monopolio”, posto che gli importatori paralleli, nelle modalità e con i limiti che verranno di seguito descritti, potranno acquistare la merce da soggetti terzi (grossisti o concessionari di altre zone), per poi, eventualmente, rivenderli anche nel territorio esclusivo del concessionario.

Contrariamente, l’esclusiva “chiusa” è caratterizzata dal fatto che al concessionario viene garantita una protezione territoriale perfetta e ciò tramite l’imposizione a tutti i distributori della rete di non rivendere a soggetti al di fuori dalla loro zona e con l’ulteriore obbligo di imporre tale divieto anche ai loro acquirenti e così via.

Tale impostazione è stata assunta nella (ormai lontana) decisione Grundig[4], alla quale la Commissione non si è mai allontanata, ove è stato appunto ritenuto contrario ai principi del mercato unico europeo, la protezione assoluta dei concessionari e la creazione di distribuzioni esclusive chiuse, tramite, ad es[5]:

  • divieto di esportare imposto dai fornitori ai distributori;
  • approvvigionare commercianti noti per la loro attività di rivendita al di fuori delle zone stabilite;
  • differenziazione dei prezzi in funzione della destinazione;
  • riduzione o vera e propria soppressione degli sconti ai grossisti che avessero effettuato esportazioni indesiderate[6];
  • riduzione delle quantità abitualmente cedute ai grossisti, con l’intento di scoraggiare l’esportazione parallela.

La Corte ha quindi ritenuto, non solo che i contratti di distribuzione con protezione territoriale assoluta rientrano nel divieto dell’art. 101, § 1 TFUE, ma addirittura che tali accordi sono vietati unicamente sulla base del loro oggetto restrittivo, senza che sia necessario effettuare alcuna indagine di mercato, atta a verificare gli effetti che tali divieti abbiano effettivamente sul mercato.

2. Il Regolamento 330/2010: vendite attive e passive.

L’impostazione della Corte è stata confermata anche dal Regolamento 330/2010, sulle vendite verticali. Il Regolamento, da un lato, conferisce la facoltà di suddividere il mercato tramite la concessione di esclusive aperte[7], dall’altro lato, prevede all’art. 4, let. b) la validità di clausole contrattuali che impongono agli importatori il divieto di vendite attive [8] (e non passive[9]) nel territorio esclusivo o alla clientela esclusiva riservati ad altri distributori. Importante sottolineare il fatto che l’eccezione non si limita al divieto di vendite attive nel territorio esclusivo, ma copre anche il divieto di vendite alla clientela esclusiva, cioè quella che il fornitore si riserva, o che ha riservato ad un altro acquirente.

Il fornitore, pertanto, non può limitarsi a vietare al distributore di effettuare vendite fuori zona o ad un gruppo di clienti, posto che il divieto, per essere legittimo, deve riferirsi a vendite attive in una zona o a clienti riservati in esclusiva ad un differente distributore, ovvero al fornitore stesso.

Il concedente potrà, pertanto, impedire al proprio concessionario esclusivo di assumere iniziative miranti a conquistare parti di mercato in zone diverse da quelle loro assegnate; in ogni caso, il divieto di vendere fuori zona non può essere imposto, per le vendite passive, ossia la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti non appartenenti alla zona esclusiva.

3. Le vendite su internet e gli impatti sulle vendite parallele.

Il fenomeno della distribuzione parallela si è certamente sviluppato con l’avvento di Internet. Il web essendo una piattaforma che, per definizione, può essere visitata “worldwide”, ha aumentato sensibilmente le potenzialità dei singoli anelli della catena distributiva di essere visibili (e, quindi, vendere) in territori riservati in esclusiva ad altri soggetti (sul tema cfr. Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online? Vendite attive, vendite passive e geoblocking.).

Seppure ci siano delle sostanziali differenze tra vendite online e vendite offline, si può certamente affermare che i principi esposti al paragrafo precedente si applicano indifferentemente ad entrambe le tipologie di mercato.  I poteri  ed i limiti del produttore di vietare ed indirizzare le vendite dei propri concessionari sono i medesimi per il commercio tradizionale e quello elettronico: essenziale sarà pertanto comprendere, anche in tale contesto, la distinzione delle vendite attive, rispetto alle passive.

Secondo gli Orientamenti della Commissione, la mera esistenza di un sito Internet deve essere considerata, in linea di principio, come una forma di vendita passiva. Si legge infatti:

se un cliente visita il sito Internet di un distributore e lo contatta, e se tale contatto si conclude con una vendita, inclusa la consegna effettiva, ciò viene considerato come una vendita passiva. Lo stesso avviene se un cliente decide di essere informato (automaticamente) dal distributore e questo determina una vendita.” [10]

Contrariamente, deve considerarsi vendita attiva:

La pubblicità on-line specificamente indirizzata a determinati clienti [...]. I banner che mostrino un collegamento territoriale su siti Internet di terzi […] e, in linea generale, gli sforzi compiuti per essere reperiti specificamente in un determinato territorio o da un determinato gruppo di clienti costituisce una vendita attiva in tale territorio o a tale gruppo di clienti [ivi incluso] il pagamento di un compenso ad un motore di ricerca o ad un provider pubblicitario on-line affinché vengano presentate inserzioni pubblicitarie specificamente agli utenti situati in un particolare territorio.”

L’allargamento sensibile delle vendite tramite internet ha avuto l’effetto di aprire spazi considerevoli alla concorrenza intra-brand ed alla distribuzione parallela e ciò è stato certamente favorito anche dalla giurisprudenza europea, tendenzialmente favorevole all’utilizzo di tale strumento anche da parte dei concessionari ed intermediari del fornitore.

Invero, a seguito delle sentenze Pierre Fabre del 13.10.2011[11], un divieto assoluto ai distributori dell’utilizzo di internet per la distribuzione dei prodotti acquistati è da considerarsi sostanzialmente inammissibile. Un limite a tale potere dispositivo è stato imposto dalla sentenza del 6 dicembre 2017 Coty Germany GmbH[12], ove la Corte ha chiarito che in un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso, un produttore (in questo caso Coty) è autorizzato ad imporre al proprio distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite internet, ma a condizione che tale attività sia realizzata in modo da preservare la connotazione lussuosa dei prodotti.

Da ultimo è intervenuta la più recente decisione Guess del dicembre 2018[13], con cui la Commissione ha condannato la casa madre ad una sanzione di 40 milioni di euro, per avere imposto ai dettaglianti un divieto di vendere prodotti contrattuali tramite internet o qualsiasi altro sistema elettronico o informatico, senza il previo consenso scritto di Guess stessa.

Sempre legata ad internet è la questione – che richiederebbe da sola un approfondimento molto più ampio – legata al fatto se un produttore può direttamente vendere su una piattaforma online prodotti a prezzi inferiori rispetto a quelli consigliati ai propri concessionari. Ci si domanda, infatti, se tale comportamento possa essere considerato contrario di esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In merito non risulta che la giurisprudenza italiana si sia ancora espressa; ci si limita, per il momento, a consigliare di prevedere in maniera chiara e precisa tale fattispecie nel contratto di concessione, potendo, in caso contrario, tale comportamento dare adito a controversie molto complesse e gravose per entrambe le parti.[14]

4. Si può evitare la distribuzione parallela, creando un sistema di distribuzione selettiva?

Una modalità per evitare il crearsi di una distribuzione parallela potrebbe essere la creazione di una rete distributiva selettiva, posto che, in tale tipologia di distribuzione, il produttore può pretendere che i propri beni possano essere acquistati solamente da determinati intermediari, che rispettano i requisiti di forma e qualità  dallo stesso imposti (cfr. La distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi). Ne consegue che, in un sistema di distribuzione selettiva senza falle, i prodotti non vengono in possesso di intermediari o rivenditori commerciali non ammessi alla rete. (cfr. Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).

In ogni caso, anche tale sistema ha dei vantaggi, degli svantaggi e dei limiti; in primo luogo, può essere attuato solamente per i prodotti di alta qualità e tecnologicamente sviluppati.[15]

Inoltre, l’art. 4 d) del Regolamento, prevede comunque delle restrizioni al potere direttivo del produttore, il quale non potrà impedire le “forniture incrociate tra distributori all’interno di un sistema di distribuzione selettiva, ivi inclusi i distributori operanti a differenti livelli commerciali.” Tale libertà, per ogni membro appartenente alla rete selettiva, di approvvigionarsi senza alcun ostacolo presso gli altri membri, costituisce la necessaria contropartita dell’esclusione di reti distributive parallele. Gli Orientamenti prevedono al punto 58, che:

“un accordo o una pratica concordata non possono avere come oggetto diretto o indiretto quello di impedire o limitare le vendite attive o passive dei prodotti contrattuali fra i distributori selezionati, i quali devono rimanere liberi di acquistare detti prodotti da altri distributori designati della rete, operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale. La distribuzione selettiva non può pertanto essere combinata con restrizioni verticali volte ad obbligare i distributori ad acquistare i prodotti oggetto del contratto esclusivamente da una fonte determinata.

Da ultimo, ma non meno importante, si rileva che, seppure in una distribuzione selettiva, “il produttore può imporre l’obbligo di non vedere a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti alla reteex art. 4 lett. b), iii), molto spesso, nella pratica, molti produttori distribuiscono in via "selettiva" soltanto nei mercati più importanti, riservando, contrariamente, un sistema “classico” (ossia tramite un importatore esclusivo) alle altre zone. In tal caso, il produttore non può imporre il divieto di effettuare vendite passive, nei confronti dei rivenditori appartenenti alle zone in cui non esiste il sistema selettivo, ma unicamente vietare allo stesso, ex art. 4 let. b) i), le vendite attive.

È comunque fatto salvo il diritto del produttore, che ha legittimamente adottato un sistema di distribuzione selettiva al fine di tutelare i prodotti contraddistinti dal marchio, di agire nei confronti dei distributori paralleli, le cui modalità di rivendita siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine di lusso e prestigio -  che il produttore cerca di difendere proprio attraverso l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva - , o comunque che sussista un effetto confusorio circa l’esistenza di un legame commerciale tra il titolare del marchio e il rivenditore non autorizzato. In merito, si evidenziano due recenti ordinanze del Tribunale di Milano (cfr. La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley). [16]

__________________________________

[1] Cfr. definizione da Dizionari Online Simone https://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&id=736&dizionario=11

[2] Sul punto cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 403, 2018, UTET.

[3] Sul punto cfr. Bortolotti, I contratti di distribuzione, pag. 690, 2016, Wolters Kluwer.

[4] Decisione Grundig-Costen, 23.9.1964.

[5] Sul punto cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 383, 2018, UTET.

[6] In merito la Commissione si è espressa nel caso Distillers (1978), ove la Commissione ha sottolineato il fatto che gli sconti possono essere utilizzati per disciplinare, in via indiretta, i flussi di esportazione “stabilendo che nei confronti dei rivenditori britannici della DCL che esportano alcolici verso altri paesi della CEE il prezzo è diverso da quello che viene praticato quando gli alcolici sono rivenduti per il consumo nel mercato nazionale, e riservando inoltre gli sconti di prezzo unicamente alle vendite di alcolici destinati ad essere rivenduti e consumati nel Regno Unito, restringono la libertà dei suddetti clienti di rivendere i prodotti in questione in un altro Paese della CEE (…).

L’inapplicabilità degli sconti alle vendite di alcolici destinati all’esportazione e l’applicazione, nei confronti degli stessi clienti, di prezzi diversi per gli alcolici destinati all’esportazione e per quelli destinati al consumo nel Regno Unito, costituiscono un chiaro tentativo di impedire le importazioni parallele dal Regno Unito negli altri paesi della CEE ed equivalgono pertanto a un divieto espresso di esportazione (n. 2, p. 25).

[7] Importante comunque sottolineare il fatto, che il Regolamento 330/2010, contrariamente al precedente 2790/1990, non menziona la clausola di esclusiva “aperta”, ma la stessa risulta esentata “automaticamente” in base al principio della liceità di tutte le clausole non espressamente vietate, statuito all’art. 2 del Regolamento.

[8] Le Line Guida della Commissione (LGC o Orientamenti) al punto 51, definiscono vendite attive: “il contatto attivo con singoli clienti ad esempio per posta, compreso mediante l’invio di messaggi di posta elettronica non sollecitati, o mediante visite ai clienti; oppure il contatto attivo con uno specifico gruppo di clienti, o con clienti situati in uno specifico territorio attraverso inserzioni pubblicitarie sui media o via Internet o altre promozioni specificamente indirizzate a quel gruppo di clienti o a clienti in quel territorio. La pubblicità o le promozioni che sono interessanti per l’acquirente soltanto se raggiungono (anche) uno specifico gruppo di clienti o clienti in un territorio specifico, sono considerati vendite attive a tale gruppo di clienti o ai clienti in tale territorio.”

[9] Le LGC, punto 51, definiscono vendite passive: “la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti, incluse la consegna di beni o la prestazione di servizi a tali clienti. Sono vendite passive le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale che raggiungano clienti all’interno dei territori (esclusivi) o dei gruppi di clienti (esclusivi) di altri distributori, ma che costituiscano un modo ragionevole per raggiungere clienti al di fuori di tali territori o gruppi di clienti, ad esempio per raggiungere clienti all’interno del proprio territorio. Le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale sono considerate un modo ragionevole per raggiungere tali clienti se è interessante per l’acquirente attuare tali investimenti anche se non raggiungono clienti all’interno del territorio (esclusivo) o del gruppo di clienti (esclusivo) di altri distributori

[10] LGC n. 52

[11] C-439/09, Pierre Fabre del 13.10.2011.

[12] C-230/16, Coty Germany del 6.12.2017.

[13] https://www.bbmpartners.com/news/La-decisione-Guess-della-Commissione-Europea-Una-prima-analisi

[14] Si rimanda in materia Dr. Thume “Paralleler Online-Vertrieb des Herstellers im Spannungsfeld seiner Dispositionsfreiheit und Treuepflicht”, Betriebs-Berater, 15.2018, pag. 770.

[15] Ciò significa che l’applicazione di tale sistema a tipologie di prodotti non “adeguate”, comporta il rischio, di una (seppure ipotetica) revoca dell’esenzione da parte della Commissione, ovvero dell’Autorità garante, per gli accordi che producano effetti esclusivamente sul mercato interno. Sul tema cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell'Unione Europea, 2018, pag. 405, UTET.

[16] Ordinanze del 19 novembre 2018 e 18 dicembre 2018 del Tribunale di Milano. https://sistemaproprietaintellettuale.it/notizie/angolo-del-professionista/13754-distribuzione-selettiva-di-cosmetici-di-lusso-il-tribunale-di-milano-chiarisce-i-presupposti-per-l-esclusione-del-principio-dell-esaurimento-del-marchio.html