Le parti possono chiedere la prova per testimoni dell'esistenza di un contratto di agenzia?

Cosa succede se le parti non stipulano il contratto di agenzia per iscritto, ma solamente sulla base di accordi verbali? Le parti possono dimostrare l’esistenza del rapporto attraverso l’ausilio di testimoni?

Con riferimento a questi aspetti, l’art. 1742 c.c., secondo comma, dispone che “il contratto deve essere provato per iscritto. Ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento dalla stessa sottoscritto che riproduce il contenuto del contratto e delle clausole aggiuntive”.

La Corte si è recentemente pronunciata in merito all’interpretazione di tale norma, consolidando quello che è l’orientamento della giurisprudenza, in base al quale il contratto di agenzia non può essere provato per testimoni, ma, appunto solamente per iscritto, salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento (Cass. Civ. n. 16/03/2015, n. 5165) (cfr. anche Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale).

Seppure in prima analisi tale sentenza non sembra aggiungere molto a quanto già disposto dall’art. 1742 c.c., da una lettura più attenta del testo normativo, si rilevare che tale articolo possa dare adito ad interpretazioni contrastanti e generare problematiche piuttosto rilevanti. Nello specifico tale norma, da un lato impone alle parti l’onere di provare per iscritto il contratto di agenzia, escludendo implicitamente la prova per testimoni, ma, dall’altro lato, attribuisce alle stesse il diritto irrinunciabile di pretendere l’una dall’altra un documento scritto che recepisca il contenuto del loro accordo verbale.

È evidente che il coordinamento tra il requisito della forma scritta ed il diritto delle parti ad ottenere un documento che riproduca il contenuto dell’accordo contiene al suo interno delle incoerenze: si pensi al caso (piuttosto frequente) in cui le parti hanno stipulato verbalmente un contratto di agenzia e, nel corso del rapporto, il preponente si rifiuta di fornire all'agente un documento scritto che ne recepisca i contenuti.
In tale caso, potrà l’agente, al quale è attribuito un diritto irrinunciabile di ottenere che l’accordo verbale venga recepito in un documento scritto, di agire in giudizio per conseguire tale documento e, per dimostrare la sussistenza del rapporto contrattuale, chiedere la prova per testimoni?

Per rispondere a tale domanda, è necessario fare un piccolo passo indietro ed analizzare l’origine dell’attuale formulazione del testo normativo. L’articolo 1742 c.c., è stato così modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, che ha espressamente recepito la direttiva europea 86/653, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri, concernenti gli agenti commerciali indipendenti.
La direttiva, nello specifico, ha introdotto due concetti fondamentali, ossia:

  • quello di attribuire a ciascuna parte il diritto di chiedere ed ottenere dall’altra un documento firmato, che riproduca il contenuto del contratto di agenzia (art. 13, §1);
  • quello di consentire agli Stati membri, se lo desiderano, di “prescrivere che un contratto di agenzia sia valido solo se documentato per iscritto.” (art. 13, §2)

La direttiva, introducendo tali principi generali, si è ispirata al modello tedesco, che al § 85HGB (Handelsgesetzbuch – codice del commercio), prevede (e prevedeva) esplicitamente la facoltà di ciascuna parte di “pretendere che, tanto il contenuto del contratto, quanto i successivi accordi relativi allo stesso, vengano inseriti in un documento firmato dalla controparte.”

È necessario specificare che tale documento redatto da una sola parte, non andrebbe a costituire un vero e proprio contratto, bensì una dichiarazione unilaterale con cui una parte indica quale sia, secondo essa, il contenuto del contratto. (cfr. Bortolotti, Contratto Manuale di Diritto Commerciale internazionale)

Pertanto, secondo quanto riferito dal testo normativo, le parti, che non hanno stipulato un contratto per iscritto, non possono provare in giudizio, tramite testimoni, il rapporto contrattuale ed eventuali variazioni di tale rapporto (ad es. aumenti di provvigioni, ampliamenti della zona) che sono stati concordati tra le parti verbalmente. Contrariamente, potranno provare solamente se vi siano delle “tracce scritte” che dimostrino l’effettivo accordo delle parti, come ad esempio degli scambi di mail e corrispondenza, delle conferma d’ordine da cui si possono presumere l’effettiva sussistenza di tali cambiamenti, etc..

Ad ogni modo, come si è detto, è espressamente prevista la possibilità (irrinunciabile!) della parte di chiedere che gli venga fornito un documento scritto che riproduca il contenuto del contratto. Ma cosa succede se controparte si rifiuta, oppure non riconosca che tra loro siano intervenuti degli accordi verbali. In tale caso, la parte richiedente, potrebbe agire giudizialmente per chiedere che venga riconosciuto la sussistenza del rapporto e per fare ciò utilizzare dei testimoni?

Sulla base di quanto esposto, tale domanda non sembra essere più scontata e l’interpretazione della Corte di Cassazione, qui sopra esaminata, secondo la quale “il contratto di agenzia deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 1742, secondo comma, cod. civ., come modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, sicché è inammissibile la prova testimoniale (salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento) e quella per presunzioni”, può risultare in parte non condivisibile.

Secondo autorevole dottrina (Bortolotti), il diritto irrinunciabile della parte di potere ottenere un documento scritto che riproduca il contenuto del contratto, mal si coniuga con una interpretazione restrittiva della norma, che andrebbe a vietare la possibilità di utilizzare la prova per testimoni per ottenere tale documento scritto.

Se si dovesse seguire tale interpretazione, non solo molto autorevole, ma altresì altamente coerente con quelle che sono le necessità pratiche delle parti e la prassi dei rapporti commerciali, la parte che desideri ottenere dall’altra un documento scritto che riproduca gli accordi verbali esistenti, potrà utilizzare la prova testimoniale nell’ambito del procedimento volto ad ottenere dall’altra parte il documento scritto. A seguito dell’ottenimento di tale documento, la parte potrà far valere, nel corso di una eventuale controversia, i propri diritti.

Tale orientamento si fonda principalmente sul fatto che, la scelta del legislatore di introdurre il requisito della forma scritta, è incompatibile con il diritto (irrinunciabile) delle parti di ottenere che l’accordo verbale venga recepito per iscritto.

Se così non si facesse, ci si troverebbe nella paradossale situazione, della parte di potere esercitare un proprio diritto irrinunciabile. Lo scopo della norma è quello di consentire ad una parte di ottenere un documento scritto che le facilita la tutela de suoi diritti e, quindi, pretendere la prova scritta degli accordi erbali di cui una parte chiede la formalizzazione costituirebbe un paradosso, che renderebbe quindi del tutto inefficacie la norma oggetto di esame.


Lo "star del credere" nel contratto di agenzia.

La cosiddetta clausola dello "star del credere"[1] può essere definita come una vera e propria garanzia, con la quale un soggetto assume in parte od integralmente il rischio del mancato pagamento di un terzo da lui introdotto, impegnandosi a rimborsare al preponente, entro i limiti pattuiti, la perdita da questi subita.[2]

In tema di agenzia, l'utilizzabilità di tale clausola è di fatto venuta meno a seguito della riforma della Legge 21 dicembre 1999, n. 256, con la quale è stato modificato l'art. 1746 c.c.. Si ricorda che con la riforma, è stato inserito un terzo comma nell'art. 1746 c.c.. Detto comma ha introdotto un esplicito divieto di inserire nei contratti di agenzia una clausola che

"ponga a carico dell'agente una responsabilità, anche solo parziale, per l'inadempimento del terzo".

Ad ogni modo, la norma prevede espressamente la facoltà delle parti di derogare a tale divieto, ma solamente

"per singoli affari , di particolare natura ed importo, individualmente determinati".

La garanzia in tali casi però incontrerà il limite quantitativo imposto dallo stesso comma 3 dell'art. 1746 c.c., non potendo essere superiore alla provvigione che l'agente avrebbe diritto a percepire in relazione al medesimo affare.

In ambito Europeo, si rileva che, nonostante la sua rilevanza e le criticità ad esso collegate, la direttiva n. 86/653 CEE, ha trascurato di disciplinare tale istituto, che veniva (e viene tutt'oggi) disciplinato nei restanti paesi membri principalmente nei seguenti due modi:

  1. le parti possono concordare lo star del credere solamente per determinati affari o clienti, ma, in tali casi, l'agente garantisce al 100% il rischio del preponente (meccanismo seguito ad esempio da Germania, Fillandia e Portogallo);
  2. è previsto un generico obbligo di garanzia a carico dell'agente su tutti gli affari promossi dall'agente, ma di ammontare molto inferiore all'effettivo danno subito dal preponente (si pensi a Belgio e Paesi Bassi).

Prima della riforma del 1999, l'Italia rientrava anch'essa nella seconda tipologia: lo star del credere dell'agente di commercio, non era disciplinato specificamente nel codice civile, bensì era regolato come istituto eventuale e pattizio dagli Accordi Economici Collettivi. L'agente era tenuto allo star del credere esclusivamente per patto ed in ottemperanza alle norme degli Accordi Economici Collettivi aventi efficacia erga omnes (art. 7, a.e.c. 20 giugno 1956) secondo cui l'onere pattuito a carico dell'agente non poteva superare il 20% della perdita subita dal preponente, misura ridotta dagli accordi economici collettivi aventi validità di convenzione privatistica (9 giugno 1988, settore commercio e 16 novembre 1988, settore industria) nella misura del 15%.

La Corte di Cassazione, si è recentemente pronunciata su un giudizio promosso da un agente, volto ad ottenere il pagamento del corrispettivo per lo star del credere che era stato pattuito, in un rapporto contrattuale instaurato antecedentemente alla riforma dell’art. 1746 comma 3, avvenuta, appunto, alla fine del 1999.[3]

In tale sentenza la Corte compie una breve analisi dello sviluppo dell’istituto, ricordando che esso, già previsto dal codice di commercio, ha trovato ingresso nel codice civile all’art. 1736 c.c., in tema di contratto di commissione. L’art. 1736 c.c., infatti, dispone che il commissionario risponde nei confronti del committente dell’esecuzione dell’affare, avendo nel contempo un diritto ad uno speciale compenso o ad una maggiore commissione. In tale prospettiva il commissionario, in quanto mandatario del committente, per conto del quale agisce, si fa garante nei suoi confronti della solvibilità del terzo contraente.

La Corte, sostanzialmente, ha riconfermato l'orientamento espresso e ribadito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità,[4] secondo cui al contratto di agenzia (prima della riforma!) non poteva applicarsi in via analogica l'art. 1736, c.c. in tema di contratto di commissione, poiché la responsabilità dell'agente per lo star del credere era disciplinata in modo specifico dall'accordo economico collettivo 20 giugno 1956, reso obbligatorio erga omnes dal D.P.R. n. 1450/1961 (che limita la responsabilità dell'agente senza ulteriore compenso al 20% della perdita subita dal preponente), ovvero dalla più favorevole disciplina posta nei successivi accordi collettivi del settore (qualora le parti vi abbiano aderito), che adottano il più ristretto limite del 15%.[5] Sulla base di tale ragionamento la  Corte ha affermato che:

"in mancanza di una esplicita pattuizione del compenso ed in assenza di prova di una volontà delle parti in tal senso, nessun compenso aggiuntivo è dovuto all'agente per la statuizione dello star del credere."

A seguito di tale intervento normativo, (dopo il 1999) l’utilizzabilità dello star del credere risulta di fatto molto meno rilevante nel nostro sistema. Le parti possono, infatti, pattuirlo solamente caso per caso e, inoltre, la garanzia dell'agente deve essere limitata ad un importo pari e non superiore alla sua provvigione.

In pratica, il legislatore ha in pratica applicato ed imposto i requisiti (sopra esaminati) di ambedue i sistemi utilizzati dagli Stati Membri e ha ristretto l'utilizzabilità di tale istituto in maniera tale da cancellarlo di fatto dal nostro sistema giuridico.

Da un lato lo star del credere, così disciplinato, non ha più la funzione di garantire il preponente per determinati affari che ritiene essere rischiosi (la garanzia non è del 100%, ma è solamente pari alla provvigione che l'agente avrebbe diritto a percepire per quel determinato affare), dall'altro non può essere utilizzato per responsabilizzare l'agente, in quanto non può operare riguardo a tutti gli affari promossi dall'agente stesso, ma solo in singoli casi in cui il preponente ha il sospetto che il cliente sia poco affidabile.

Tale scelta di fatto costituisce una grave svantaggio per il preponente italiano che intenda accedere a nuovi mercati e sottoporre la propria legge ad agenti stranieri. Lo star del credere, infatti, dovrebbe essere visto come tutela per il preponente, soprattutto quando questi si relazioni con agenti in mercati esteri, per i quali lo star del credere dovrebbe essere mezzo fortemente necessario, considerando la maggiore difficoltà per il preponente, di ottenere informazioni sull'affidabilità e la solvibilità di clienti stranieri, procacciati dall'agente.

____________________________

[1] Il termine “star del credere” viene normato all’art. 1736 c.c., in tema di commissione, che prevede: “Il commissionario che, in virtù di patto o di uso, è tenuto allo "star del credere" risponde nei confronti del committente per l'esecuzione dell'affare. In tal caso ha diritto, oltre che alla provvigione, a un compenso o a una maggiore provvigione, la quale, in mancanza di patto, si determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto l'affare. In mancanza di usi, provvede il giudice secondo equità.” Attraverso tale clausola il commissario assume il ruolo di un fideiussore ex art. 1936 del terzo con cui contrare, garantendo al committente il regolare adempimento dell’obbligazione del terzo ed il buon esisto dell’affare.

[2] Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolters Kluwer, pag. 241.

[3] Cass. Civ. 2015, n. 4461.

[4] Cfr., ad es., Corte di Cass. Civ. n. 1999, n. 12879.

[5] Cass. Civ. 1999, n. 3902/99


Il potere del preponente di modificare il portafoglio clienti del proprio agente

[:it]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e preponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88% (sul punto cfr. anche Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente).

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:de]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e proponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88%.

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:en]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e proponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88%.

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:]


Derogabilità del termine di preavviso dell'agente.

L'art. 1750 cod. civ., così come sostituito dal D.Lgs. 10 settembre 1991, n. 303, art. 3 (di attuazione della direttiva comunitaria 86/653), stabilisce che:

"Se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all'altra entro un termine stabilito (comma 2).
"Il termine di preavviso non può comunque essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno iniziato, a tre mesi per il terzo anno iniziato, a quattro mesi per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi (comma 3).
"Le parti possono concordare termini di preavviso di maggiore durata, ma il preponente non può osservare un termine inferiore a quello posto a carico dell'agente" (comma 4).

Si ricordo che le modifiche apportate all’art. 1750 c.c. dal d.Lgs. n. 303 del 1991,  sono state attuate in linea con la direttiva comunitaria n. 653 del 1986, che disponeva espressamente che:

1. Se il contratto di agenzia è concluso a tempo indeterminato, ciascuna parte può recedervi mediante preavviso.
2. Il termine di preavviso è di un mese per il primo anno del contratto di agenzia, di due mesi per il secondo anno iniziato, di tre mesi per il terzo anno iniziato e per gli anni successivi. Le parti non possono concordare termini più brevi.
3. Gli Stati membri possono fissare a quattro mesi il termine di preavviso per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi. Essi possono stabilire che le parti non possono concordare termini più brevi.

Ci si è domandati se le parti possano derogare in parte il dettato normativo dell’art. 1750 c.c., riducendo i termini di preavviso stabiliti dal legislatore. Nello specifico si è sostenuto che la tutela espressamente prevista dalla direttive sia riferibile solamente ai primi tre anni e che quindi sarebbe lecito sostenere che il termine di preavviso inderogabile dalle parti sarebbe riferibile solamente quello di tre mesi. Se si seguisse tale teoria, le parti potrebbero derogare parzialmente l’art. 1750 c.c. e prevedere un termine di preavviso di tre mesi anche per i rapporti di durata superiore ai tre anni.

La Corte di Cassazione si è espressa in merito, respingendo integralmente tale tesi, sostenendo che “in tema di contratti di agenzia a tempo indeterminato, il termine di preavviso, ai sensi dell'art. 1750 cod. civ. (come sostituito dall'art. 3 del d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303), non può essere inferiore ad un mese per ogni anno, o frazione di anno, di durata del contratto fino ad un massimo di sei mesi, poiché il legislatore italiano - come consentito dall'art. 15 della Direttiva del Consiglio CEE del 18 dicembre 1986, n. 86/653/CEE, ferma la tutela inderogabile per il primo triennio - ha previsto, anche per gli anni successivi al terzo, termini crescenti di quattro, cinque e sei mesi (rispettivamente per il quarto, il quinto, il sesto ed i successivi anni) non derogabili ad opera delle parti.” (Cass. Civ. n. 16487, 2014)

Pertanto, secondo la Corte, il termine di preavviso di cui all’art. 1750 c.c. è inderogabile dalle parti, o meglio, le parti possono prevedere solamente termini superiori, ma non inferiori rispetto a quelli indicati nel codice.

Da ultimo, ricordo che il mancato preavviso, fa insorgere in capo all’agente il diritto di chiedere l’indennità’ sostitutiva del preavviso.

 


Obblighi principali dell'agente. E' sufficiente una semplice attività di propaganda?

In base all'art. 1742 c.c., l'agente nel rapporto contrattuale "assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione la conclusione di contratti in una zona determinata." (cfr. obblighi dell'agente nel diritto tedesco)

Con riferimento a tale articolo, recentemente si è pronunciata una sentenza della Corte di Cassazione, che si è soffermata appunto sugli elementi essenziali del contratto di agenzia. La Corte ha precisato che l'attività di promozione della conclusione di contratti, che appunto costituisce obbligazione tipica dell'agente ex art. 1742 c.c., non può consistere in una semplice attività di "propaganda", seppure da questa derivi un incremento delle vendite; infatti una semplice attività di promozione della conclusione di contratti non è sufficiente a fare maturare il diritto dell'agente alla provvigione, essendo necessario che l'agente stesso svolga una attività di convincimento del potenziale cliente a effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente. Solo in tal caso, ossia in caso il contratto promosso dovesse andare a buon fine per l'attività svolta dall'agente, quest'ultimo avrà diritto alla provvigione. (cfr. anche Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente.L’obbligo di informazione dell’agente nei confronti del preponente).

La Cassazione sul punto ha affermato che la prestazione dell'agente consiste

"in atti di contenuto vario e non predeterminato - quali il compito di propaganda, predisposizione dei contratti, la ricezione e la trasmissione delle proposte al preponente per l'accettazione - atti che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente; nessuna di queste attività costituisce componente indispensabile della prestazione dell'agente." (Cass. Civ. 4.9.2014 n. 18690).

La giurisprudenza, quindi, fa una netta distinzione tra l’attività di propaganda e l’attività di promozione.

L’attività di promozione, infatti, è considerata come la prestazione tipica dell’agente di commercio, ex art. 1742 c.c.. Promuovere la conclusione di un contratto significa quindi spingere, proporre, mettere in atto una serie di attività affinché vengano stipulati determinati contratti in una determinata zona. Tra le attività di promozione, si ricorda, rientrano svariate attività di “impulso” e di “agevolazione”, finalizzate appunto al collocamento di un bene o servizio in una zona determinata, volte ad incrementare o sostenere verso l’acquisto la domanda del prodotto offerto dall’impresa preponente.

Tra queste attività di impulso rientra (principalmente) l’attività di propaganda, che è destinata a persuadere e informare un potenziale cliente dell’esistenza del prodotto o del servizio, illustrandone le qualità e le caratteristiche.

A ogni modo, la semplice attività di propaganda non è sufficiente a fare si che si possa ritenere sussistere un rapporto di agenzia. Rilevo da ultimo che la giurisprudenza non esclude la possibilità di rendere preminente l'azione di propaganda rispetto a quella di preparazione e allestimento del contratto.


La clausola di recesso per giusta causa nel contratto di agenzia. Parametri valutativi.

In tema di estinzione del rapporto di lavoro subordinato, l'art. 2119 c.c. dispone che "ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto."

La giurisprudenza, ormai in maniera piuttosto uniforme, ritiene applicabile in via analogia l'art. 2119 c.c. anche al rapporto di agenzia. Pertanto, anche in tale ambito, l'obbligo del recedente dal contratto a tempo indeterminato di dare il preavviso non sussiste, qualora si verifichi una (giusta) causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto (Cass. Civ. 14.2.2011 n. 3595).

Inoltre, secondo la giurisprudenza ed autorevole dottrina, in tali ipotesi verrebbe conseguentemente meno l'obbligo del preponente di corrispondere all'agente l'indennità sostitutiva del preavviso che non è stato dato, stante l'interruzione in tronco  del rapporto per causa imputabile all'agente stesso.

Posto che l'applicabilità analogica dell'art. 2119 comma 1 c.c. al rapporto di agenzia è piuttosto pacifica, ci si domanda quando possa affermarsi che sussista per il preponente una giusta causa di recesso dal contratto.

La Corte di Cassazione in merito si è pronunciata affermando che "l'istituto del recesso per giusta causa, previsto dall'art. 2119, comma 1, c.c. in relazione al contratto di lavoro subordinato, è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest'ultimo ambito il rapporto di fiducia - in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell'attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali - assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata. (Nella specie la Corte ha ritenuto correttamente accertata la sussistenza della giusta causa di recesso dell'agente, in ragione del mancato pagamento di provvigioni relative ad uno specifico ordine, ricevuto direttamente dal preponente, ma da terzi rientranti nella zona di esclusiva dell'agente e che quest'ultimo aveva in precedenza acquisito come clienti)." (Cass. Civ. 5.11.2013 n. 24776).


L'indennita' sostitutiva del preavviso nel contratto di agenzia.

Nel diritto italiano, la durata e le modalità di recesso del contratto di agenzia sono regolate dall’art. 1750 del codice civile.

Il primo comma di tale articolo prevede che "il contratto di agenzia a tempo determinato che continui ad essere eseguito dalle parti anche  successivamente  alla scadenza del termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato."

Il secondo comma dell'art. 1750 c.c., regola quello che è il preavviso minimo che le parti devono dare in caso di recesso. Nello specifico esso dispone che: il "contratto di agenzia a tempo indeterminato può essere risolto dalle parti solamente se viene dato preavviso, che non può essere inferiore a":

  • 1 mese per il 1° anno,
  • 2 mesi per il 2° anno,
  • 3 mesi per il 3° anno,
  • 4 mesi per il 4° anno,
  • 5 mesi per il 5° anno,
  • 6 mesi per il 6° anno e per gli anni successivi.

Importante ricordare che le parti possono prevedere un termine di preavviso superiore, ma mai inferiore a quello dettato dalle norme codicistiche.

Ci si chiede, dunque, che cosa succede se il termine di preavviso non venga rispettato: il preponente deve all’agente un’indennità per il periodo di preavviso non rispettato?

Esempio:

L’agente X ha lavorato per 6 anni per il preponente Y. Il preponente Y decide di non volere proseguire la collaborazione con l’agente, decisione supportata da mere e semplici ragioni personali e senza la sussistenza di una giusta causa. Recede dal contratto senza alcun preavviso e liquida le provvigioni dovute fino alla data del recesso.

Il legale del preponente Y, venuto a conoscenza dell’accaduto contatta il preponente avvisandolo che, sulla base di un costante indirizzo giurisprudenziale, in caso di mancato preavviso nel recesso da parte del preponente l’agente ha comunque diritto a percepire una indennità sostitutiva del predetto preavviso (in questo caso 6 mesi) da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso[1].

Si può concludere che, ove una parte receda in tronco, senza che vi sia un motivo sufficiente per giustificare tale scelta, essa è tenuta a risarcire il danno alla controparte.

Nel caso di recesso ad opera del preponente, tale danno corrisponderà, in linea di massima, alle provvigioni che l'agente avrebbe presumibilmente percepito nel periodo rimanente del rapporto. [2]

Si discute se tale indennità di preavviso sia dovuta solamente nel caso di recesso (ingiustificato) del preponente o anche nel caso di recesso per giusta causa dell'agente. Secondo la prevalente giurisprudenza si ritene che debba essere riconosciuta anche in questo caso all'agente il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso [3], oltre all'eventuale risarcimento del danno[4].

La giurisprudenza ritiene, inoltre, che il recesso dell'agente per giusta causa si converte, ove si accerti l'insussistenza di quest'ultima e salvo che non emerga una diversa volontà dell'agente medesimo, in un recesso senza preavviso, con conseguente diritto del preponente percepire l'indennità di mancato preavviso.[5]

Da ultimo, secondo autorevole dottrina (Bortolotti) e giurisprudenza,[6] sembrerebbe non potersi escludere a priori il diritto della parte di chi subisce il recesso in tronco di pretendere il "pieno" risarcimento del danno, ove dimostri che questo ammonta ad una somma superiore all'indennità di preavviso.

Importante comunque sottolineare che l’indennità sostitutiva del preavviso ha carattere inderogabile e non può essere esclusa né dalla contrattazione collettiva né dai contratti individuali.[2]

RIASSUMENDO

  • il contratto a tempo determinato che viene continuato ad essere eseguito a seguito della sua scadenza  si trasforma in contratto a tempo indeterminato
  • le parti possono prevedere un periodo di preavviso superiore, ma mai inferiore rispetto a quello previsto dalla legge
  • se si recede senza preavviso, è previsto comunque un indennità sostitutiva del predetto preavviso da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso
  • si ritene che anche nel caso in cui il recesso per giusta causa venga effettuato dal preponente, questi avrà diritto all'indennità di mancato preavviso
  • sembrerebbe non potersi escludere a priori il diritto della parte di chi subisce il recesso in tronco di pretendere il "pieno" risarcimento del danno, ove dimostri che questo ammonta ad una somma superiore all'indennità di preavviso

[:de]L’art. 1750 del codice civile disciplina la durata del contratto di agenzia e il suo recesso.

Il primo comma prevede che "il contratto di agenzia a tempo determinato che continui ad essere eseguito dalle parti anche  successivamente  alla scadenza del termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato."

Il secondo comma dell'art. 1750 c.c., inoltre dispone che il "contratto di agenzia a tempo indeterminato può essere risolto dalle parti solamente se viene dato preavviso, che non può essere inferiore a":

- 1 mese per il 1° anno
- 2 mesi per il 2° anno
- 3 mesi per il 3° anno
- 4 mesi per il 4° anno
- 5 mesi per il 5° anno
- 6 mesi per il 6° anno e per gli anni successivi

Le parti possono prevedere un termine di preavviso superiore, ma mai inferiore a quello dettato dalle norme codicistiche.

Ci si chiede, dunque, che cosa succede se il termine di preavviso non venga rispettato: il proponente deve all’agente un’indennità per il periodo di preavviso non rispettato?

Es. L’agente X ha lavorato per 6 anni per il proponente Y. Il proponente Y decide di non volere proseguire la collaborazione con l’agente, decisione supportata da mere e semplici ragioni personali e senza la sussistenza di una giusta causa. Recede dal contratto senza alcun preavviso e liquida le provvigioni dovute fino alla data del recesso.
Il legale del proponente Y, venuto a conoscenza dell’accaduto contatta il preponente avvisandolo che, sulla base di un costante indirizzo giurisprudenziale, in caso di mancato preavviso nel recesso da parte del preponente l’agente ha comunque diritto a percepire una indennità sostitutiva del predetto preavviso (in questo caso 6 mesi) da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso[1].

Importante sottolineare che l’indennità sostitutiva del preavviso ha carattere inderogabile e non può essere esclusa né dalla contrattazione collettiva né dai contratti individuali.[2]

RIASSUMENDO

  • il contratto a tempo determinato che viene continuato ad essere eseguito a seguito della sua scadenza  si trasforma in contratto a tempo indeterminato;
  • le parti possono prevedere un periodo di preavviso superiore, ma mai inferiore rispetto a quello previsto dalla legge;
  • se si recede senza preavviso, è previsto comunque un indennità sostitutiva del predetto preavviso da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso

[:en]Article 1750 of the Italian Civil Code governs the duration of the agency agreement and its termination.
The first paragraph provides that "the agency agreement for an fixed-term contract, which continues to be performed by the parties even after the expiry of the term turns into a open-ended contract."

The second paragraph of art. 1750 cc, it also provides that the "agency agreement for an indefinite period may be terminated by the parties only if it is given notice, which may not be less than"

  • 1 month for the 1 year
  • 2 months for the 2nd year
  • 3 months for the 3rd year
  • 4 months for the 4th year
  • 5 months for the 5th year
  • 6 months for the 6th year and for subsequent years

The parties may stipulate a longer period of notice, but not shorter than that dictated by above mentioned terms.

One wonders, therefore, what happens if the notice period is not met: the principal must pay to the agent compensation for the notice period is not respected?

For example: The Agent Caio has worked for six years for the principal Tizio. Tizio chooses not to continue working with the agent, a decision supported by mere and simple personal reasons and without the existence of a just cause. He terminates the contract without notice and pays the commission due to the date of recission.

The lawyer of Tizio, aware of what happened contacts the principal warning him that, based on a constant italian case-law, in the event the principal teminates the contract without notice the agent is still entitled to receive the payment of the notice period (in this case six months) to be calculated on the average of commissions earned in the year prior to the termination.

Important! The compensation in lieu of notice is mandatory and can not be excluded nor by collective bargaining or individual contracts.

IN SUMMARY
the fixed-term contract which is continued to be executed after its expiry turns into permanent contracts;
the parties may provide for a notice period higher, but never lower than that provided by law;
in case of termination without notice and cause, the agent has right to a compensation in lieu of notice, to be calculated on the average of commissions earned in the year prior to withdrawal[:]


Diffamazione su internet in Germania e in Italia. Ordinamenti a confronto

Già qualche tempo fa ho trattato la questione, ormai di interesse generale, sulle conseguenze giuridiche in caso di diffamazione a mezzo internet.

Ricordo brevemente che sul punto il tribunale di Livorno si è di recente espresso, dando vita ad un nuovo orientamento giurisprudenziale. Il  Tribunale ha deciso la condanna di una donna per “diffamazione”, con l’aggravante “mezzo stampa”, per avere insultato il proprio ex datore di lavoro sul proprio profilo Facebook.

Su questa tematica si è espressa di recente anche la Corte di Cassazione tedesca, la quale ha affermato con una recente sentenza del 17.12.2013 che una violazione dei diritti della persona attraverso una pubblicazione su internet ha il medesimo valore di una violazione a mezzo stampa.

Secondo i giudici di Karlsruhe, la violazione del diritto della persona si considera essere violato anche qualora un soggetto metta su internet del materiale lesivo e che tale materiale venga poi diffuso da terzi. 

La comparazione dei due diritti non ha valore prettamente teorico, ma ha valenza fortemente pratica. Si pensi all'esempio in cui:

un italiano mette in rete del materiale che lede i diritti di un cittadino tedesco con residenza in Germania. Ci si chiede se quest'ultimo ha il diritto di chiamare in giudizio l'italiano presso un tribunale tedesco e di chiedere l'applicazione del diritto tedesco per la risoluzione della controversia.

Circa la giurisdizione, ovvero capire quale giudice è competente a decidere sulla causa, si ricorda la sentenza della Corte di Giustizia del 25.10.2012 , con cui ha conferito la possibilità del soggetto leso di agire presso il Tribunale dove trova il proprio centro di interessi.

Circa, invece, la legge applicabile, vige il principio generale della Regolamento Roma II sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali, che all'art. 4 dispone essere applicabile la legge "del paese in cui il danno si verifica indipendentemente dal paese nel quale è avvenuto il fattoche ha dato origine al danno e a prescindere dal paese o dai paesi in cui si verificano le conseguenze indirette di tale fatto."

Nel caso di specie, quindi, un cittadino tedesco i cui diritti della persona sono stati violati da una pubblicazione messa in rete da un cittadino italiano, con residenza in Italia, potrebbe potenzialmente chiamare in giudizio quest'ultimo in Germania, chiedendo l'applicazione del diritto tedesco.

 


Il cabotaggio in Europa e documentazione necessaria

La licenza comunitaria consente anche, ai sensi degli artt. 8 e 9 del regolamento CE n. 1072/2009, l’attività di cabotaggio stradale di merci, ossia la prestazione di servizi di trasporto di merci su strada per conto terzi entro i confini di uno Stato membro diverso da quello di stabilimento dell’impresa comunitaria.

Il cabotaggio si distingue dal trasporto internazionale intracomunitario, in quanto si svolge interamente all’interno dei confini di un unico Stato membro (diverso da quello di stabilimento).

a) Limitazioni all'attività di cabotaggio

Il cabotaggio stradale di merci è consentito soltanto in via temporanea e resta soggetto a varie limitazioni quantitative

  • Il primo limite deriva dalla necessità che la presenza del veicolo all’interno dello Stato membro ospitante si giustifichi in forza di un precedente trasporto internazionale.
  • Gli altri limiti (quantitativi) si differenziano a seconda che lo Stato membro ospitante sia quello di destinazione del precedente trasporto internazionale o sia uno Stato diverso.
    • Nel primo caso, il co. I dell’art. 8.2 del regolamento CE n. 1072/2009 circoscrive la durata complessiva dell’attività di cabotaggio ad un arco temporale massimo di sette giorni dall’ultimo scarico relativo al trasporto internazionale e fissa un limite di tre operazioni consentite in detto arco temporale.
    • Nel secondo caso, il co. II stabilisce che possa essere effettuata un’unica operazione entro tre giorni dall’ingresso del veicolo vuoto nel territorio dello Stato membro ospitante, ferma la possibilità di effettuare altre due operazioni in diversi Stati membri, il tutto sempre nell’arco temporale massimo di sette giorni dall’ultimo scarico relativo al trasporto internazionale.
b) documentazione da tenere a bordo

Il rispetto dei suddetti limiti quantitativi deve essere rigorosamente documentato. In Italia, non è più richiesto che le annotazioni avvengano in un apposito libretto dei resoconti. Tuttavia, il D.M. 03.04.2009, in conformità con l’art. 8.3 del regolamento CE n. 1072/2009, continua a richiedere il possesso di documentazione che attesti il trasporto internazionale in entrata e che, per ogni operazione di cabotaggio, riporti almeno:

  • il nome, l'indirizzo e la firma del mittente;
  • il nome, l'indirizzo e la firma del trasportatore;
  • il nome e l'indirizzo del destinatario, nonché la sua firma e la data di consegna una volta che le merci siano state consegnate;
  • il luogo e la data di presa in consegna delle merci e il luogo di consegna previsto;
  • la descrizione della merce e del suo imballaggio nella terminologia comune e, per le merci pericolose, la denominazione generalmente riconosciuta, nonché il numero di colli, i contrassegni speciali ed i numeri riportati su di essi;
  • il peso lordo o la quantità, altrimenti espressa, delle merci;
  • il numero di targa del veicolo a motore e del rimorchio.

Le limitazioni quantitative di cui sopra ed il correlato obbligo di documentazione vengono meno qualora l’attività di cabotaggio sia svolta nell’ambito di un trasporto combinato (intermodale) di merci. Volendo incentivare l’intermodalità dei trasporti quale possibile rimedio ai problemi connessi alla congestione del traffico stradale, alla tutela dell'ambiente e alla sicurezza della circolazione, infatti, la legislazione europea ha liberalizzato da ogni restrizione quantitativa il trasporto combinato di merci.

c) Il trasporto combinato di merci

La direttiva CEE n. 92/106, recepita in Italia con D.M. del 15.02.2001, deroga in forza del criterio di specialità alla normativa generale sul cabotaggio stradale di merci, rimuovendo tutte le limitazioni quantitative previste dal regolamento CE n. 1072/2009 e dal D.M. 03.04.2009, a condizione che vengano rispettati alcuni presupposti di applicabilità. Presupposto fondamentale è, in primo luogo, la combinazione della modalità di trasporto terrestre con quella ferroviaria e/o marittima o per via navigabile interna. In secondo luogo, il contenitore trasportato deve essere pari o superiore a venti piedi. Gli ulteriori presupposti differiscono a seconda che si tratti di un trasporto combinato nave-gomma o rispettivamente ferrovia-gomma:

  • nel trasporto combinato nave-gomma, il tratto su nave deve essere di almeno 100 km in linea d’aria, mentre quello su gomma deve essere al massimo di 150 km in linea d’aria tra il punto di inizio o di termine del viaggio su gomma ed il porto.
  • nel trasporto combinato ferrovia-gomma, il tratto ferroviario deve essere di almeno 100 km in linea d’aria, mentre quello su strada deve essere il tragitto più breve tra il luogo di inizio o di termine del viaggio su gomma e la più vicina stazione ferroviaria appropriata.

Per quanto concerne il trasporto combinato ferrovia-gomma, deve ritenersi che la dizione «appropriata stazione ferroviaria» di cui all’art. 1 della direttiva CEE n. 92/106 sia riferibile alle sole stazioni ferroviarie multimodali che, in relazione alle circostanze del caso, risultino concretamente idonee quale punto di inizio o di termine del tragitto ferroviario. I presupposti applicativi della normativa speciale sono, pertanto, rispettati anche se vi siano altre stazioni ferroviarie più vicine al punto di inizio o di termine del viaggio su gomma, ma esse non risultino concretamente funzionali all’intermodalità del trasporto.

Vale la pena notare che spetta all’autotrasportatore dimostrare la ricorrenza dei presupposti di applicabilità della disciplina speciale sul trasporto combinato di merci: in mancanza, restano ferme le limitazioni quantitative per il cabotaggio stradale ed il correlato obbligo di documentazione.

 

avv. Luca Andretto
collaboratore presso Studio Dindo, Zorzi & Associati

 


Documentazione da tenere a bordo nell’autotrasporto di merci in Italia da parte di imprese straniere

Il trasporto di merci su strada per conto terzi su territorio italiano può essere effettuato anche da imprese di autotrasporti stabilite all’estero, purché nell’ambito di un trasporto internazionale. Può anche trattarsi di trasporto interamente interno ai confini italiani (cabotaggio), ma in tal caso vanno rispettati limiti stringenti.

Esaminiamo di seguito le autorizzazioni e gli altri documenti che l’autotrasportatore deve tenere a bordo del veicolo ed esibire a richiesta degli agenti italiani preposti al controllo, nonché le sanzioni cui può andare incontro in caso di mancata esibizione degli stessi.

a) La licenza comunitaria

Il regolamento CE n. 1072/2009 (che dal 04.12.2011 sostituisce il regolamento CE n. 881/1992) disciplina la licenza comunitaria per il trasporto internazionale di merci su strada per conto terzi, con la quale ciascuna impresa di autotrasporto avente stabilimento in uno Stato membro può svolgere la propria attività in tutto il territorio UE, salve alcune limitazioni.

La licenza è necessaria solo per trasporti di merci con autoveicoli il cui peso massimo a carico ammissibile, compreso quello dei rimorchi, superi le 3,5 tonnellate. Se, invece, il peso massimo è pari o inferiore a 3,5 tonnellate, il trasporto non richiede la licenza comunitaria e l’art. 1.5, lett. c), del regolamento CE n. 1072/2009 lo esenta espressamente da ogni speciale autorizzazione per il trasporto internazionale intracomunitario.

La licenza comunitaria è rilasciata dalle autorità competenti dello Stato membro di stabilimento dell’impresa di autotrasporti. La licenza è unica per ciascuna impresa, perciò occorre chiedere il rilascio di un numero di copie certificate conformi corrispondente al numero di veicoli (immatricolati in ambito UE) di cui l’impresa di autotrasporti disponga, anche a titolo di noleggio, leasing o altro. A bordo di ciascun veicolo deve, infatti, trovarsi una copia certificata conforme della licenza comunitaria, che va esibita a richiesta degli agenti preposti al controllo (art. 4.6 del regolamento CE n. 1072/2009).

La licenza comunitaria è necessaria per i soli veicoli a motore e, perciò, in caso di complesso veicolare, va tenuta a bordo del trattore stradale ed estende i suoi effetti anche al rimorchio o semirimorchio. Solo per il trattore stradale è necessaria l’immatricolazione in uno Stato membro, mentre il rimorchio o semirimorchio può anche essere immatricolato in uno Stato terzo.

b) L’attestato di conducente

Per quanto riguarda i conducenti di veicoli che effettuano trasporti intracomunitari di merci su strada per conto terzi, è ovviamente necessario che essi dispongano di idonea partente di guida, valida per l’Europa. Oltre alla patente, i soli conducenti che non siano cittadini di uno Stato membro necessitano altresì dell’attestato di conducente previsto dall’art. 5 del regolamento CE n. 1072/2009.

L’attestato di conducente è rilasciato all’impresa di autotrasporti (e non al conducente stesso) dalle autorità competenti del suo Stato membro di stabilimento. Si tratta di un documento nominativo, che identifica l’impresa di autotrasporti ed il conducente e certifica la regolarità del relativo rapporto di lavoro. Occorre, pertanto, richiedere un attestato e una copia certificata conforme per ogni conducente extracomunitario alle dipendenze dell’impresa di autotrasporti. L’attestato va tenuto in originale a bordo del veicolo guidato dal conducente extracomunitario ed esibito a richiesta degli agenti preposti al controllo, mentre la copia certificata conforme va conservata nei locali dell’impresa.

c) Contratto di noleggio e contratto di lavoro del conducente

L’art. 2 della direttiva CE 2006/1 impone a ciascuno Stato membro di consentire alle imprese di autotrasporti stabilite in altri Stati membri l’utilizzazione nel suo territorio di veicoli presi a noleggio (o in leasing) senza conducente, a condizione che tali veicoli siano guidati da personale proprio della stessa impresa che li utilizza. A bordo del veicolo devono trovarsi i seguenti documenti:

  • contratto di noleggio (o di leasing) o estratto autenticato del contratto contenente in particolare il nome del noleggiante, il nome del noleggiatore, la data e la durata del contratto e l’identificazione del veicolo;
  • contratto di lavoro del conducente o estratto autenticato del contratto, contenente in particolare il nome del datore di lavoro, il nome del dipendente, la data e la durata del contratto di lavoro, o un foglio paga recente.

A seguito di questa direttiva, lo Stato italiano si è limitato ad emanare una circolare ministeriale (la n. 63/M4 del 08.05.2006 del Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti)ribadendo l’obbligo di tenere a bordo del veicolo noleggiato il relativo contratto di noleggio e il contratto di lavoro del conducente. Sennonché, le circolari ministeriali non sono fonti normative e, quindi, non sono idonee ad implementare le norme di una direttiva che, come noto, vincola esclusivamente gli Stati membri e non può in alcun caso essere invocata quale atto dotato di efficacia diretta a carico dei privati.

Può, però, ritenersi che l’ordinamento italiano fosse già “preconformato” alla direttiva e non fosse, perciò, tenuto a darvi ulteriore implementazione, in quanto già il D.M. n. 601 del 14.12.1987 prevedeva all’art. 4 l’obbligo di tenere a bordo del veicolo noleggiato il relativo contratto di noleggio e il contratto di lavoro del conducente, entrambi in originale o copia autentica. Di conseguenza, al fine di evitare probabili contestazioni, è opportuno tenere sempre tali documenti a bordo del veicolo noleggiato.

avv. Luca Andretto
collaboratore presso Studio Dindo, Zorzi & Associati

 

Il sorpasso (1962)
Regista: Dino Risi.