Preavviso dell'agente ed ultrattività del rapporto contrattuale

La Corte di Cassazione ha ribadito, con sentenza n. 668 del 25 maggio 2012, il principio di ultrattività del rapporto contrattuale. Secondo tale principio, il contratto di agenzia a tempo indeterminato non cessa nel momento in cui uno dei contraenti recede dal contratto, ma solo quando scade il termine di preavviso, sancito nell'interesse e a tutela della parte non recedente.

Nel caso di specie il preponente comunicava la propria volontà risolutoria; nel corso del periodo di preavviso, anche l'agente comunicava la propria intenzione di recedere da contratto.

Secondo la Corte, proprio questa dichiarazione da parte dell'agente doveva considerarsi come una implicita rinuncia al periodo di preavviso, con conseguente impossibilità da parte dell'agente di chiedere l'indennità sostitutiva del preavviso.

Nel caso di specie, quindi, dato che "l'estinzione del rapporto resta pur sempre imputabile alla volontà del preponente, permane in campo a questi l'obbligo di corrispondere l'indennità di cessazione ex art. 1751 c.c." L'agente, infatti, ha diritto all'indennità ex art. 1751 c.c. anche quando recede dal contratto per circostanze che, pur non configurando una giusta causa, sono imputabili al preponente.

 

 

Prossima fermata: paradiso (1991)
Regia di Albert Brooks


Il contratto di agenzia in Germania.

Con il presente articolo si intendono dare al lettore alcuni elementi per meglio comprendere la regolamentazione del contratto di agenzia in Germania, la cui importanza è assai rilevante, tenuto conto del fatto che la direttiva europea in tema di agenzia si è ispirata proprio a tale modello e, conseguentemente, anche la normativa italiana, si è adeguata ad essa, con gli interventi normativi del 1991 e 1999 la figura 


1) Contratto di agenzia e lavoratore autonomo.

Nel diritto tedesco la figura giuridica dell’agente di commercio è regolata dal libro primo, settimo titolo del Codice di Commercio tedesco (HGB— Handelsgesetzbuch) e più precisamente dai §§ 84-92c. Il § 84 HGB apre questo titolo con una definizione che qualifica l’agente di commercio come colui a cui viene affidato da un preponente il compito di intercedere, in modalità di autonomo esercente, negli affari a favore di quest’ultimo ovvero di concluderli a suo nome. Autonomo è colui che svolge la propria attività in sostanziale autonomia e può regolare il proprio orario di lavoro.

Questo presupposto legislativo viene ovviamente utilizzato in sede giudiziaria, per poter distinguere l’agente di commercio dal lavoratore dipendente. La giurisprudenza ritiene la definizione di cui al § 84 comma I HGB quale parametro generale per poter distinguere le due figure giuridiche, se pur sia necessario tener conto delle circostanze del caso, nella loro integralità e totalità.

Dato il carattere generico e non facilmente interpretabile del concetto di autonomia richiesto dal § 84 HGB all’agente di commercio, la Giurisprudenza si è più volte imbattuta in questo problema. Una sentenza della Corte Federa le del Lavoro (BAG) ha indicato in una sua nota sentenza del 2003 diversi accordi contrattuali che ha definito come Arbeitnehmerverdächtig”, ossia che fanno sospettare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Si elencano qui sotto alcuni di essi:

  • richiesta di trasmissione di una previsione trimestrale sull’andamento della produzione, avente ad oggetto i singoli reparti produttivi e una previsione della valutazione percentuale della chiusura degli affari dei singoli clienti. Una tale richiesta va oltre l’obbligo di tutela degli interessi di cui al § 86 comma 1 HGB che obbliga l’agente ad impegnarsi per la vendita dei prodotti o per il perfezionamento degli affari, tenendo conto degli interessi dcl preponente;
  • ordini di blocco delle ferie. In questa maniera viene limitata l’autonomia dell’agente di determinare le ore di lavoro;
  • la denominazione del contratto è irrilevante per l’inquadramento della figura giuridica; la mancanza di un accordo sull’inizio e la fine dell’orario di lavoro e sull’indicazione dell‘organizzazione dell‘attività lavorativa sarà interpretata a favore dell’autonomia dell’agente di commercio:

Al contrario non preclude l’autonomia:

  • l’obbligo a partecipare, settimanalmente, ad conferenze telefonico di 5 ore e, in casi straordinari, di svolgere gli ordini d’incasso entro breve,
    l’imporre termini per il compimento dei lavori, così come, in periodo di assestamento dell’impresa, il blocco delle ferie pe un lasso di tempo che va da 4 fino ad 8 settimane;
  • la comunicazione degli obbiettivi di produzione, se rimane comunque un margine considerevole per l’autorganizzazione delle ore di lavoro:
    un obbligo di informazione, a meno che l’agente non sia tenuto ad un’informazione copiosa sulla sua attività ed a brevi intervalli;
  • una previsione trimestrale sull’andamento della produzione supera sicuramente l’usuale obbligo d’informazione, ma di per sé non può essere considerato come un indizio sostanzia le di subordinazione;
    il divieto di concorrenza dell’agente;
  • istruzioni sull’orario cli lavoro, in quanto anche i collaboratori del servizio esterno si devono adattare alle richieste di orario di propri clienti.

Secondo l‘OLG (Oberlandesgericht - Corte di Appello) di Koblenz la tipologia del rapporto si evince esplicitamente dalla dipendenza personale che intercorre tra le due figure giuridiche e che una dipendenza di tipo economico non è né necessaria, né sufficiente.
Il fatto che l’agente sia legato al preponente attraverso indicazioni e direttive che quest’ultimo ha il potere di emettere, in linea generale non va ad intaccare quello che è lo status dell’agente di lavoratore indipendente. Il lavoratore dipendente è colui che, contrariamente all’agente, svolge le sue prestazioni inquadrato all’interno di una organizzazione definita da un terzo. Rilevanti per la qualificazione della figura giuridica sono le circostanze in cui è stata compiuta la prestazione e le modalità di pagamento ovvero connotati puramente formali come il pagamento delle tasse al parti del pagamento degli enti di previdenza ed assistenza sanitaria o il tenere fascicoli personali dell‘agente.


2) Il diritto alla provvigione.

L’agente ha in base al § 87 comma 1 HGB diritto alla provvigione. Questi può esercitare tale diritto su tutti gli affari la cui conclusione è stata resa possibile grazie ad un ‘attività a lui riconducibile ovvero agli affari conclusi con terzi acquisiti dall’agente come clienti per affari dello stesso tipo (§ 87 comma HGB). Pertanto, per potersi rivendicare il diritto alla provvigione è sufficiente qualsiasi cooperazione dell’agente che abbia reso possibile che abbia portato alla concreta conclusione dell’affare.

Le parti possono comunque convenire una clausola derogatoria. Importante sottolineare che il secondo comma dell'art. 87 HGB prevedere che  "il diritto alla provvisione viene meno quando è certo che il terzo non adempie, le somme già ricevuto dovranno essere restituite" ( 87a comma 2 HGB) (cosidetto star del credere).

Importante specificare che se il preponente non esegue l’affare completamente o parzialmente in modo corretto oppure nella maniera in cui era stato stipulato, l’agente ha comunque diritto alla provvigione ( 87-a comma 3 HGB). Ad ogni modo decade il diritto della provvigione qualora il mancato adempimento sia d’attribuire a condizioni che non sono riconducibili alla sfera di responsabilità del preponente.

La Corte di Cassazione tedesca (BGH – Bundesgerichtshoff) si è pronunciata recentemente sul §87a comma 2 HGB specificando che questo non si applica qualora il terzo non abbia adempiuto a causa di una mancata esecuzione dell’affare da parte del preponente ovvero per cause che sono da imputare al preponente. La Corte, inoltre, specifica che il preponente è responsabile di tutte le situazioni che hanno portato alla mancata esecuzione dell’affare, non solamente quando queste sono attribuibili ad una sua colpa personale, bensì anche quando queste sono da ricondurre ad un rischio di tipo imprenditoriale ovvero aziendale.

Seppur sia nell’interesse del preponente ricevere da parte dell’agente il più elevato numero di offerte, rimane fermo il diritto del preponente di decidere se accettare l’affare propostogli. Questo potere decisionale in capo al preponente, risulta indirettamente dal 86a comma 2 HGB, che obbliga quest’ultimo a comunicare all’agente l’intenzione di accettare in numero notevolmente minore gli affari procacciati dall’agente. Questo potere decisionale non è comunque illimitato: il preponente non può rifiutare del tutto arbitrariamente la conclusione di un contratto procacciato. Bisogna inoltre sottolineare che la giurisprudenza ritiene estraneo ai poteri del giudice, interferire nella politica dei l’impresa, valutando le decisioni prese da quest’ultima. Per questo il giudice deve accettare ogni decisione che possa apparire per lo meno plausibile.


3. L'agente di zona.

A fianco la figura dell’agente si colloca quella dell’agente di zona (Bezirkshandelsvertreter). Tale figura è caratterizzata dal fatto di doversi occupare in maniera esclusiva di una zona, affidatagli dal preponente oppure, in altri casi,  di una determinata clientela.

Il § 87 comma 2 HGB prevede, per l’agente di zona, il diritto alla provvigione anche per gli affari che sono stati conclusi, all'interno della zona attribuitagli, seppur senza la sua collaborazione. Proprio per questo motivo, è  evidente che la nomina di un agente di zona possa debba essere piuttosto occulata. Si parte dal presupposto che l’agente possa considerarsi di zona, qualora sia stato qualificato in maniera sufficientemente chiara come tale. In caso di controversia l’onere della prova ricade su colui il quale sostiene che l’agente rivesta tale qualifica. Eventuali incertezze contrattuali devono essere chiarite dalla parte che ha stipulato il contratto.

Quanto agli obblighi dell'agente, questi nello svolgere la propria attività,  deve curare la propria zona continuamente e con particolare attenzione e solamente agendo secondo questi criteri avrà diritto alla provvigione.

Una piuttosto recente sentenza del BGH ha sancito che un’attività al di fuori della zona non può essere considerata impedita a priori. Infatti, qualora il preponente accettasse l’affare, questo può essere considerato come tacito allargamento della zona ovvero della clientela.

Di regola l’agente di zona, che con il consenso del preponente svolge attività al di fuori di questa o con clientela diversa da quella accordata, matura egualmente il diritto alla provvigione di cui al § 87 comma 1 HGB. Resta comunque la facoltà delle parti di accordarsi diversamente.


4. Vendite dirette senza l'intervento del produttore.

La vendita diretta a un cliente da parte del produttore, nonostante questi abbia concesso un diritto di esclusiva al rivenditore, è da considerarsi inadempimento contrattuale. Ma anche nel caso in cui non sia stata concessa l'esclusiva, il produttore non può effettuare, secondo mero arbitrio, vendite dirette ai clienti nella zona di competenza del rivenditore.

Secondo la Corte Federale di Giustizia tedesca, il produttore deve infatti tenere in debito conto e non può contrastare, senza fondati motivi, gli interessi legittimi del rivenditore il quale assoggetta la propria attività e la gestione operativa alle esigenze del produttore.

In una sentenza della Corte di Appello di Düsseldorf del 21.06.2013 (R.G. n. 16 U 172/12) i giudici hanno invece negato la sussistenza di una violazione dell'obbligo di fedeltà perché il produttore non aveva in modo arbitrario ignorato gli interessi legittimi del rivenditore. Nella fattispecie i clienti avevano infatti ribadito di desiderare la vendita diretta da parte del produttore, altrimenti non avrebbero acquistato i prodotti.

Considerando che il rivenditore disponeva solo di un diritto di esclusiva di fatto, che non era stato contrattualmente pattuito, questa decisione dei clienti costituiva, secondi i giudici, un motivo sufficiente per l’ammissibilità della vendita diretta a questi clienti, tanto più che il produttore aveva in precedenza offerto al rivenditore il versamento di una provvigione a titolo di compensazione.


5. Dichiarazione di fallimento e diritto alla provvigione.

In base al § 115 comma I in correlazione con il 116 comma I InsO (lnsolvenzordnung - “legge fallimentare”) l’apertura del procedimento fallimentare porta alla risoluzione del contratto d’agenzia, senza necessità di preavviso. Una continuazione delle attività contrattuali è possibile solamente a seguito di un accordo, anche tacito, tra l’agente e il curatore fallimentare.

Quanto ai diritti alla provvigione maturati a seguito della conclusione dcl nuovo contratto, questi devono essere considerati sempre come crediti prededucibili (debiti della massa) § 55 comma I, punto InsO. Nel caso in cui le attività svolte dall’agente prima dell‘apertura del procedimento fallimentare non abbiano ancora portato alla conclusione di un contratto con il terzo, il diritto alla provvigione dipende dalla scelta del curatore di concludere o meno l’affare con il terzo.

In caso positivo, il diritto alla provvigione si considera alla luce dcl 55 comma I punto InsO come credito privilegiato.

In caso contrario il diritto alla provvigione sussiste comunque indipendentemente dal fatto che il curatore abbia optato per la conclusione del contratto con il terzo o l’abbia rifiutata. In tal caso la provvigione viene considerata come credito chirografaria ex § 38 InsO.

Diverso discorso, invece, per quanto riguarda al diritto dell'agente all’indennità di non concorrenza di cui al § 90a comma 1 HGB; in questo caso, il diritto viene meno in caso di risoluzione del contratto a seguito di apertura del fallimento. Contemporaneamente, tale evento fa cessare anche il divieto di concorrenza dell’agente che le parti avevano pattuito.

Infine, se all’apertura del fallimento il contratto era già risolto il curatore fallimentare può richiedere ex § 103 InsO il mantenimento del divieto di concorrenza ed il diritto al risarcimento costituisce credito sulla massa fallimentare.


Cassazione: abuso del diritto anche in materia tributaria.

[:it]Per la Cassazione l’abuso di diritto è configurabile anche in materia tributaria.

Le recenti sentenze 3242/2013 e 4901/2013 hanno riconfermato che l’istituto dell’abuso del diritto sia applicabile anche in materia tributaria.

Per comprendere appieno il dettato, è preliminarmente necessario comprendere il concetto di abuso del diritto, stando attenti di applicare una netta distinzione tra evasione fiscale ed abuso ed elusione.

Contrariamente da altri paesi europei, quali, ad esempio, Germania, Grecia, Svizzera, Portogallo, l’Italia non ha recepito come norma di legge il principio in dell’abuso del diritto. Tuttavia, a livello civilistico, dottrina e giurisprudenza hanno sviluppato tale ampiamente detto istituto. Un’ottima definizione è stata data dalla Corte di Cassazione, che ha previsto che “si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando un sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti” (Cass. Civ. 2009/20106).

In ambito tributario, la figura dell’abuso è stata introdotto, invero, con la sentenza del 13 maggio 2009, n. 10981 la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, con cui ha affermato che “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.

In sostanza, il concetto di abuso del diritto tributario è stato, di fatto, un allargamento del concetto di elusione,circoscritto (erroneamente) a fattispecie casistiche (art. 37-bis del Dpr 600/1973).

Le recenti sentenze oggetto di esame, hanno risancito l’applicabilità dell’istituto dell’abuso anche in ambito tributario. Nello specifico, hanno stabilito che qualora un contribuente, esercitando un diritto espressamente riconosciutogli, non persegua, in realtà, un fine meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, realizzando anzi un obiettivo contrario, non può essergli riconosciuta alcuna tutela giurisdizionale. Infatti, il soggetto abusa della libertà di adottare un certo trattamento per i propri vantaggi, sfruttando la varietà di forme giuridiche che l’ordinamento gli mette a disposizione.

Quindi, al contrario dell’evasione, che si realizza quando vi è un occultamento di ricchezza imponibile ovvero l’alterazione di un fatto economico (come la simulazione, l’interposizione fittizia), l’abuso e l’elusione, al contrario, si verificano quando il vantaggio fiscale del contribuente è indebito, poiché ottenuto attraverso il superamento (o abuso) del vantaggio riconosciutogli espressamente da una norma, andando a perseguire un vantaggio disapprovato dal sistema.

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Cassazione: banca non onerata ad avvertire l’elevazione di un protesto.

[:it]Secondo una piuttosto recente sentenza della Corte di Cassazione, 12.2.2013 n. 3286, la banca non è onerata ad avvertire il cliente prima della elevazione del protesto di un assegno emesso per mancanza di fondi.Nel caso in analisi, la Suprema Corte ha respinto la pronuncia del grado di appello, promosso da un istituto bancario, erroneamente condannato al risarcimento dei danni subiti dal correntista.

Nella fattispecie, gli Ermellini, hanno ritenuto che non si può rilevare un interesse legittimo, da parte del correntista, nel legittimo affidamento ad essere informato dell’invio di un assegno per l’elevazione del protesto. Nello specifico, hanno evidenziato che una tale aspettativa, non viene tutelata dal nostro ordinamento, avendo ad oggetto un interesse di mero fatto, per nulla assimilabile ad un interesse legittimo. La Corte, sul punto, contestava il rimando, da parte della Corte di Appello, alla decisione delle Sezioni Unite n. 500, del 22.7.1999.

Si ricorda, brevemente, che quest’ultima sentenza ha affermato che un danno può essere risarcito ex art. 2043 c.c., solamente qualora abbia ad oggetto “un interesse rilevante per l’ordinamento; sia esso un interesse indifferenziatamente tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo) ovvero nelle forme dell’interesse legittimo o altro interesse giuridicamente rilevante e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto.” Nel concludere, la sentenza evidenzia che l’evento dannoso derivante da un protesto, non può essere riferibile alla condotta dell’istituto di credito, ma unicamente al correntista. Questi, invero, è sempre a conoscenza dello stato del proprio conto corrente, proprio per tale ragione, un eventuale protesto per mancanza di fondi sarà unicamente a questi addebitabile, non avendo, pertanto, diritto alcuno ad un avviso preventivo da parte dell’istituto.

 

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Flash of genius

La tutela del software. Brevettabilita' o copyright?

[:it]Come è tutelato il software? È brevettabile? Cosa si intende per tutela tramite copy-right?

A queste domande ha dato risposta la Corte di Giustizia, in una sentenza storica del 2.5.2012 (causa C-406/10), con la quale ha interpretato la direttiva 91/250/CEE.

Nello specifico la Corte ha esposto che:

  • il linguaggio di programmazione e il formato di file di dati utilizzati nell’ambito di tale programma non sono tutelati dal diritto d’autore sui programmi;
  • colui che ha in licenza una copia di un software può, senza l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore, osservare, studiare o sperimentare il funzionamento di detto programma.

Alla base di questa decisione, sussiste una politica adottata dall’Italia e l’Europa già da diversi anni, che hanno scelto la strada della tutela dei software mediante il diritto d’autore, dovendosi considerare brevettabili solamente i software che producono un effetto tecnico.

Tanto da intendere brevemente la differenza tra i due approcci, basti pensare che:

  • il diritto d'autore è riconosciuto automaticamente all'autore ex art. 2575 c.c.;
  • l'attribuzione di un brevetto (art. 2585 c.c.) deve essere invece richiesta esplicitamente ad un ufficio brevetti, effettuando preventivamente una ricerca per verificate l'originalità della propria creazione.

Il legislatore europeo e quello italiano hanno optato per la scelta della tutela a mezzo copyright dei software, al fine di contemperare i contrapposti interessi in gioco: da un lato il progresso tecnologico e, dall’altro, i produttori di software.

In questo modo, infatti, è stato concesso all’autore la possibilità di sfruttamento economico della creazione intellettuale e, al tempo stesso, è permesso a tutti di fruire del progresso raggiunto (posta la non brevettabilità del prodotto) evitando che si creino stabili posizioni di monopolio culturale e tecnologico.

 

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La notte prima degli esami

Concordato preventivo: i nuovi requisiti per l’ammissione alla procedura.

[:it]Il debitore può adesso limitarsi a depositare il ricorso contenente la mera domanda concorsuale, riservandosi il diritto di presentare la proposta, il piano di concordato e la documentazione necessaria successivamente al deposito.

Come è noto, il governo in data 7 agosto 2012 ha convertito in legge il cosiddetto “Decreto sviluppo”.
Diverse le novità introdotte, ma ad ogni modo con questo breve articolo, si andrà ad analizzare una singola modifica legislativa in ambito fallimentare che risulta essere di particolare interesse. Invero la riforma ha modificato i requisiti richiesti per l’ammissione alla procedura del concordato preventivo. Nello specifico, ora il debitore può limitarsi a depositare il ricorso contenente la mera domanda concorsuale, riservandosi il diritto di presentare la proposta, il piano di concordato e la documentazione necessaria successivamente al deposito del ricorso. Il termine per tale deposito è viene fissato dal giudice ed è compreso tra 60 e 120 gg. Si ricorda inoltre che detto termine ed è prorogabile, ma di non oltre 60 gg.

Circa gli effetti della presentazione del ricorso, si ricorda che a seguito della pubblicazione dello stesso nel registro delle imprese e fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo, i creditori non possono iniziare o proseguire esecuzioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, sotto pena di nullità. Inoltre, qualora nei 90 giorni che precedono la pubblicazione del ricorso siano state iscritte ipoteche giudiziali, esse sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato. In pratica è sufficiente depositare presso il Tribunale competente una richiesta di ammissione alla procedura concordataria, al fine di produrre gli effetti ex art. 168 L.F., ossia il blocco azioni esecutive. Il piano industriale, invece, potrà essere presentato nei mesi successivi.

Tale riforma è stata posta in essere al fine di tutelare le imprese in crisi, data la situazione di difficoltà economica riscontrata da molte società. A seguito di questo nuovo dettato normativo sarà, quindi, superato l’utilizzo della tecnica impiegata dalle società concordatarie al fine di schermare il patrimonio del debitore, ossia quella di costituire sul patrimonio un vicolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c., a favore dei creditori del concordato, nel periodo necessario a predisporre il piano e a depositare il ricorso.

Si rileva, infine, che detta tecnica era stata ultimamente resa più incerta, soprattutto a seguito di un provvedimento del 13.3.2012 del Tribunale di Verona, con cui lo stesso ha dichiarato che “non può ritenersi fattibile il piano di concordato preventivo qualora il debitore, prima di depositare la domanda, abbia costituito sui propri beni immobili un vincolo di destinazione ai sensi dell’articolo 2645 ter c.c. allo scopo, dichiarato, di evitare che l’aggressione disordinata del patrimonio dell’impresa in crisi possa comportare una dispersione di valore in danno dei creditori ed impedire un’equa distribuzione degli effetti dell’insolvenza”.

 

 

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Strartup.com

Le start-up innovative. Iscrizione entro il 17 febbraio 2013.

[:it]Ormai è ufficiale che dal dal 19.10.2012 con la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del decreto sviluppo bis, la sussistenza di incentivi alle start-up innovative, così come inseriti nel  altrimenti noto come decreto crescita.

Si elencano brevemente i requisiti necessari per l’iscrizione, come elencati nel sito del registro imprese:

  • società di capitali di diritto italiano le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate e in cui la maggioranza delle quote o azioni sono detenute da persone fisiche;
  • non siano operative da più di 48 mesi;
  • svolgano attività di impresa in italia;
  • la produzione annua non oltrepassi i 5 milioni di euro;
  • non vengano distribuiti gli utili;
  • abbia ad oggetto l’innovazione tecnologica di prodotti e servizi innovativi ad alto valore tecnologico;
  • non sia stata costituita da una fusione/scissione societaria o a seguito di cessione di un ramo d’azienda;
  • investa nello sviluppo almeno il 20% del maggior valore fra costo e valore totale della produzione, oppure impieghi come dipendenti o collaboratori dottori o dottorandi di ricerca, oppure si titolare o depositaria di brevetti per industria e biotecnologie;

Circa le agevolazioni la legge 17 dicembre 2012 n.221 ha stabilito per, con l’intento di facilitarne l’iscrizione, una serie di esenzioni mirati a costituire e a iscrivere l’impresa nel registro delle imprese, agevolazioni fiscali, nonché deroghe al diritto societario e una disciplina specifica nei rapporti di lavoro nell’impresa.

Si ricordano:

  • che la start-up è sollevata dal pagamento dell’imposta di bollo e dei diritti di segreteria dovuti per l’iscrizione nel registro delle imprese nonché dal pagamento del diritto annuale dovuto alle camere di commercio;
  • ha la facoltà di assumere personale con contratti a tempo determinato della durata minima di 6 mesi e massima di 36, in questo lasso di tempo, i contratti potranno essere anche di breve durata e rinnovati varie volte. Allo scoccare dei 36 mesi, il contratto non potrà subire ulteriori rinnovi, se non l’ultimo di 12 mesi per portare così l’ammontare del contratto a 48 mesi. Trascorso questo periodo, il collaboratore potrà continuare a lavorare in start up solo con un contratto a tempo indeterminato;
  • collaboratori della start up possono essere retribuiti a mezzo di stock option, e i fornitori di servizi esterni attraverso il work for equity
  • può beneficiare di un accesso prioritario alle agevolazioni per le assunzioni di personale altamente qualificato;
  • sono stati poi attivati incentivi fiscali per investimenti in start up derivanti da aziende e privati per gli anni 2013, 2014 e 2015;
  • da parte dell’Agenzia Ice ha disposto l’assistenza in ambito normativo, societario, fiscale, immobiliare, contrattualistico e creditizio, l’ospitalità a titolo gratuito alle principali fiere e manifestazioni internazionali, e l’attività destinata ad agevolare l’incontro delle start up innovative con investitori potenziali per le frasi di early stage capital e di capitale di espansione.

 

 

 
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Per un pungo di dollari

Per un pungo di dollari. La nuova societa' ad 1 euro.

[:it]Parlando pochi giorni fa con dei giovani imprenditori, operanti nel settore delle start-up, ci si domandava quali fossero gli effettivi vantaggi che potrebbe apportare l’introduzione all’interno del nostro sistema giuridico la nuova società ad 1 Euro (SRLS – Società a Responsabilità Limitata Semplificata), introdotta in data 29.8.2012 dal Dm 138/2012.

Per avere un’idea più chiara delle caratteristiche apportate dal nuovo art. 2463-bis del Codice civile, si ricorda che:

  • la società può essere costituita da persone fisiche che non abbiano compiuto i trentacinque anni di età alla data della costituzione;
  • l'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico in conformità al modello standard tipizzato;
  • il capitale sociale deve essere compreso tra 1 e 10.000 €, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione;
  • il conferimento deve farsi in denaro ed essere versato all'organo amministrativo;
  • gli amministratori devono essere scelti tra i soci;
  • l'atto costitutivo e l'iscrizione nel registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili (si deve pertanto pagare l’imposta di registro di € 168 e la tassa annuale alla Camera di Commercio).

Leggendo il testo normativo e verificando anche i commenti dei vari blogs, riviste giuridiche e quotidiani, si può riscontrare che tale forma apporta effettivamente degli sgravi di spesa (non sono infatti dovuti oneri notarili), ma che di fatto non va a risolvere quelle che sono le vere problematiche degli imprenditori under 35, ovvero:

  • regimi di tassazione agevolati;
  • strumenti per facilitare un accesso a finanziamenti bancari o sussidi statali;

È necessario ricordare che il problema del capitale sociale è infatti relativo, basti pensare che i 10mila euro di capitale richiesti per la costituzione una Srl normale, non rimangono in banca congelati, ma possono essere utilizzati dai soci. Infatti, una volta costituita, la somma viene di fatto riversata sul conto della società e può essere utilizzata per comprare macchinari, computer, pagare stipendi e fornitori, registrare marchi e così via. Inoltre, se ci sono almeno due soci è sufficiente versare 2.500 euro, somma che può essere a sua volta utilizzata per gli adempimenti appena citati.

A questo si aggiunge che i costi per potere iniziare a mettere in moto una società dovranno essere sempre sostenuti dai giovani imprenditori, che, per quanto snella e leggera possa essere l’azienda, avranno comunque la necessità di investire qualche migliaia di euro per poterla azionarla (computer, macchinari, fornitori, etc.).

Da ultimo, si rileva che l’atto costitutivo, dovendo essere redatto in conformità al modello standard tipizzato, non è, secondo una prima lettura della norma, soggetto ad alcuna variazione. Tale caratteristica, che sicuramente permette di evitare le spese notarili, è di fatto limite per nulla trascurabile. Basti pensare, infatti, che tale standardizzazione comporterebbe l’impossibilità di attivare da parte dei soci amministratori della società ad 1 €, tutte le opzioni che la legge consente nello statuto di una Srl. Tra queste si possono ricordare:

la facoltà di attribuire ai soci particolari diritti;

  • la possibilità di pattuire clausole inerenti il trasferimento delle quote di partecipazione al capitale (quali l'intrasferibilità, la prelazione, il gradimento, la clausola che dispone della quota in caso di morte del socio, la clausola di covendita eccetera);
  • la possibilità di convenire cause di recesso ulteriori rispetto a quelle previste per legge;
  • la possibilità di pattuire cause di esclusione dalla società;
  • la previsione, in caso di più di amministratori, di forme di amministrazione diverse dal Cda;
  • la possibilità di prevedere un termine per l'approvazione del bilancio maggiore di quello di legge;
  • la possibilità di prevedere forme di decisioni dei soci diverse dalla riunione assembleare;
  • la possibilità di attribuire ai soci la competenza a decidere su materie diverse da quelle attribuite ai soci dalla legge;
  • la possibilità di prevedere quorum assembleari diversi da quelli prescritti dalla legge.

Sicuramente interessante vedere come sarà utilizzato questo strumento dai nuovi imprenditori e verificare se tale mezzo sia un effettivo incentivo allo slancio della nuova imprenditoria.

 

 

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nannimoretti

Il conflitto di interessi del socio nelle deliberazioni assembleari.

[:it]Il conflitto di interessi si potrebbe definire come il limite che il socio incontra nel suo diritto di espressione di voto.

Importante ricordare che perché questo venga effettivamente configurato sono necessarie due presupposti:

  1. che il socio persegua un proprio fine
  2. che suddetto fine si contrapponga concretamente con l’interesse generale della società[1]

Ci si richiede pertanto cosa accada qualora un socio in conflitto di interessi voti una deliberazione dell'assemblea di una società per azioni con la quale si decida la proposizione dell'azione sociale di responsabilità nei confronti dell'amministratore.

Mentre l’art 2373 c.c. ante riforma sanciva espressamente un divieto di esercizio del voto per il socio appunto in conflitto d’interessi, la disposizione attuale, invece, pone al socio la scelta tra votare rinunciando al proprio interesse personale potenzialmente in conflitto ovvero astenersi dal voto.

Qualora questi optasse per l’astensione l’art. 2368 comma 3, prevede che le azioni sono computate ai fini del raggiungimento del quorum costitutivo, ma non ai fini del calcolo di quello deliberativo.  Importante osservare che l’impugnabilità della delibera sia giustamente subordinata al fatto che il voto del socio in conflitto di interessi sia stato determinante per il raggiungimento del quorum.

Pertanto il diritto di voto del socio è rimesso ex art. 2373 comma 1 al suo apprezzamento delle conseguente che potranno derivarne. La delibera assembleare conserva, pertanto, intatta la sua validità, a meno che questa non sia stata presa con voto determinante del socio in conflitto. Quest’ultimo sarà quindi libero di scegliere se astenersi oppure no dall'esercizio di voto.[2]

Altro problema è se i soci-amministratori possano votare sulle deliberazioni concernenti le loro rispettive responsabilità. In realtà seppur l’art. 2373 comma 2 sancisce espressamente un divieto per tale ipotesi, ci si domanda se l’assemblea viene chiamata a deliberare per un’azione di responsabilità dell’amministratore Caio, Tizio (anch’egli socio-amministratore), possa esercitare il proprio diritto di voto.

Sul punto si è espresso recentemente un importante lodo arbitrale che ha affermato che: “in conformità al principio della responsabilità per fatto proprio, il voto del socio-amministratore sulla responsabilità degli altri amministratori è ammissibile e dovrà pertanto essere computato ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo, trovando invece applicazione il divieto previsto dall'art. 2373, comma 2, c.c. unicamente nel caso in cui la deliberazione abbia a oggetto la responsabiltà dello stesso socio-amministratore votante e non quando la deliberazione abbia a oggetto la responsabilità di altro amministratore”[3].

RIASSUMENDO

  • perché il conflitto di interessi sussista è necessarie che il socio persegua un proprio fine e che suddetto fine si contrapponga concretamente con l’interesse generale della società
  • la disposizione attuale dell’art. 2373 pone al socio la scelta tra votare rinunciando al proprio interesse personale potenzialmente in conflitto ovvero astenersi dal voto
  • in caso di astensione l’art. 2368 comma 3, prevede che le azioni sono computate ai fini del raggiungimento del quorum costitutivo, ma non ai fini del calcolo di quello deliberativo
  • l’impugnabilità della delibera è subordinata al fatto che il voto del socio in conflitto di interessi sia stato determinante per il raggiungimento del quorum
  • seppur l’art. 2373 comma 2 sancisce un divieto per i soci-amministratori di votare sulle deliberazioni concernenti le loro rispettive responsabilità, in conformità al principio della responsabilità per fatto proprio, il voto del socio-amministratore sulla responsabilità degli altri amministratori è ammissibile

[1] Si rende necessario ricordare che l’interesse debba essere obbiettivamente confliggente con quello sociale. In caso di mancata dimostrazione la deliberazione non è annullabile e questo anche se risulti che il voto fu dato ad es. per un ripicco personale in odio agli amministratori o per assumere una posizione di vantaggio nei confronti degli altri soci (Codice commentato delle S.p.a., Fauceglia – Schiano di Pepe, 2007, UTET)

[2] Diritto Societario, Gastone Cottino, pg. 346 ss., 2006 CEDAM

[3] Collegio arbitrale, 2 luglio 2009, Giur. comm. 2010, 5, 911, nota De Pra

 

 

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Wall Street

Compravendita di partecipazione sociale e garanzie del venditore (di Valerio Sangiovanni).

[:it]Per gentile concessione dell’autore Valerio Sangiovanni e della casa editrice Ipsoa Wolters Kluwer si riproduce l’articolo apparso in Notariato, 2012, pp. 203-213]

di VALERIO SANGIOVANNI

 Le garanzie che il venditore offre all’acquirente delle partecipazioni sociali rappresentano, normalmente, uno degli elementi centrali dei contratti di compravendita di azioni o quote. La materia è di grande rilevanza pratica, risultando oggetto - frequentemente - di snervanti trattative fra le parti. A fronte di una simile importanza della tematica, colpisce la circostanza che la questione delle garanzie nei contratti di cessione/acquisizione risulti relativamente poco trattata sia in giurisprudenza sia in dottrina, anche se probabilmente la presenza di poche decisioni giurisprudenziali è ascrivibile al fatto che le liti sul punto vengono generalmente risolte per via arbitrale. In questo articolo ci occuperemo di tale materia, soffermandoci infine sulle tipologie di clausole che consentono di limitare la responsabilità del venditore.

1. Il contratto di compravendita di partecipazioni sociali

Il contratto di compravendita di partecipazioni sociali[1] è il contratto con il quale un primo soggetto vende (profilo della “cessione”) e un secondo soggetto acquista (profilo della “acquisizione”) una partecipazione sociale[2]. In tale contratto è del tutto usuale che il venditore offra delle garanzie espresse a favore dell’acquirente (concernenti non solo la partecipazione compravenduta in sé e per sé considerata, ma anche – e soprattutto - le caratteristiche sostanziali della società sottostante), ed è su questo profilo – di grande rilevanza pratica - che ci si vuole soffermare in questo articolo[3].

Assumendo che il contratto di trasferimento delle partecipazioni sia assoggettato al diritto italiano (una scelta diversa potrà essere operata, ad esempio, quando una delle parti è straniera)[4], esso va qualificato come contratto di compravendita, essendone soddisfatta la nostra definizione legislativa di contratto con cui si trasferisce la proprietà di una cosa o un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 c.c.): il bene oggetto di trasferimento sono le azioni o quote della società (e solo indirettamente, e pro quota, le attività e passività della società), mentre il prezzo è il corrispettivo che viene pagato dall’acquirente. Il contratto di cessione/acquisizione è un comune contratto di compravendita caratterizzato dal fatto che il bene compravenduto è una partecipazione sociale.

La qualificazione del contratto di acquisizione come compravendita spiega, a livello terminologico, la circostanza che talvolta a esso ci si riferisca – nella prassi - denominandolo appunto contratto di compravendita. Più frequente, peraltro, è l’uso di termini quali “cessione” oppure “acquisizione”. Tuttavia l’“acquisizione” altro non è che il medesimo trasferimento delle quote o delle azioni visto dalla prospettiva della parte opposta a quella che “cede”. In definitiva “cessione” e “acquisizione” sono da considerarsi sinonimi, e il meccanismo di trasferimento viene bene espresso dall’unico termine di “compravendita”, che comprende tutti e due i profili.

Con riferimento all’oggetto della compravendita non appare invece corretta l’espressione, seppure essa sia ricorrente nella prassi, di “acquisto di una società”: difatti il contratto non concerne la società, ma solo la partecipazione che un socio detiene nella società. Anche se l’acquisto di azioni o quote implica, nella relativa misura percentuale, l’acquisto delle attività e passività pertinenti alla società, ciò avviene solo indirettamente. Corretta appare pertanto la distinzione, utilizzata dalla giurisprudenza e su cui torneremo nel prosieguo, fra oggetto “immediato” dell’acquisto (la partecipazione sociale) e oggetto “mediato” dell’acquisto (le attività e le passività rientranti nella società).

A dire il vero, l’utilizzo nella prassi di espressioni quali “contratto di cessione” oppure “contratto di acquisizione” determina malintesi non solo di carattere linguistico, ma anche di natura sostanziale. Si afferma difatti talvolta in dottrina che il contratto di “cessione” o “acquisizione” non sarebbe uno dei contratti nominati disciplinati espressamente nel nostro ordinamento. Il dibattito sulla natura del contratto di cessione o acquisizione di partecipazioni sociali appare in realtà sostanzialmente inutile: difatti tale contratto non può considerarsi atipico, dovendo invece essere qualificato semplicemente come “vendita”. Il contratto potrebbe essere pacificamente denominato dalle parti “contratto di vendita”; ciò che è particolare - nel contratto di cessione/acquisizione - è solo il suo oggetto, consistente in una partecipazione sociale.

Se il contratto di trasferimento delle partecipazioni sociali va qualificato come contratto di vendita, bisogna allora porre attenzione alle disposizioni che disciplinano le garanzie in tale tipo contrattuale, con particolare riferimento all’art. 1490, comma 1, c.c., secondo cui il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. Qual è, nel contesto specifico delle acquisizioni di partecipazioni, la “cosa” venduta? Come si è cercato di evidenziare, l’oggetto del contratto è rappresentato - direttamente - dalla partecipazione sociale (e solo indirettamente dalle attività e passività ricomprese nella partecipazione). Il reale problema delle garanzie concerne peraltro non la partecipazione in sé considerata, ma le attività e passività che l’acquisto della partecipazione porta, pro quota, con sé. Avuto riguardo all’oggetto “mediato” della compravendita (attività e passività), è affermazione ricorrente quella secondo cui le disposizioni sulle garanzie nel contratto di vendita sono eccessivamente favorevoli all’acquirente e, per tale ragione, non particolarmente adatte all’ambito delle acquisizioni societarie. Nel contesto di queste operazioni è usuale cercare un maggiore equilibrio fra la posizione del venditore e quella del compratore. Con il contratto di compravendita di partecipazioni sociali il venditore fa il possibile al fine di limitare le garanzie che offre all’acquirente con riferimento alle attività e passività della società. Tale limitazione di garanzia, peraltro, è assoggettata a una precisa condizione di efficacia, dal momento che il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa (art. 1490, comma 2, c.c.).

2. L’attività di due diligence e il flusso preliminare d’informazioni

Abbiamo visto che chi compra una partecipazione sociale compra, direttamente, solo delle azioni o delle quote. Acquisendo però la qualità di socio, entra a far parte di una società che presenta attività e passività. Il problema principale per l’acquirente è che, essendo generalmente – prima dell’acquisto - un soggetto estraneo alla società, non ne conosce le caratteristiche. Laddove comprasse la partecipazione senza accurate verifiche preliminari, si potrebbe trovare esposto a sorprese negative rispetto alle sue aspettative (laddove certe attività fossero sopravvalutate o addirittura inesistenti oppure certe passività fossero sottovalutate o addirittura nascoste). La quantità d’informazioni di cui un soggetto esterno alla società dispone è normalmente insufficiente al fine di garantire un’appropriata valutazione dei rischi conseguenti all’acquisto.

Al fine di ridurre i rischi connessi con l’acquisto di partecipazioni sociali, la sottoscrizione del contratto di compravendita della partecipazione sociale è generalmente preceduta da una c.d. “due diligence[5]. L’espressione “due diligence”, di origine anglosassone, può essere tradotta – letteralmente – con “diligenza dovuta”: si tratta della diligenza che un avveduto acquirente utilizza nell’effettuare tutte le necessarie verifiche prima di acquistare una partecipazione. Nella prassi al compratore viene normalmente data l’opportunità di effettuare una serie di controlli sulla società bersaglio: l’attività di due diligence può essere svolta direttamente dall’acquirente oppure, più frequentemente, incaricando degli esperti esterni.

Un punto che viene raramente sottolineato è che l’attività di due diligence implica anche la collaborazione della società le cui partecipazioni si vogliono acquisire, la quale deve mettere a disposizione il materiale richiesto sulla base di un apposito elenco. Questa attività di preparazione del materiale è di competenza degli amministratori della società bersaglio.

Può capitare che, a fronte di un socio che intende vendere la propria partecipazione, non vi sia collaborazione da parte della società nel mettere a disposizione del potenziale acquirente le informazioni richieste. Questo problema non si pone quando il socio è anche amministratore della società, potendo – in tale qualità – avere accesso diretto alle informazioni e, in linea di principio, trasmetterle ai terzi. In alcuni casi, però, il socio non riveste alcuna carica amministrativa.

Il problema del possibile conflitto fra socio e società deve allora essere affrontato dal socio esercitando il suo diritto d’informazione nei confronti della società. Mediante l’esercizio di tale diritto, il socio raccoglie il materiale da mettere poi a disposizione del potenziale acquirente. Sul punto va peraltro operata una distinzione fra la s.r.l. e la s.p.a.: come è noto, mentre nel primo tipo societario è riconosciuto un ampio diritto del quotista all’informazione (art. 2476, comma 2, c.c.)[6], nella s.p.a. manca una disposizione che preveda un così esteso diritto d’informazione dell’azionista. L’art. 2422 c.c. consente agli azionisti di fare poco: solo di esaminare il libro dei soci e quello delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee. Il legislatore tiene in considerazione la differente natura dei due tipi societari e, conseguentemente, struttura diversamente il diritto di informazione-controllo. In una società che si assume di norma con pochi soci, come la s.r.l., il diritto di controllo è riconosciuto con ampiezza; viceversa in un tipo societario come la s.p.a., che – in ipotesi – può presentare una compagine sociale ampia, viene maggiormente tutelata la riservatezza. Ne consegue che, mentre nella s.r.l., il quotista può agevolmente raccogliere le informazioni da dare al potenziale acquirente, nella s.p.a. non è affatto pacifico che l’azionista possa conseguire tale risultato.

Nella s.p.a. il problema della mancanza di un ampio diritto di controllo-informazione dell’azionista può essere risolto ricostruendo un dovere d’informazione in capo agli amministratori derivante dal generale obbligo di comportarsi secondo buona fede nell’espletamento del mandato nell’interesse della società[7]. Ne consegue che, laddove la richiesta del socio non sia contraria all’interesse sociale, i gestori vi devono dare seguito. Al fine di evitare danni in capo alla società, è peraltro sicuramente consigliabile far precedere la trasmissione d’informazioni dalla sottoscrizione di un accordo di riservatezza, con il quale il terzo si impegna a non divulgare e a non utilizzare ciò di cui viene a conoscenza.

Comunque anche nella s.r.l., pur in presenza di un ampio diritto di controllo del quotista stabilito direttamente dalla legge, possono sorgere conflitti fra il socio e gli amministratori in riferimento all’esercizio del diritto d’informazione quale strumento per consentire - poi - a terzi l’accesso a dati e notizie. Permettere a terzi l’accesso alla documentazione della società può essere rischioso nei casi in cui il terzo sia portatore d’interessi in conflitto con quelli della società, ad esempio nell’ipotesi in cui sia in corso un contenzioso oppure si tratti di un’impresa che svolge attività concorrenziale. Può pertanto capitare che gli amministratori si oppongano alla richiesta d’informazioni avanzata dal socio.

Tornando a occuparci del caso standard (quello in cui non vi è alcun ostacolo interno nel mettere a disposizione del potenziale acquirente le informazioni sulla società), si può rilevare che - tradizionalmente - la documentazione oggetto di due diligence veniva predisposta in formato cartaceo e veniva resa accessibile per un certo lasso di tempo in un ambiente a tal proposito predisposto (di qui l’espressione “data room”: stanza dei dati). In tempi recenti è più frequente la messa a disposizione delle informazioni in modalità virtuale, cui il compratore può accedere – sempre per un limitato lasso di tempo – per via elettronica.

La due diligence può avere un oggetto più o meno ampio a seconda dei casi: i tipi di verifica più comuni sono quelli finanziario, fiscale e legale. All’esito dell’attività di due diligence, viene generalmente preparata una relazione scritta – indirizzata al potenziale acquirente della partecipazione – nella quale vengono descritti i principali rischi che l’acquisto delle quote/azioni comporta.

Lo scopo della due diligence è duplice. Da un lato, essa ha finalità meramente informativa per l’acquirente: conoscere meglio le caratteristiche della società bersaglio. Da un altro lato la due diligence ha un obiettivo specifico, consistente nell’identificare i rischi che la target presenta. Una volta identificati tali rischi, spetta alle clausole del contratto di compravendita predisporre adeguata tutela. Vi è pertanto uno stretto legame fra l’attività di due diligence e il contenuto del successivo contratto.

L’attività di due diligence viene talvolta riflessa in un’apposita clausola del contratto di acquisizione. Grazie alla verifica preliminare sulla target, l’acquirente è venuto a conoscenza delle caratteristiche della società di cui vuole acquisire una partecipazione, comprese le criticità che la riguardano: ciò gli consente di determinare (e concordare con la controparte) il “giusto” prezzo della partecipazione. Il venditore non vuole che il compratore possa, successivamente al perfezionamento dell’acquisizione, attivare garanzie che gli permettono di conseguire un risarcimento (economicamente equivalente a una riduzione del prezzo). Al fine di conseguire un risultato del genere (per così dire di “stabilizzazione” del prezzo), il venditore insiste per l’inserimento in contratto di una clausola con la quale l’acquirente dichiara di avere effettuato accurati controlli sulla società e, al meglio delle sue conoscenze, di non avere riscontrato alcuna circostanza che gli potrebbe consentire di attivare una garanzia. Siffatta previsione impedisce comportamenti scorretti del compratore, il quale potrebbe in ipotesi – individuati in anticipo i vizi – tacere sui medesimi, per poi chiedere, appena perfezionato il contratto, il risarcimento.

3. Le garanzie più comuni nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali

È difficile fare un elenco delle garanzie normalmente contenute in un contratto di compravendita di partecipazione sociale: la prassi evidenzia considerevoli differenze da caso a caso. Molto dipende dalla competenza degli avvocati che assistono le parti. Rilevante è anche il livello di necessità, più o meno stringente, per una parte piuttosto che per l’altra di concludere velocemente il contratto: chi desidera giungere presto al perfezionamento dell’operazione tende a dare meno peso alle clausole di garanzia, le quali operano solo eventualmente.

Talvolta le clausole concernenti le garanzie sono scritte in modo particolarmente analitico: si tratta della tecnica contrattuale prediletta nei Paesi anglosassoni, dove i contratti si caratterizzano per essere particolarmente dettagliati. L’elencazione analitica delle garanzie è peraltro generalmente accompagnata oppure sostituita da clausole di chiusura con le quali si attesta un certo stato di fatto in modo sintetico. Con riferimento, ad esempio, alla materia del contenzioso, si può ripetere per ogni materia (ambientale, lavoro, rapporti con clienti e fornitori, ecc., ecc.) che non sussistono controversie fra la società e terzi; appare tuttavia più efficace limitarsi a una clausola generale che attesta l’assenza di qualsiasi lite.

Passando al contenuto delle clausole, una distinzione comune è quella fra le garanzie attinenti al “titolo” della partecipazione e le garanzie relative al “contenuto” della partecipazione.

Le clausole sul “titolo” sono quelle che si riferiscono direttamente alle caratteristiche della partecipazione e della target sotto il profilo societario: ad esempio il venditore garantisce di essere proprietario delle azioni o quote e che esse sono libere da qualsiasi diritto di terzi; oppure il venditore garantisce che la società è stata validamente costituita ed è validamente esistente secondo la legge nazionale che la disciplina. Le clausole sul titolo sono assolutamente usuali nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali e il venditore difficilmente potrà rifiutarsi di concedere dette garanzie all’acquirente. Siffatte clausole non sono generalmente soggette a limitazioni quantitative all’eventuale risarcimento del danno: anche laddove esistano delle soglie alla responsabilità del venditore, esse non si applicano a questa tipologia di garanzie, troppo basilari per essere oggetto di qualsivoglia limitazione.

Decisamente più importanti nella prassi, e pertanto oggetto di maggiori trattative[8], sono le garanzie relative al “contenuto” della partecipazione (attività e passività della società). Esse possono riguardare gli argomenti più diversi e variano da caso a caso, anche in dipendenza dal settore in cui la società è attiva.

Fra le garanzie più comuni nei contratti di acquisizione delle partecipazioni sociali si possono annoverare quelle in materia di bilancio[9]. Legate alle garanzie sul bilancio si possono citare quelle in materia tributaria, consistenti essenzialmente nell’affermazione che la società ha sempre adempiuto correttamente a tutti i suoi obblighi di tipo fiscale[10]. Sotto il profilo economico possono risultare importanti le garanzie in materia di rapporti di lavoro nonché di contribuzioni previdenziali e pensionistiche. Un altro gruppo di garanzie significative sono quelle relative ai rapporti contrattuali di cui è parte la società bersaglio[11]. A seconda delle circostanze possono avere significativa rilevanza pratica le garanzie in materia di proprietà intellettuale. La garanzia ambientale è piuttosto frequente, soprattutto laddove la società svolga un’attività manifatturiera o – comunque - facilmente portatrice di inquinamento. Un’altra clausola comune riguarda la sussistenza di tutte le autorizzazioni e concessioni amministrative richieste per l’esercizio dell’attività. Il catalogo delle garanzie comprende infine, di norma, quella sul contenzioso, intesa come esclusione della sussistenza di liti in corso.

Con l’attività di due diligence e con il contratto di compravendita l’acquirente cerca di assicurarsi contro i rischi conseguenti all’acquisto della partecipazione sociale, in particolare contro la probabilità, che – a seconda delle circostanze – può essere maggiore o minore, che si verifichi un danno in capo alla società. Tale nocumento ridurrebbe il valore della società e dunque, pro quota, anche delle azioni o quote acquisite. Laddove si sia verificato già prima della conclusione del contratto un certo danno (che dovrà allora, più correttamente, essere denominato “passività”), l’acquirente ne tiene conto ex ante, ossia nella determinazione del prezzo che è pronto a pagare per la partecipazione sociale. L’idea sottostante è che il compratore paga per le azioni o quote il loro “giusto” prezzo, cioè quello che riflette tutte le attività e passività che la società presenta al momento dell’acquisto.

Le garanzie contrattuali servono invece a tutelare l’acquirente rispetto a circostanze che non hanno ancora prodotto un danno al momento della sottoscrizione del contratto, ma che potrebbero produrlo nel prossimo futuro. Le probabilità, minori o maggiori, che subentri il nocumento dipendono ovviamente dalla circostanze del caso concreto. Mediante le clausole di garanzia il venditore si impegna ad accollarsi i danni che dovessero subentrare qualora si verifichi in futuro, entro un ragionevole lasso di tempo, l’evento dedotto in contratto.

Alcune volte il pericolo che si verifichi un danno è particolarmente elevato. Nel corso della due diligence possono essere stati individuati dei rischi concreti che possono produrre, nel breve periodo, il nocumento temuto dall’acquirente. Si pensi al caso in cui sui terreni di proprietà della società nella quale si vuole acquisire una partecipazione siano in corso delle verifiche per il sospetto di danni ambientali che potrebbero, laddove confermati, implicare un obbligo risarcitorio della società oppure si pensi all’ipotesi in cui la società sia parte di un contenzioso, in cui è convenuta in giudizio: se la causa verrà persa, la società sarà costretta a pagare una somma di danaro a un terzo. In casi del genere, il compratore ha individuato circostanze che potrebbero - a breve - determinare un danno. Non vi è al momento della conclusione del contratto un nocumento, ma le parti hanno consapevolezza che esso può presto realizzarsi. In una situazione del genere è difficile per l’acquirente insistere per una diminuzione del prezzo, in quanto il venditore argomenterà che il danno non si è ancora realizzato. Queste situazioni particolari (di rischio concreto e imminente) vengono generalmente risolte con una clausola di c.d. “indennità” (indemnity): si garantisce in contratto, con un’apposita pattuizione, che il venditore è tenuto a mantenere indenne il compratore con riferimento a qualsiasi pretesa di terzi legata a detto specifico evento. Le clausole di indemnity, proprio in quanto riferite a un pericolo di danno concreto e imminente, non sono assoggettate a limitazioni quantitative, diversamente dalle garanzie di tipo generico che andiamo ora a esaminare.

In aggiunta alle clausole di indemnity, i contratti di compravendita di partecipazioni sociali contengono di solito anche garanzie di tipo generico, atte a coprire pericoli di danno del tutto astratti nel momento in cui si sottoscrive il contratto. Si immagini il caso di una società svolgente attività manifatturiera, la quale – sulla base delle verifiche fatte in corso di due diligence - appare in regola con tutte le normative ambientali applicabili. L’acquirente può, ciò nonostante, insistere per l’inserimento in contratto di una clausola che garantisce tale stato di cose. Laddove, dopo l’acquisizione, risultasse che vi sono delle violazioni di tipo ambientale, la clausola potrà essere attivata dal compratore nei confronti del venditore al fine di ottenere il risarcimento del danno. Si tratta di clausole che coprono pericoli astratti, in cui il danno non solo non si è verificato ma – allo stato delle valutazioni delle parti - non è nemmeno probabile che si verifichi. In linea di principio il venditore non dovrebbe avere problemi a prestare il proprio consenso all’inserimento nel contratto di garanzie del genere, dal momento che è improbabile che l’evento dannoso si verifichi.

4. La risoluzione e l’annullamento del contratto

Cosa succede nel caso una garanzia contrattuale offerta dal venditore all’acquirente in un contratto di compravendita di partecipazioni sociali non venga rispettata? I rimedi previsti in generale dalla legge in presenza di vizi del bene sono la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo (art. 1492, comma 1, c.c.). Il problema è che questi rimedi, dettati per la compravendita in generale (e non per il caso particolare della compravendita di partecipazioni sociali), non sono di norma adatti alle esigenze dei soggetti coinvolti nelle acquisizioni societarie. Ciò vale specialmente per i rimedi “restitutori” (risoluzione del contratto, ma – come vedremo nel prosieguo - anche annullamento del medesimo).

Con riferimento alla risoluzione del contratto, si deve riflettere sul fatto che la relativa declaratoria avrebbe per effetto di porre nel nulla l’operazione di acquisizione. Ma le parti, se si muovono alla compravendita di una partecipazione, sono generalmente determinate a non tornare sui propri passi. Inoltre, dal momento che la risoluzione del contratto è un rimedio restitutorio, si dovrebbero ricreare la medesime condizioni precedenti all’acquisizione. Attesa la complessità dell’operazione, il rimedio risolutorio è generalmente poco adatto: le restituzioni richiederebbero tempi lunghi e costi elevati. Sotto alcuni profili un completo ripristino della situazione anteriore all’acquisizione può risultare impossibile, dal momento che l’impresa può – nel frattempo – avere subito significative modifiche non più reversibili. Volendo tracciare un parallelo, si pongono insomma nel contesto delle acquisizioni problemi simili a quelli che sussistono in materia di fusione. Qui il legislatore ha previsto espressamente che l’unico rimedio possibile è quello risarcitorio (art. 2504-quater c.c.) proprio perché la declaratoria d’invalidità della fusione implicherebbe restituzioni che, in realtà complesse come quella societaria, non sono ragionevolmente realizzabili[12].

In alternativa alla risoluzione del contratto, è possibile - per l’acquirente della partecipazione sociale - invocare l’annullamento.

L’annullamento può essere chiesto per dolo, quando il venditore ha volutamente dato informazioni non corrispondenti al vero oppure quando ha artatamente taciuto informazioni altrimenti determinanti per la prestazione del consenso dell’acquirente (art. 1439 c.c.)[13]. Nella prassi risulta peraltro difficile riuscire a ottenere l’annullamento del contratto per questa via, a causa delle difficoltà di provare il dolo del cedente[14]. Una considerazione simile vale per il dolo incidente, che legittimerebbe non tanto l’annullamento del contratto quanto piuttosto il risarcimento del danno (art. 1440 c.c.)[15].

Dal punto di vista operativo è invece più frequente che chi agisce in giudizio chieda l’annullamento del contratto per errore, sulla base dell’assunto che le informazioni fornite dal venditore – pur senza dolo - hanno determinato in capo all’acquirente una falsa rappresentazione della realtà inducendolo a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe concluso. Secondo le regole generali, si deve trattare di errore essenziale (art. 1429 c.c.) e riconoscibile (art. 1431 c.c.).

Esaminando la giurisprudenza in materia di annullamento dei contratti di compravendita di partecipazioni sociali, emerge come l’errore più ricorrente sia quello che concerne la consistenza patrimoniale della società bersaglio. L’acquirente della partecipazione sociale paga un prezzo che riflette, in primo luogo, il patrimonio netto della società (attività dedotte le passività) e, in secondo luogo, generalmente un premio per il conseguimento della maggioranza (tale “premio” normalmente consiste in un multiplo degli utili realizzati nell’ultimo esercizio). La consistenza patrimoniale della società è dunque il dato di partenza che serve al compratore per “calcolare” il prezzo della partecipazione sociale. In questo contesto si possono verificare degli errori, tali da alterare la libera prestazione del consenso dell’acquirente. Si immagini il caso in cui viene ritenuto sussistere il capitale sociale, che è invece andato - in tutto o in parte - perso, oppure l’ipotesi che il patrimonio netto della società sia inferiore rispetto a quanto assunto. Se, diversamente da quanto affermato dal venditore, il capitale e/o il patrimonio non sussistono come promesso, l’acquirente subisce un danno, consistente nel fatto di pagare un prezzo eccessivo rispetto al valore assunto della partecipazione.

Bisogna però evidenziare che la giurisprudenza è titubante nel concedere il rimedio dell’annullamento del contratto per errore nel caso di una valutazione sbagliata da parte dell’acquirente sulla situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società bersaglio. Come vedremo analizzando alcuni dei più recenti precedenti in materia, l’annullamento può essere ottenuto solo in presenza di un’apposita ed espressa garanzia in contratto sulla consistenza patrimoniale della società, non invece quando tale garanzia è mancante. In altre parole, la cessione pura e semplice di quote o azioni non implica alcuna garanzia sulle caratteristiche della società sottostante. Se l’acquirente desidera una tale garanzia, deve farsela rilasciare appositamente nel contratto di compravendita.

Fra i più recenti interventi della giurisprudenza di legittimità sul problema dell’annullamento del contratto di compravendita di partecipazioni sociali può essere segnalata una sentenza della Corte di cassazione del 2008, secondo cui l’errore sulla valutazione economica della cosa oggetto del contratto (nel caso di specie una partecipazione sociale) non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento del contratto, in quanto il difetto di qualità della cosa deve attenere solo ai diritti e obblighi che il contratto in concreto sia idoneo ad attribuire, e non al valore economico del bene oggetto del contratto, che afferisce alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un determinato accordo, sfera non tutelata con lo strumento dell’annullabilità, non essendo riconosciuta dall’ordinamento alcuna tutela rispetto al cattivo uso dell’autonomia contrattuale e all’errore sulle proprie personali valutazioni, delle quali ciascuno dei contraenti assume il rischio[16]. Si trattava di un caso in cui mancava nel contratto una specifica garanzia contrattuale circa la consistenza patrimoniale della società.

Non diversa è stata la soluzione fatta propria da una sentenza della Corte di cassazione di poco precedente (del 2007), la quale è partita dalla considerazione che la cessione delle azioni di una società di capitali ha come “oggetto immediato” la partecipazione sociale e solo quale “oggetto mediato” la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta[17]. Con riguardo alle azioni di società, le qualità delle stesse che, secondo il comune apprezzamento, devono ritenersi determinanti del consenso, devono limitarsi a quelle che attengono alla funzione tipica delle azioni, e cioè all’insieme delle facoltà e dei diritti che esse conferiscono al loro titolare nella struttura della società, senza alcun riguardo al loro valore di mercato. La disciplina di legge si ferma all’oggetto immediato (e cioè alle azioni oggetto del contratto), mentre non si estende alla consistenza e al valore dei beni costituenti il patrimonio, a meno che l’acquirente, per conseguire tale risultato, non abbia fatto ricorso a un’espressa clausola di garanzia, frutto dell’autonomia contrattuale, che consente alle parti di rafforzare, diminuire o escludere convenzionalmente la garanzia, in modo tale da ricollegare esplicitamente il valore delle azioni al valore dichiarato del patrimonio sociale. La Cassazione ne fa conseguire che l’errore sul valore della società, in assenza di apposita clausola in tal senso, non costituisce errore essenziale in grado di determinare l’annullamento del contratto. In caso di compravendita di azioni di una società - che si assume stipulata a un prezzo non corrispondente al loro effettivo valore - senza che il venditore abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società stessa, il valore economico dell’azione non rientra fra le qualità di cui all’art. 1429, n. 2, c.c., relativo all’errore essenziale. Pertanto non è configurabile un’azione di annullamento della compravendita basata su una pretesa revisione del prezzo tramite la revisione di atti contabili (bilancio e conto profitti e perdite) per dimostrare quello che altro non è che un errore di valutazione da parte dell’acquirente, anche quando il bilancio della società pubblicato prima della vendita sia falso e nasconda una situazione tale da rendere applicabili le norme in materia di riduzione e perdita del capitale sociale. La posizione assunta dalla Corte di cassazione in questa sentenza è particolarmente forte in quanto non fa bastare nemmeno la falsità del bilancio per ottenere l’annullamento del contratto di compravendita[18].

Alla luce di questi orientamenti giurisprudenziali, l’acquirente che voglia adeguatamente garantirsi deve insistere per l’inserimento - nel contratto di compravendita della partecipazione sociale - di un’apposita clausola sulla consistenza patrimoniale della società bersaglio. La prassi contrattuale mostra che tali pattuizioni sono del tutto comuni.

5. La riduzione del prezzo e il risarcimento del danno

Anche la riduzione del prezzo (art. 1492 c.c.) non costituisce di norma un rimedio adeguato al contesto delle acquisizioni societarie, in quanto è ragionevole assumere che il venditore si determini all’operazione facendo affidamento sulla valutazione della partecipazione che è stata concretamente effettuata, senza alcuna intenzione di rivedere ex post al ribasso il prezzo. In altre parole, il rischio che il venditore non vuole correre è quello che il compratore eccepisca violazioni di garanzie, subito dopo la conclusione del contratto, al fine di ottenere l’indebita restituzione di parte del prezzo pagato per la quote o azioni. Bisogna dire che, dal punto di vista strettamente economico, riduzione del prezzo e risarcimento del danno si assomigliano molto. Si supponga che la partecipazione venga venduta per 1.000.000 di euro e che, successivamente, venga chiesto un risarcimento di 100.000 euro: una volta che questa somma è stata restituita dal venditore all’acquirente, è come se il reale prezzo di acquisto della partecipazione sia stato – complessivamente - di 900.000 euro. L’effetto economico del risarcimento del danno consiste in una riduzione del prezzo di acquisto.

Nella prassi contrattuale è comune prevedere, per il caso di violazione delle garanzie contrattuali, il solo obbligo di risarcire il danno patito dall’acquirente. Vi è in contratto, normalmente, una clausola che esclude l’azionabilità di rimedi diversi da quello del risarcimento del danno, escludendo in particolare la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto e il suo annullamento. La clausola con cui si ottiene questo risultato è quella dell’“exclusive remedy” (rimedio esclusivo). In altre parole il contratto, dopo avere indicato quali sono le garanzie offerte dal venditore e avere stabilito che in caso di loro violazione spetta il risarcimento del danno, prevede che l’acquirente non può far valere alcun altro rimedio.

Le categorie di danno che il debitore può essere chiamato a risarcire sono varie. Il venditore ha invece interesse a limitare le tipologie di nocumento richiedibili dall’acquirente. Nelle trattative è pertanto usuale assistere a discussioni sui tipi di danno che il cedente assume l’obbligo di risarcire in caso di violazione delle garanzie.

Al riguardo la distinzione più importante è quella fra danno emergente e lucro cessante (art. 1223 c.c.), laddove – evidentemente – il venditore cercherà di limitare la sua responsabilità alla prima voce. Il problema del lucro cessante può risultare rilevante nel contesto delle acquisizioni sotto due profili: da un lato l’acquirente paga generalmente una somma a titolo di premio per l’acquisto della partecipazione (e ciò sulla base dell’assunto che la società sarà in grado di produrre utili anche in futuro), dall’altro lato il compratore mira comunque – indipendentemente dall’eventuale previsione di un prezzo di acquisto legato agli utili - a ottenere in futuro guadagni ancora maggiori grazie alla partecipazione che acquista (ad esempio grazie al raggiungimento di sinergie con imprese già detenute). Il rischio economico connesso a una responsabilità civile da lucro cessante può pertanto risultare particolarmente grave per il venditore.

Se si verifica una circostanza che legittima la richiesta di risarcimento del danno, l’acquirente - in assenza di clausole derogatorie, e dunque sulla base della disposizione generale del codice civile - potrebbe insistere per ottenere non solo il danno emergente, ma anche il lucro cessante. Si immagini il caso di un terreno comprato nel contesto dell’acquisizione, che si rivela poi essere inquinato e che richiede 100.000 euro di costi di bonifica; si immagini altresì che i lavori di bonifica impongano la chiusura dello stabilimento per 15 giorni, determinando mancati guadagni per 200.000 euro. A seconda di come sarà strutturata la clausola, l’acquirente potrà ottenere il risarcimento solo della perdita subita (100.000 euro) oppure anche del mancato guadagno (altri 200.000 euro). Di qui l’interesse del cedente a limitare in contratto la risarcibilità al solo danno emergente.

6. La durata delle garanzie

Nella prassi è raro che il venditore sia disponibile a offrire garanzie senza limitazione alcuna nel contratto di compravendita di partecipazioni sociali; è invece del tutto usuale che si inseriscano in contratto diversi limiti. Esistono delle tecniche contrattuali per limitare l’ampiezza della responsabilità del venditore derivante dalla violazione di garanzie.

Un primo modo per limitare la responsabilità del venditore ha a che fare con il fattore “tempo”.

Le garanzie sono contenute nel contratto di compravendita e dunque, in linea di principio, attestano circostanze sussistenti al momento della sottoscrizione di tale contratto. Il problema è che, di norma, il contratto non produce l’immediato effetto di trasferimento della titolarità delle partecipazioni, avendo effetti meramente obbligatori: con il contratto preliminare le parti si obbligano, al ricorrere di determinate condizioni, a concludere – in un momento futuro - il contratto definitivo di trasferimento delle partecipazioni. L’esigenza di separare i due momenti nasce dal fatto che normalmente occorre un certo tempo intermedio per porre in essere tutti gli adempimenti necessari alla realizzazione dell’operazione (il più frequente motivo per la separazione dei due passaggi è la necessità di ottenere, nel frattempo, il via-libera delle autorità antitrust). Alla sottoscrizione del contratto preliminare ci si riferisce usualmente con l’espressione inglese di “signing” (sottoscrizione), mentre al perfezionamento del contratto di trasferimento delle partecipazioni ci si riferisce con l’espressione di “closing” (perfezionamento o chiusura dell’operazione). Fra la conclusione del contratto di compravendita e l’atto notarile può passare un certo lasso di tempo (talvolta anche alcuni mesi). Mentre il venditore ha interesse a limitare la portata delle sue garanzie al momento della sottoscrizione del contratto, l’acquirente vorrebbe che tali garanzie sussistessero anche nel successivo momento in cui l’operazione si perfeziona con l’atto di trasferimento e il pagamento del prezzo. Generalmente il problema viene risolto nel senso di distinguere fra le dichiarazioni il cui contenuto dipende dal fatto del venditore e quelle che ne sono indipendenti: nel primo caso il venditore può garantire un certo fatto fino al closing, nel secondo caso solo fino al signing.

È comune, nei contratti di compravendita delle partecipazioni sociali, prevedere la durata delle garanzie[19]. Evidentemente venditore e acquirente, sul punto, hanno interessi contrapposti, volendo il cedente garanzie più brevi possibili e il compratore garanzie più lunghe possibili. Al riguardo è utile la distinzione fra le garanzie attinenti al titolo (come la titolarità della partecipazione in capo al venditore e l’assenza di pesi sulla medesima) e le altre garanzie: per la prima tipologia di garanzia il venditore non avrà generalmente difficoltà a prevedere termini di durata particolarmente lunghi; nel caso invece delle altre garanzie, il cedente tende a limitare il più possibile la loro durata. Nella prassi si concordano generalmente durate variabili fra i 12 e i 36 mesi. Per limitare la durata della garanzie il venditore invoca frequentemente l’argomento che, dopo la redazione del primo bilancio, l’acquirente non può non avere scoperto le circostanze che possono dare adito all’attivazione delle garanzie e dunque, se intende avvalersene, deve farlo subito. Le esigenze del compratore vanno insomma contemperate con quelle del venditore che, decorso un ragionevole lasso di tempo, vuole essere sicuro di non essere chiamato in responsabilità in relazione a una partecipazione ormai ceduta.

7. Le clausole limitative dell’obbligo risarcitorio

La responsabilità del venditore di una partecipazione sociale viene di norma limitata in contratto sotto il profilo quantitativo.

Una clausola che limita l’ampiezza dell’obbligo risarcitorio del venditore è la clausola c.d. “de minimis”. Tale clausola consiste nel prevedere che il venditore non è tenuto a indennizzare l’acquirente nei casi in cui il danno non raggiunga una determinata soglia minima (si supponga 10.000 euro): la clausola fissa dunque un limite sotto il quale il compratore è tenuto a subire in proprio il danno, senza potersi rivalere sulla controparte. Tale tipologia di clausole trova la propria ragion d’essere in un giudizio di proporzionalità: a fronte di operazioni d’ingente valore, sarebbe disdicevole che le parti – perfezionata l’acquisizione – iniziassero a litigare con riferimento a questioni bagatellari. Una clausola “de minimis” ben redatta deve specificare cosa debba succedere quando la soglia prevista sia superata. Si supponga, nell’esempio fatto, che il danno ammonti a 30.000 euro. In contratto si dovrà specificare se l’acquirente è legittimato a chiedere tutto tale danno (30.000 euro) oppure solo la parte che supera la soglia (e, dunque, nell’esempio fatto potranno essere chiesti 20.000 euro, dovendosi detrarre da 30.000 euro 10.000 euro).

Talvolta alla clausola “de minimis” si aggiunge, nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali, la clausola c.d. “basket” (letteralmente “cesto”, o – più tecnicamente - soglia collettiva). Con questa pattuizione si prevede che il risarcimento del danno potrà essere chiesto dall’acquirente al venditore solo se la somma delle singole voci di nocumento supera una seconda soglia (si supponga di 100.000 euro). Ad esempio, nel caso di un singolo danno del valore di 60.000 euro, in presenza di una clausola “basket” la garanzia – pur superando il limite minimo di 10.000 euro - non può essere attivata, a meno che non venga attivata insieme a una seconda pretesa di risarcimento che, unitamente alla prima, supera la soglia collettiva. Se per esempio vengono avanzate due richieste (una prima di 60.000 euro e una seconda di 60.000 euro), allora ambedue i limiti previsti in contratto sono raggiunti. Anche nel caso di clausola “basket” va opportunamente previsto nel contratto se l’acquirente sia tenuto a risarcire tutto il danno oppure solo la parte che supera la seconda soglia.

L’effetto congiunto di una prima soglia “de minimis” e di una seconda soglia “basket” è che il venditore risponde solo per un danno singolo particolarmente grave (nell’esempio fatto: 100.000 euro) oppure per la somma di più danni non particolarmente gravi, ma nemmeno irrisori (nell’esempio fatto: tanti danni di almeno 10.000 euro che raggiungano complessivamente la soglia di 100.000 euro).

Una terza tipologia di clausola ricorrente nei contratti di acquisizione consiste in una soglia massima (cap) alla responsabilità patrimoniale del venditore: con apposita pattuizione si prevede che la responsabilità del venditore non potrà in nessun caso superare un certo importo. Tale somma ammonta generalmente a una cifra variabile fra il 10% e il 30% del prezzo di acquisto della partecipazione. Di norma in contratto si distingue fra le garanzie relative al “titolo” e le altre garanzie. Alle prime garanzie (ad esempio quelle relative alla titolarità della partecipazione in capo al venditore e al fatto che essa è libera da pesi) non si applica alcun cap. In questo caso l’obbligo risarcitorio potrebbe essere addirittura superiore al prezzo di acquisto della partecipazione (altrimenti si prevede una soglia massima corrispondente al prezzo di acquisto). Invece per le garanzie diverse da quelle attinenti al “titolo” è usuale prevedere un valore massimo dell’ammontare del danno risarcibile.

Nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali si rinvengono poi, con maggiore o minore frequenza, altre clausole che producono l’effetto di limitare la responsabilità patrimoniale del venditore nei confronti dell’acquirente.

Una clausola frequente è quella che prevede che il venditore risponda solo nel caso di “importanti” (material) violazioni delle garanzie che offre. Il problema di questa pattuizione è la sua indeterminatezza, che tende a portare a contrasti fra le parti nella sua interpretazione. Non appena, difatti, l’acquirente dovesse azionare una garanzia, la prima eccezione sollevata dal venditore sarebbe proprio quella che l’asserita inosservanza non può reputarsi importante. Al fine di evitare infinite discussioni e lunghi contenziosi, è consigliabile che le parti determinino già in contratto (ad esempio in sede di definizioni) il significato di “importanza” (materiality). La clausola di materialità va di pari passo con le clausole che limitano quantitativamente l’obbligo risarcitorio del venditore: scrivere in contratto che il venditore non risponde per danni inferiori ai 10.000 euro non vuol dire altro che introdurre, con altre parole, una soglia di materialità. Dal punto di vista operativo è certamente meglio indicare concretamente il limite di valore oltre il quale può essere azionata una garanzia piuttosto che introdurre clausole vaghe sull’importanza della violazione.

Un’altra modalità per limitare l’obbligo di risarcimento del venditore è quello di escludere la sua responsabilità laddove terzi possano essere ritenuti responsabili per il fatto dedotto in contratto. Il caso tipico è quello delle assicurazioni che potrebbero coprire il danno subito dall’acquirente. In questa ipotesi il compratore non può agire in giudizio nei confronti del venditore, dal momento che il danno viene coperto dall’assicurazione. Queste clausole possono essere strutturate nel senso che l’acquirente non può agire in alcun modo nei confronti del cedente quando sussiste una pretesa nei confronti dell’assicuratore oppure nel senso che può agire solo per la parte di danno che non è coperta dall’assicurazione.


[1] Sul contratto di compravendita di partecipazioni sociali cfr. AA.VV., I contratti di acquisizione di società ed aziende, a cura di U. Draetta-C. Monesi, Milano, 2007; G. De Nova, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato, Torino, 2011; L. Picone, Contratti di acquisto di partecipazioni azionarie, Milano, 1995; A. Tina, Il contratto di acquisizione di partecipazioni azionarie, Milano, 2007.

[2] In materia di compravendita di partecipazioni sociali cfr., a titolo esemplificativo, M. Benetti, Cessione di quote: efficacia, opponibilità ed esercizio dei diritti sociali, in Società, 2008, 229 ss.; G. Carullo, Osservazioni in tema di vendita della partecipazione sociale, in Giur. comm., 2008, II, 954 ss.; G. Festa Ferrante, Compravendita di partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente, in Riv. not., 2005, II, 156 ss.; F. Funari, Cessione di quote sociali e patto di non concorrenza, in Società, 2009, 967 ss.; F. Laurini, Disciplina dei trasferimenti di quote di s.r.l. e delle cessioni d’azienda, in Riv. soc., 1993, 959 ss.; F. Parmeggiani, In tema di annullabilità della compravendita di azioni, in Giur. comm., 2008, II, 1185 ss.; C. Punzi, Le controversie relative alle cessioni e acquisizioni di partecipazioni societarie e le azioni esperibili, in Riv. dir. proc., 2007, 547 ss.; D. Scarpa, Presupposizione ed equilibrio contrattuale nella cessione di partecipazione sociale, in Giust. civ., 2010, II, 395 ss.; A. Tina, Trasferimento di partecipazioni societarie e annullamento del contratto, in Giur. comm., 2008, II, 110 ss.

[3] Sul tema delle garanzie nella compravendita di partecipazioni sociali cfr. F. Bonelli, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, in Dir. comm. int., 2007, 293 ss.; P. Casella, I due sostanziali metodi di garanzia al compratore, in Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, a cura di F. Bonelli e M. De Andrè, Milano, 1990, 131 ss, C. D’Alessandro, Vendita di partecipazioni sociali e promessa di qualità, in Giust. civ., 2005, I, 1071 ss.; A. Fusi, La vendita di partecipazioni sociali e la mancanza di qualità, in Società, 2010, 1203 ss.; L. Renna, Note su un tema dibattuto: la vendita di azioni o quote di società e le garanzie dell’alienante, in Giur. it., 2008, 365 ss.

[4] Per i profili di diritto internazionale privato in materia di cessione di partecipazioni cfr. S. M. Carbone, Conflitti di leggi e giurisdizione nella disciplina dei trasferimenti di pacchetti azionari di riferimento, in Riv. dir. int. priv. proc., 1989, 777 ss.

[5] In materia di due diligence cfr. G. Alpa-A. Saccomani, Procedure negoziali, due diligence e memorandum informativi, in Contratti, 2007, 267 ss.; L. Bragoli, La due diligence legale nell’ambito delle operazioni di acquisizione, in Contratti, 2007, 1125 ss.; A. Camagni, La due diligence nelle operazioni di acquisizione e valutazione di aziende, in Riv. dott. comm., 2008, 191 ss.; C. F. Giampaolino, Ruolo della Due Diligence e onere di informarsi, in AIDA, 2009, 29 ss.; L. Picone, Trattative, due diligence ed obblighi informativi delle società quotate, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, 234 ss.

[6] Sul diritto di controllo e informazione del quotista cfr. la monografia di R. Guidotti, I diritti di controllo del socio nella s.r.l., Milano, 2007. V. inoltre, per limitarsi ad alcuni recenti contributi, P. Benazzo, I controlli nella società a responsabilità limitata: singolarità del tipo od omogeneità della funzione?, in Riv. soc., 2010, 18 ss.; D. Cesiano, Il (limitato?) diritto di consultazione del socio ex-amministratore nella s.r.l., in Società, 2010, 1131 ss.; A. Pisapia, Il controllo del socio nella S.r.l.: oggetto, limiti e rimedi, in Società, 2009, 505 ss.; V. Sangiovanni, Diritto di controllo del socio di s.r.l. e autonomia statutaria, in Notariato, 2008, 671 ss.; V. Sanna, L’ambito di applicazione dei diritti di controllo spettanti ai “soci che non partecipano all’amministrazione” nella s.r.l., in Giur. comm., 2010, I, 155 ss.; F. Torroni, Note in tema di poteri di controllo del socio nella s.r.l., in Riv. not., 2009, II, 673 ss.

[7] Cfr., per questa impostazione, U. Tombari, Problemi in tema di alienazione della partecipazione azionaria e attività di due diligence, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, 70 ss.

[8] Rimangono al di fuori dal presente approfondimento le questioni relative alla possibile responsabilità da trattative, che può essere fatta valere da una delle parti nel caso in cui l’altra parte violi il canone di buona fede sancito dall’art. 1337 c.c. Sulla materia della responsabilità da trattative cfr. di recente, in un’ottica di diritto comparato, E. A. Kramer, Il recesso dalle trattative: uno schizzo comparatistico, in Resp. civ., 2011, 246 ss. (trad. di R. Omodei Salè). V. inoltre G. Afferni, Responsabilità precontrattuale e rottura delle trattative: danno risarcibile e nesso di causalità, in Danno resp., 2009, 469 ss.; M. Capodanno, Lettere di intenti, doveri in contrahendo e buona fede nelle trattative, in Riv. dir. priv., 2008, 305 ss.; C. Cavajoni, Ingiustificato recesso dalle trattative e risarcimento del danno, in Contratti, 2007, 315 ss.; G. Gigliotti, Trattative, minute e buona fede. La responsabilità da condotta sleale, in Corr. mer., 2008, 302 ss.; G. Guerreschi, Responsabilità precontrattuale: liberi di recedere dalle trattative ma fino a un certo punto, in Danno resp., 2006, 49 ss.

[9] Al contratto vengono generalmente allegati gli ultimi bilanci della società (oppure vengono preparati e allegati dei bilanci intermedi proprio al fine dell’acquisizione) e il venditore garantisce che tali bilanci sono completi, corrispondono al vero e danno una corretta rappresentazione della situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società, assumendosi l’obbligo di risarcire il danno nel caso di difformità fra le risultanze di bilancio e la realtà delle cose. Le garanzie in materia di bilancio sono importanti anche ai fini della determinazione del prezzo di acquisto della società, in quanto normalmente il prezzo di acquisto si determina come somma del patrimonio netto della società e di un multiplo degli ultimi utili. Sulla garanzie di bilancio nei contratti di acquisizione cfr. R. Pistorelli, Le garanzie “analitiche” sulle voci della situazione patrimoniale di riferimento, in Acquisizioni, cit., 157 ss.

[10] Sulle garanzie fiscali cfr. A. Pedersoli, Le garanzie fiscali, previdenziali ed ecologiche, in Acquisizioni, cit., 147 ss.

[11] La garanzia generalmente concerne la validità dei contratti in corso nonché il fatto che essi non verranno meno a seguito dell’acquisizione. Al riguardo va segnalato che, talvolta, i contratti di cui è parte la società bersaglio contengono una clausola sul cambio di controllo, la quale legittima la controparte contrattuale della target a recedere dal contratto in caso di cambio della proprietà. Laddove il contratto fosse di considerevole significato economico, ciò potrebbe avere un notevole impatto negativo per l’acquirente.

[12] In materia d’invalidità della fusione cfr. la monografia di P. Beltrami, La responsabilità per danni da fusione, Torino, 2008. V. inoltre V. Afferni, Invalidità della fusione e riforma delle società di capitale, in Giur. comm., 2009, I, 189 ss.; A. Colavolpe, In tema di invalidità dell’atto di fusione, in Società, 2008, 483 ss.; P. Lucarelli, Rapporto di cambio incongruo, invalidità della fusione e rimedi: una relazione ancora da esplorare, in Riv. dir. comm., 2001, II, 269 ss.; L. Picone, Invalidità della fusione e mezzi di tutela del socio, in Società, 1999, 458 ss.; V. Sangiovanni, Invalidità della fusione e risarcimento del danno, in Resp. civ., 2010, 379 ss.

[13] Cass., 12 gennaio 1991, n. 257, ha stabilito che il dolo quale causa di annullamento del contratto può consistere tanto nell’ingannare con notizie false quanto nel nascondere alla conoscenza altrui, con il silenzio o con la reticenza, fatti o circostanze decisive.

[14] Si veda, ad esempio, Cass., 12 giugno 2008, n. 15706, la quale ha ritenuto che non fosse stata fornita la prova che il venditore della partecipazione aveva fornito informazioni false all’acquirente, rigettando pertanto la domanda di annullamento del contratto per dolo.

[15] Cass., 19 luglio 2007, n. 16031, in Giur. comm., 2008, II, 103 ss., con nota di A. Tina; in Giur. comm., 2008, II, 1176 ss., con nota di F. Parmeggiani; in Giur. it., 2008, 365 ss., con nota di L. Renna, ha affermato che le false o omesse indicazioni di fatti possono comportare l’obbligo per il contraente mendace o reticente di risarcire il danno, ove la controparte si sarebbe comunque determinata a concludere l’affare ma a condizioni diverse.

[17] Cass., 19 luglio 2007, n. 16031, in Giur. comm., 2008, II, 103 ss., con nota di A. Tina; in Giur. comm., 2008, II, 1176 ss., con nota di F. Parmeggiani; in Giur. it., 2008, 365 ss., con nota di L. Renna.

[18] Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito si può segnalare Trib. Roma, 16 aprile 2009, in Società, 2010, 1203 ss., con nota di A. Fusi, il quale ha deciso che il contratto di cessione di quote sociali è annullabile quando vi sia stata da parte del cedente una specifica promessa circa la consistenza patrimoniale della società delle cui quote si tratta. Secondo l’autorità giudiziaria romana qualità della cosa è tutto ciò che ne possa consentire un migliore e più redditizio godimento ed è perciò plausibile che la solidità dell’impresa sociale, riflettendosi sul valore e sulla redditività della quota, costituisca una qualità di tale quota. Nel caso di specie era stata data un’espressa garanzia in merito alla consistenza patrimoniale della società, rivelatasi invece difforme da quanto dichiarato: in particolare la gravissima situazione debitoria della società aveva determinato la perdita dell’intero capitale sociale, mentre il cedente aveva dichiarato che tale capitale era esistente. Il caso affrontato dal Tribunale di Roma si differenzia da quello oggetto delle sentenze della Corte di cassazione proprio per il fatto che, nella fattispecie decisa dall’autorità giudiziaria romana, vi era un’apposita clausola sulla consistenza patrimoniale della società.

[19] In materia di durata delle garanzie nei contratti di acquisizione cfr. S. Erede, Durata delle garanzie e conseguenze della loro violazione, in Acquisizioni, cit., 199 ss.

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