Concorrenza e commercio online: navigare tra duplice distribuzione e intermediari ibridi nella normativa Antitrust

La "duplice distribuzione" e gli "intermediari ibridi" emergono come concetti salienti nel contesto degli accordi verticali e della normativa Antitrust.

La duplice distribuzione si verifica quando un soggetto sceglie di commercializzare i propri prodotti sia direttamente che attraverso distributori esterni, creando così una situazione anche di mera  concorrenza potenziale con questi ultimi. Tale fenomeno necessita di un'analisi accurata delle dinamiche di mercato, soprattutto per quanto concerne lo scambio di informazioni tra le parti coinvolte. Questo è particolarmente rilevante nel contesto delle vendite online, dove è imperativo prevenire eventuali violazioni delle normative antitrust.

Parallelamente, gli intermediari ibridi emergono nel contesto del commercio online quando una piattaforma funge simultaneamente da rivenditore per i prodotti di un fornitore e da venditore dei propri articoli. In questo scenario, si sviluppa una dinamica di potenziale concorrenza tra le due entità, tenuto conto che, in tale contesto, gli intermediari potrebbero avere l'interesse di favorire le proprie vendite, avendo anche la capacità di influenzare l'andamento della concorrenza tra le imprese che utilizzano i loro servizi di intermediazione online.

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1. Contesto normativo e quadro giuridico.

L'art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) proibisce gli accordi tra imprese che possono influenzare negativamente il commercio tra gli Stati membri e che hanno come oggetto o effetto la prevenzione, la restrizione o la distorsione della concorrenza all'interno del mercato interno.

Il terzo paragrafo dell’art. 101 prevede comunque un’esenzione a suddetto principio: restano validi gli accordi che, seppure restringano la concorrenza, contribuiscano a migliorare la produzione o distribuzione dei prodotti, ovvero il progresso tecnico o economico, a condizione che venga riservata per gli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva.

Applicare questi principi agli accordi verticali, ossia contratti volti a restringere la concorrenza, è tutt’altro che agevole. Per assistere gli operatori del settore nella complessa analisi di conformità alle disposizione dell’art. 101, paragrafo 3, del TFUE, la Commissione Europea ha emanato specifici regolamenti[1] - l'ultimo dei quali è il regolamento (UE) 2022/720). Questi documenti normativi mirano a delineare con chiarezza i confini entro i quali gli accordi verticali, pur limitando la concorrenza, possono essere considerati leciti, assicurando che contribuiscano effettivamente al miglioramento della produzione, della distribuzione dei prodotti e del progresso tecnico ed economico, in coerenza con quanto stabilito dall'art. 101.

Nel contesto delineato, l'art. 2, paragrafo 1, del regolamento stabilisce che, salvo specifiche eccezioni dettagliate nel regolamento stesso, gli accordi verticali godono di un’esenzione automatica. Questa premessa si basa sull'assunto che, generalmente, tali accordi possano generare impatti economici positivi, ottimizzando la produzione o la distribuzione dei prodotti e incentivando il progresso tecnico o economico, assicurando al contempo che una porzione adeguata dei benefici conseguiti sia destinata agli utenti.

Come già esplorato in un articolo precedente, l'art. 3 del regolamento preserva in via generale l'esenzione per tutti quegli accordi nei quali sia il fornitore che l'acquirente non superino il 30% delle quote nel mercato rilevante; pertanto, beneficiano di una presunzione di legalità tutti gli accordi verticali tra entità che non eccedano tali soglie, a patto che i contratti non incorporino restrizioni fondamentali (le cosiddette hard-core restrictions, delineate nell’art. 4 del regolamento). Queste ultime, essenzialmente, in un sistema distributivo esclusivo, comprendono il divieto di imporre il prezzo di rivendita al distributore, il divieto di effettuare vendite passive fuori dal territorio e dalla clientela esclusiva, e il divieto categorico dell’utilizzo di internet.

È fondamentale sottolineare che gli accordi verticali tra imprese concorrenti, i quali non beneficiano dell'esenzione automatica, non sono soggetti a una presunzione di illegalità. Pertanto, gli stessi non devono essere considerati incompatibili con il mercato interno, e di conseguenza, vietati, senza che venga effettuato un previo esame degli effetti che gli stessi esercitano sulla concorrenza. Da un punto di vista pratico, essi dovranno essere valutati individualmente al fine di verificare la loro conformità con l'articolo 101 del Trattato.[2]

Leggi anche: Quota di mercato superiore al 30% e impatti su contratti di distribuzione.

 

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2. Accordi verticali tra imprese concorrenti.

2.1. Concorrenza effettiva e duplice distribuzione.

Nel contesto esposto, l'art. 2, paragrafo 4 del regolamento esclude dall’esenzione gli accordi verticali stipulati tra imprese concorrenti.

Ad ogni modo, il regolamento enfatizza la necessità di esaminare la concorrenza effettiva nel contesto specifico del singolo accordo verticale. In tale prospettiva, le lettere a) e b) dell'articolo 2, paragrafo 4, assegnano l'esenzione agli accordi verticali tra entità che, benché concorrenti su un piano orizzontale, non competono direttamente nei precisi livelli di produzione o distribuzione coinvolti nell'accordo verticale considerato.

L'intento è di concedere l'esenzione a quei legami tra entità che, pur essendo concorrenti in una certa fase della distribuzione, non lo sono nei livelli per cui l'accordo verticale è configurato, concentrando così l'attenzione sull'effetto specifico che ogni accordo esercita sul mercato, indipendentemente dalla concorrenza tra le parti in altri livelli distributivi.

Nella prospettiva di un'analisi attenta della reale situazione concorrenziale, indipendentemente dai ruoli svolti dai contraenti nel mercato, i considerando 12 e 13 del regolamento introducono un principio complementare, denominato "duplice distribuzione". Questo fenomeno si manifesta quando il fornitore commercializza beni o servizi sia a monte che a valle, entrando così in concorrenza con i propri distributori indipendenti.

Ad esempio, si verifica una duplice distribuzione quando un produttore di scarpe, che inizialmente distribuiva i propri prodotti esclusivamente attraverso distributori, decide di vendere direttamente ai negozi, entrando, di fatto, in concorrenza con i propri distributori, andando ad agire sullo stesso livello della catena distributiva.

In tale scenario, l'accordo verticale non godrebbe automaticamente dell’esenzione essendosi trasformato, di fatto, in un rapporto tra soggetti in concorrenza tra loro.

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2.2. Lo scambio di informazioni nella duplice distribuzione.

Nell’ambito della duplice distribuzione, un contesto in cui le situazioni di potenziale concorrenza sono maggiori rispetto ai mercati "tradizionali" si hanno certamente nelle vendite online. Si prenda il caso, tutt'altro che insolito, in cui il produttore affianca ad una vendita tramite distributori, una vendita diretta online, sia essa attraverso il proprio sito, che mediante, ad esempio, l'utilizzo di un'applicazione appositamente sviluppata dallo stesso.

Seppure il produttore farà di tutto per armonizzare i canali di vendita, non è detto che sempre riuscirà in tale impresa, rischiando di trovarsi in una situazione di effettiva o potenziale (cfr. successivo paragrafo 4) concorrenza con i propri distributori.

Indipendentemente dagli sforzi compiuti dal produttore nella gestione dei due canali, un elemento che può assumere una rilevanza pratica e significativa è quello introdotto con l'art. 2, paragrafo 5, del regolamento, che impone un'importante limitazione riguardante eventuali scambi di informazioni tra fornitore e acquirente.

Sulla base di quanto delineato dai considerando 12 e 13 e dall'art. 2, paragrafo 4, l'art. 2, paragrafo 5, del regolamento stabilisce che, in situazioni di accordi tra soggetti concorrenti (indipendentemente dalle congiunture che hanno portato a tale circostanza), gli scambi di informazioni tra fornitore e acquirente che non sono direttamente legati all'attuazione dell'accordo verticale o che non sono indispensabili per ottimizzare la produzione o la distribuzione dei beni o servizi oggetto del contratto non godono mai dell’esenzione e, pertanto, possono essere potenzialmente in violazione della legislazione antitrust.

Per interpretare l'art. 2, paragrafo 5 del regolamento, si possono considerare gli Orientamenti della Commissione.[3] Sebbene gli stessi non abbiano forza vincolante, sono di cruciale importanza nella prassi decisionale e nell'interpretazione delle norme.

In particolare, i punti 99 e 100, forniscono esempi di informazioni che possono o meno soddisfare i requisiti stabiliti dall'art. 2, paragrafo 5, delineando così quali informazioni sono presumibilmente legittime e quali potrebbero non esserlo sotto un profilo antitrust.

Il punto 99 elenca informazioni che, per natura, sono direttamente collegate all'attuazione dell'accordo verticale e necessarie per migliorare la produzione o la distribuzione. Tra queste rientrano:

  • Informazioni tecniche: relative ai beni o servizi oggetto del contratto, necessarie per la conformità a misure normative e per adeguare i beni o servizi alle esigenze del cliente.
  • Informazioni logistiche: relative alla produzione e distribuzione dei beni o servizi sui mercati a monte o a valle.
  • Informazioni sui clienti: concernenti gli acquisti, le preferenze e le reazioni dei clienti, purché non limitino il territorio o i clienti ai quali l’acquirente può vendere.
  • Informazioni sui prezzi di vendita: praticati dal fornitore/produttore all’acquirente per i beni o servizi oggetto del contratto.
  • Informazioni sui prezzi di rivendita: relative ai prezzi di rivendita raccomandati o massimi e ai prezzi ai quali l’acquirente rivende i beni o servizi, purché non limitino la capacità dell’acquirente di stabilire il suo prezzo di vendita.
  • Informazioni sulla commercializzazione: relative alla commercializzazione dei beni o servizi oggetto del contratto.
  • Informazioni sui risultati: relative alle attività di commercializzazione e vendita di altri acquirenti dei beni o servizi oggetto del contratto.

Il punto 100 elenca informazioni che è generalmente improbabile che soddisfino tali condizioni. Ossia:

  • Informazioni sui prezzi futuri: relative ai prezzi futuri ai quali il fornitore o l’acquirente intende vendere i beni o servizi sul mercato a valle.
  • Informazioni su utenti finali identificati: a meno che non siano necessarie per soddisfare le richieste di un particolare utente finale o per attuare o monitorare la conformità a un accordo di distribuzione selettiva o esclusiva.
  • Informazioni su beni a marchio proprio venduti da un acquirente: scambiate tra l’acquirente e un fabbricante di beni di marca concorrenti, a meno che il fabbricante non sia anche il produttore di tali beni a marchio proprio.

I sopra citati punti devono essere utilizzati, da parte degli operatori del settore, quale strumento per comprendere i limiti entro i quali gli scambi di informazioni possono avvenire senza incorrere in violazioni antitrust nel contesto di accordi verticali intercorsi tra soggetti anche solo potenzialmente concorrenti.

Sebbene le illustrazioni fornite dalla Commissione possano offrire una guida parzialmente utile per il fornitore che intende conformarsi ai requisiti stabiliti nell’art. 2, paragrafo 5, la distinzione tra le informazioni che possono essere condivise e quelle che non possono esserlo necessita di una valutazione caso per caso. In linea di principio, si può affermare che queste ultime sono rappresentate da quei dati che, una volta condivisi, conferiscono a una parte, potenzialmente in concorrenza con il proprio contraente, la capacità di penetrare il mercato sfruttando un vantaggio competitivo non in linea con i principi della concorrenza europea.

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3. Intermediatori online che svolgono una funzione ibrida.

 

Un ulteriore aspetto, esplorato nei contesti di concorrenza tra soggetti che operano a livelli di mercato differenti e che è specificamente correlato alle vendite online, concerne i rapporti verticali con fornitori di servizi di intermediazione online.

Concretamente, ci si riferisce alle dinamiche che si instaurano tra un fornitore e un intermediario di servizi online, vale a dire una piattaforma che facilita la vendita di prodotti o servizi.

In tali rapporti, che sono categorizzati come accordi verticali dal momento che la piattaforma agisce come mediatore dei prodotti del produttore, si inserisce l'art. 2, paragrafo 6, del regolamento che stabilisce:

le deroghe menzionate al paragrafo 4, lettere a) e b), non si applicano agli accordi verticali relativi alla fornitura di servizi di intermediazione online nel caso in cui il fornitore di tali servizi sia un'impresa concorrente nel mercato rilevante per la vendita dei beni o servizi oggetto dell'intermediazione.”

In sostanza, la normativa identifica una situazione in cui una piattaforma online esercita una cosiddetta "funzione ibrida",[4] agendo sia come intermediario per le vendite del fornitore sia promuovendo la vendita dei propri prodotti o servizi, che entrano in concorrenza con i prodotti intermediati. In questo contesto, le esenzioni previste dalle lettere a) e b) dell'art. 2, paragrafo 4, del regolamento, non sono applicabili, considerando che ci si trova in una situazione in cui gli intermediari potrebbero avere l'interesse di favorire le proprie vendite, così come la capacità di influenzare l'esito della concorrenza tra le imprese che utilizzano i loro servizi di intermediazione online.[5]

Anche se il testo normativo citato non è di facile lettura, possiamo cercare di semplificarlo, lontani dal volerlo banalizzare, sottolineando che, nuovamente, è fondamentale esaminare l'effettivo rapporto concorrenziale che si instaura tra i contraenti. In particolare, se l'intermediario online non svolge solo il ruolo di intermediario, ma anche di potenziale concorrente sulla stessa piattaforma che fornisce come spazio per la vendita dei prodotti dei contraenti, ci troveremmo chiaramente in una situazione di concorrenza effettiva tra soggetti operanti sullo stesso piano distributivo e quindi di un rapporto non esentato dal regolamento in esame.

Come verrà esaminato più approfonditamente nel successivo paragrafo, nel contesto dell'intermediazione ibrida (analogamente alla duplice distribuzione), la concorrenza da parte della piattaforma non deve necessariamente manifestarsi in modo effettivo; è sufficiente anche una concorrenza potenzialmente percepibile. In questo senso, basta che il fornitore dei servizi di intermediazione online, entro un periodo di tempo relativamente breve (solitamente non superiore a un anno), intraprenda gli investimenti aggiuntivi necessari o sostenga altri costi indispensabili per accedere al mercato rilevante per la vendita dei beni o servizi oggetto dell’intermediazione.[6]

È fondamentale evidenziare che l’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 6, del regolamento (UE) 2022/720 presuppone che l’accordo verticale, stipulato dal fornitore di servizi di intermediazione online che svolge una funzione ibrida, non sia classificabile come un accordo di agenzia commerciale, il quale non rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 101.[7]

Leggi anche: Ma le piattaforme online sono agenti di commercio?

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4. Rischi associati alla concorrenza potenziale.

Importante sottolineare che la concorrenza non deve necessariamente essere effettiva, bensì è sufficiente che sia anche solamente potenziale. L'art. 1, lettera c) del regolamento definisce quale “impresa concorrente” un soggetto che opera in concorrenza sia effettiva che potenziale. Un concorrente effettivo è un'impresa che opera sullo stesso mercato rilevante, mentre un concorrente potenziale è un'impresa che, in assenza dell'accordo verticale, avrebbe realisticamente la possibilità di entrare nel mercato rilevante in breve tempo, sostenendo gli investimenti e i costi necessari.

Gli Orientamenti, poi, declinano ulteriormente questa definizione.[8] Sottolineano che la valutazione della concorrenza potenziale deve basarsi su considerazioni realistiche, tenendo conto della struttura del mercato e del contesto economico e giuridico. Non è sufficiente una semplice possibilità teorica di ingresso in un mercato; deve esserci una possibilità reale e concreta, senza barriere insormontabili all'ingresso. In ogni caso, non è necessario dimostrare con certezza che l'impresa entrerà effettivamente nel mercato rilevante e manterrà la propria posizione.

Per valutare se un'impresa, assente da un mercato, sia in concorrenza potenziale con imprese presenti su tale mercato, è necessario esaminare se esistano possibilità reali e concrete che tale impresa possa integrare il mercato e competere con le altre. Questo criterio esclude la possibilità di stabilire una concorrenza potenziale basata su mere ipotesi o volontà non supportate da azioni concrete e preparatorie.[9]

La valutazione dell’esistenza di una concorrenza potenziale deve essere effettuata alla luce della struttura del mercato e del contesto economico e giuridico che ne disciplina il funzionamento. Valutare la concorrenza potenziale implica un esame accurato della struttura e del contesto del mercato, considerando diversi fattori chiave e dinamiche operative. Di seguito, un elenco di alcune aree fondamentali e punti da esplorare durante tale valutazione:

  • Struttura e contesto del mercato: la prima fase della valutazione implica un'analisi attenta del mercato e del suo funzionamento, osservando non solo la distribuzione attuale delle imprese e la loro quota di mercato, ma anche le dinamiche, le tendenze e i modelli commerciali prevalenti.
  • Vincoli normativi e proprietà intellettuale: la presenza di ostacoli normativi e di diritti di proprietà intellettuale, come brevetti e marchi, necessitano di un esame scrupoloso, in quanto possono creare barriere all'ingresso o altrimenti influenzare la capacità delle nuove entrate di competere in maniera effettiva sul mercato. La proprietà intellettuale può, infatti, restringere l'accesso a tecnologie o conoscenze cruciali e, pertanto, alterare la dinamica concorrenziale.
  • Determinazione e capacità di ingresso nel mercato: la valutazione deve estendersi alla volontà e alla capacità di un'impresa di penetrare il mercato. Ciò implica l'analisi delle risorse, competenze e strategie che l'impresa può mobilizzare per entrare nel mercato, nonché la sua risoluzione nel superare eventuali barriere. Le decisioni strategiche, gli investimenti e gli asset dell'impresa sono pertanto cruciali per valutare la potenziale incidenza competitiva.
  • Misure preparatorie e strategie d'ingresso: è altresì fondamentale osservare quali passi concreti sono stati intrapresi dall'impresa per prepararsi a entrare nel mercato. Questo potrebbe includere lo sviluppo o l'acquisto di prodotti, la richiesta di certificazioni o autorizzazioni pertinenti, e l'elaborazione di piani di marketing e distribuzione. Un'analisi dettagliata delle iniziative e delle operazioni previste o già in corso può fornire uno spaccato delle reali intenzioni e capacità dell'impresa.
  • Elementi supplementari che corroborano la concorrenza Potenziale: altri fattori possono offrire indicazioni addizionali sulla determinazione di un'impresa nel costituire una forza concorrenziale. Ad esempio, la formazione di accordi con altre imprese, specialmente se precedentemente non erano attive nel mercato di interesse, può essere indice della fattibilità delle loro intenzioni e potenzialità di competere efficacemente.

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5. Ammende, sanzioni e iniziative processuali

Eventuali non conformità alla normativa antitrust possono essere accertate non solo dalla Commissione e dall’Autorità nazionale competente in materia, sia su iniziativa propria che su segnalazione di terzi, ma possono anche essere portate all'attenzione dei giudici ordinari da parte dell’altro contraente o di terzi che ritengono di aver subito un danno a causa di condotte anticoncorrenziali.

Per quanto riguarda le ammende, la Commissione ha stabilito una soglia significativa, che può raggiungere il 10% del fatturato annuale totale realizzato nell'ultimo esercizio sociale dall'impresa sanzionata. Ciò è dovuto al fatto che l’ammenda deve avere un “effetto sufficientemente dissuasivo, allo scopo non solo di sanzionare le imprese in causa (effetto dissuasivo specifico), ma anche di dissuadere altre imprese dall'assumere o dal continuare comportamenti contrari agli articoli 101 e 102”.[10]

Analogamente, la legislazione nazionale[11] conferisce all’Autorità il potere di imporre sanzioni pecuniarie in presenza di condotte illecite di particolare gravità, che non hanno “natura di misura patrimoniale civilistica (...) bensì di sanzione amministrativa con connotati punitivi (affini a quelli della sanzione penale).”[12]

Riguardo alle iniziative processuali che possono essere intraprese da parte dell’altro contraente o da terzi, queste includono l'accertamento di una violazione, la dichiarazione di nullità del rapporto contrattuale, azioni per ottenere il risarcimento del danno e l'adozione di misure cautelari. In questi casi, non esistono limiti massimi predeterminati per il risarcimento; la quantificazione del danno sarà piuttosto determinata caso per caso, in base ai principi generali di risarcimento stabiliti dalla normativa applicabile alla singola situazione.

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[1] Regolamento (UE) 2022/720; Regolamento (CE) n. 330/2010: Regolamento (CE) n. 2790/1999.

[2] Punto (48) e (91) degli Orientamenti sulle restrizioni verticali.

[3] Orientamenti sulle restrizioni verticali (2022/C 248/01).

[4] Punto (104) degli Orientamenti.

[5] Punto (105) degli Orientamenti.

[6] Punto (106) degli Orientamenti.

[7] Punto (72) Orientamenti della Commissione.

[8] Punto (90) degli Orientamenti.

[9] Sentenze del 30 gennaio 2020, Generics (UK) e altri/Competition and Markets Authority, causa C-307/18, EU:C:2020:52, punti da 36 a 45;

[10] cfr. Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003.

[11] (art. 15 Legge 287/1990).

[12] Consiglio di Stato, sentenza n. 1671 del 2001.


indennità di fine rapporto

Concessione di vendita e indennità di fine rapporto. La nuova normativa del settore auto (e in Germania come funziona?)

L'indennità di fine rapporto per distributori o concessionari di vendita in Italia è stata oggetto di recenti sviluppi legislativi, che hanno determinato cambiamenti di notevole importanza.

La legge recentemente introdotta nel settore della distribuzione di autoveicoli stabilisce un diritto "innovativo" a un equo indennizzo per i distributori autorizzati e una durata contrattuale minima di cinque anni per i contratti a termine, così come un preavviso di ventiquattro mesi per i contratti a tempo indeterminato.

Nonostante l'interpretazione della norma e la determinazione dell'importo dell'indennità di fine rapporto presentino ancora significative complessità, in attesa di ulteriori sviluppi normativi e giurisprudenziali, il modello tedesco, che da anni la riconosce in tutti i settori commerciali, potrebbe fornire interessanti indicazioni.

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1. Introduzione. Risarcimento del danno e indennità.

Sino a pochi mesi fa, nel panorama giuridico italiano, l'indennità di fine rapporto nei contratti di concessione di vendita era privo di ogni regolamentazione normativa e la giurisprudenza è restata salda ed unanime nel ritenere che alcun indennità  debba essere riconosciuta al concessionario per la clientela da questi apportata, escludendo così un’applicazione analogica delle disposizioni in ambito di agenzia.

Nell'Ordinamento giuridico italiano, alla chiusura del rapporto contrattuale, gli interessi del concessionario sono erano principalmente tutelati nell'ambito di una valutazione della legittimità e/o congruità del recesso o dello scioglimento del contratto, tramite una stima degli utili che il concessionario avrebbe potuto ricevere se il contratto fosse stato adempiuto sino alla sua naturale scadenza. Lo strumento utilizzato è quello del risarcimento del danno, calcolato nella perdita dell'utile atteso e nell'assorbimento dei costi inerenti all'organizzazione e alla promozione delle vendite, nonché agli investimenti intrapresi confidando nella prosecuzione contrattuale.[1]

Il risarcimento non è invece inteso a ricompensare il concessionario per il lavoro svolto nel costruire una base di clienti, così come di fatto previsto nei rapporti di agenzia all’art. 1751 c.c.

Il recesso dal contratto di concessione di vendita e/o distribuzione. Breve analisi.

Così che, per i contratti a tempo determinato, è escluso il recesso unilaterale dal rapporto (salvo che questo non sia stato espressamente pattuito dalle parti) e la chiusura del contratto può realizzarsi unicamente in caso di grave inadempimento.[2]

Diversamente, per i contratti a tempo indeterminato, è consentito il recesso unilaterale, anche in assenza di un inadempimento, purché si fornisca un congruo preavviso.[3] Nel caso in cui le parti non avessero concordato un preavviso, lo stesso deve essere valutato facendo riferimento agli interessi del soggetto che “subisce” il recesso, dovendo il recedente concedere un termine che possa permettere di prevenire, almeno parzialmente, gli effetti negativi derivanti dall’interruzione del rapporto;[4] il concessionario dovrà avere la possibilità di recuperare una parte degli investimenti compiuti (ad es. lo smaltimento delle rimanenze di magazzino), mentre il concedente avere tempo sufficiente per potere riacquistare le merci ancora giacenti presso il concessionario, così da poterle reinserire nel circuito distributivo.[5]

Qualora le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso si discute se il giudicante possa svolgere valutazioni sulla sua congruità; la giurisprudenza maggioritaria ritiene che questo termine anche se breve, debba essere rispettato, e che il giudice non debba valutare la sua adeguatezza.[6]

Si deve tuttavia citare un caso in cui la Corte di Cassazione, in una sentenza del 18 settembre 2009 proprio nel settore automotive,[7] ha affrontato una controversia tra un'associazione di ex concessionari di auto e Renault; in particolare, la casa produttrice era receduta dai contratti con i concessionari, riconoscendo il preavviso contrattuale, pari a dodici mesi. I concessionari hanno ritenuto il recesso abusivo e la corte ha accolto le domande dei ricorrenti, stabilendo che il giudice può valutare se il diritto di recesso è stato esercitato in buona fede o se ne è stato fatto un uso abusivo, basandosi sul criterio della buona fede oggettiva, considerata il riferimento fondamentale per la condotta delle parti.

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2. La novella in tema di distribuzione di autoveicoli.

In questo contesto, si inserisce la nuova normativa, introdotta per il settore della distribuzione automobilistica con la Legge n. 108 del 5 agosto 2022, poi aggiornata dalla Legge n. 6 del 13 gennaio 2023.

In particolare, l’art. 2 regolamenta specificamente la durata del contratto, prevedendo che:

  • se il rapporto è a tempo determinato, la durata minima dello contratto è pari a cinque anni, con obbligo di ciascuna parte di comunicare in forma scritta, almeno sei mesi prima della scadenza, l'intenzione  di  non procedere alla rinnovazione dell'accordo, a pena di inefficacia della comunicazione;
  • quanto ai rapporti a tempo indeterminato, il termine di preavviso scritto fra le parti per il recesso è di ventiquattro mesi.

Viene poi introdotto all’art. 3 della Legge, un obbligo in capo al costruttore o importatore di fornire al concessionario, prima della conclusione dell’accordo, nonché in caso di successive modifiche dello stesso, tutte le informazioni di cui sia in possesso, che risultino necessarie a valutare consapevolmente l’entità degli impegni da assumere e la sostenibilità degli stessi in termini economici, finanziari e patrimoniali, inclusa la stima dei ricavi marginali attesi dalla commercializzazione dei veicoli.

L’art. 4 poi introduce un “rivoluzionario” (almeno per il diritto italiano) obbligo del costruttore o importatore, che recede dall’accordo prima della scadenza contrattuale, di corrispondere al distributore autorizzato un equo indennizzo, che deve essere parametrato sulla base:

  1. degli investimenti che questo ha in buona fede effettuato ai fini dell'esecuzione dell'accordo e che non siano stati ammortizzati alla data di cessazione dell'accordo;
  2. dell'avviamento per le attività svolte nell'esecuzione degli accordi, commisurato al fatturato del distributore autorizzato negli ultimi cinque anni di vigenza dell'accordo.

L’indennizzo di cui al comma 4 non è dovuto nel caso di risoluzione per inadempimento o quando il recesso sia chiesto dal distributore autorizzato.

Da ultimo l’art. 5-bis della norma, dispone espressamente che le disposizioni di cui ai commi da 1 a 5 sono “inderogabili”.

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3.     Alcuni spunti sulla nuova normativa.

Ad oggi non si riscontrano precedenti giurisprudenziali che permettano di dare un’interpretazione del dettato normativo, che per ora resta molto generico e di difficile declinazione pratica.

In attesa di uno sviluppo giurisprudenziale, si sollevano brevemente quelle che sono le maggiori criticità che si rilevano anche da una semplice lettura del testo di legge, con particolare riguardo a due aspetti, ossia:

  • la durata del contratto e
  • la quantificazione dell’equo indennizzo.
3.1.  Durata del contratto e rinnovo automatico.

Se il contratto è stato stipulato a tempo determinato, sembrerebbe che lo stesso, in caso di mancata disdetta di una delle parti entro il termine di sei mesi dalla data di chiusura, si rinnovi automaticamente del medesimo periodo per cui era stato stipulato.

Si può giungere a questa “affrettata” conclusione, da una semplice lettura del testo che parla appunto di “rinnovo” e non tanto di trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, come invece previsto ad esempio nei rapporti di agenzia (cfr. art. 1750 c.c.). Chiaro trattarsi di una questione di rilevantissimo impatto pratico, posto che il rinnovo del contratto, se effettivamente automatico, comporta il prolungamento del rapporto per un periodo non inferiore a cinque anni, essendo questo il termine minimo fissato dalla normativa.

Tale elemento ha una rilevanza assai importante anche sull’eventuale diritto del concessionario all’equo indennizzo, che si ricorda non essere dovuto solamente nel caso di inadempimento del concessionario, ovvero di suo recesso. Se passa, come è più che verosimile aspettarsi, la teoria del rinnovo automatico del contratto, l’indennizzo sarà riconosciuto al concessionario anche nel caso in cui lo stesso dichiara di non volere rinnovare l’accordo prima della sua scadenza, non trattandosi tecnicamente di vero e proprio recesso. Parimenti, sarà verosimilmente dovuto l’indennizzo anche se le parti concordano di terminare il rapporto contrattuale.

Trattandosi poi di una norma inderogabile quella dell’indennizzo, si pone la problematica, così come in tema di agenzia, se una eventuale rinuncia prima dello scioglimento del rapporto possa essere ritenuta valida, oppure se la stessa sia efficace unicamente se concordata dalle parti una volta che il contratto è terminato.

Leggi anche: Quali rinunce e transazioni possono essere impugnate dall'agente di commercio.

3.2 Equo indennizzo.

Quanto alla quantificazione dell’equo indennizzo, come si è visto, la norma richiama due parametri molto generici, ossia:

  1. gli investimenti effettuati in buona fede da parte del concessionario e non ammortizzati alla data di cessazione dell'accordo;
  2. l'avviamento dell’attività commerciale, commisurato al fatturato sviluppato dal distributore nel corso degli ultimi cinque anni di vigenza dell'accordo.

In primo luogo, si fa presente che non sembra trattarsi di una applicazione analogica dei principi previsti in tema agenzia, posto che nessuno dei due requisiti fa riferimento alcuno alla clientela da questi apportata e agli affari sviluppati con quella già acquisita, così come disposto dallart. 1751 c.c.

La lettera a) dell’articolo 4 fa appunto riferimento ad investimenti effettuati in buona fede, in maniera del tutto staccata da quello che è stato l’apporto di clientela e lo sviluppo degli affari che il concessionario è riuscito a sviluppare nel corso del rapporto.

La scelta fatta dal legislatore, sembra volere dare più peso all’esecuzione del rapporto secondo buona fede, che impone da una parte al concedente di agire in modo da preservare gli interessi del concessionario e così non pretendere, o comunque spingere irragionevolmente, il concessionario ad effettuare degli investimenti sproporzionati alla tipologia e durata del contratto e, dall’altro lato, al concessionario di vedersi indennizzato solamente investimenti non ammortizzati, effettuati sulla base di un principio di buona fede.

Con riferimento invece al punto b) dell’art. 4, il legislatore fa un generico riferimento all’avviamento del concessionario, senza che venga data alcuna rilevanza, ancora una volta, ai vantaggi che il concessionario ha apportato al concedente e che lo stesso gode a seguito della chiusura del rapporto.

Inoltre, viene effettuato un generico richiamo al “fatturato del concessionario” nel corso degli ultimi cinque anni del rapporto; è chiaro trattarsi di un dato assai generico, di per sé staccato da quello che è il margine o il profitto del concessionario stesso e di per sé non necessariamente collegato ai clienti procurati dal concessionario durante la durata del contratto.

Il riferimento temporale di cinque anni, sembrerebbe richiamare il periodo di analisi applicato agli agenti di commercio, all’art. 1751 c.c., con l’unica (ma enorme) distinzione, che in tal caso si fa riferimento alla media provvigionale sviluppata dall’agente in tale intervallo.

3.3. Norme inderogabili e/o di applicazione necessaria?

Come si è avuto modo di vedere, l'art. 5-bis della nuova legge attribuisce espressamente alle nuove disposizione in tema di distribuzione automotive carattere inderogabile.

In tale ambito, sorge una questione rilevante, inerente l'applicazione del Regolamento Roma I (Regolamento CE n. 593/2008) alla nuova normativa. In particolare, ci si chiede se tali disposizioni possano essere considerate "norme di applicazione necessaria" ai sensi dell'articolo 9 del suddetto Regolamento, anche note come norme "internazionalmente imperative".

Secondo questa disposizione, le norme di applicazione necessaria sono norme giuridiche che un Paese ritiene cruciali per salvaguardare i propri interessi pubblici, come la sua organizzazione politica, sociale o economica. In determinati casi, i legislatori nazionali possono decidere di attribuire ad alcune delle loro norme imperative un carattere ancora più forte, disponendo che esse non possono essere derogate neppure sottoponendo il contratto ad una legge straniera.  Questo significa che, nonostante la scelta contrattuale di applicare una legge diversa, un tribunale potrebbe essere tenuto ad applicare tali disposizioni se ritiene essere per l’appunto di “applicazione necessaria”, in quanto cruciali per salvaguardare gli interessi pubblici dell'Italia.

Ci si deve quindi interrogare (in attesa di un adeguato sviluppo giurisprudenziale e legislativo), se le nuove disposizione sulla distribuzione automotive debbano ritenersi non solo inderogabili (ex art. 5-bis) a livello nazionale, ma anche internazionale, ex art. 9 del Regolamento Roma I.

Proprio in ambito di concessione di vendita, un esempio di norma di applicazione necessaria è rappresentato dalla legge belga del 27 luglio 1961, che all'articolo 4 impone l'applicazione internazionalmente inderogabile di tale norma in caso di controversie relative alla risoluzione di contratti di concessione eseguiti in Belgio, indipendentemente dalla legge contrattualmente scelta dalle parti. [7a]

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4. L'indennità del concessionario nel sistema tedesco.

Nell'attesa di uno sviluppo giurisprudenziale che affini e indirizzi gli operatori ad interpretare la nuova normativa, è interessante analizzare come funziona un sistema vicino al nostro, che riconosce tale indennità da diverse decine di anni; il tutto senza la pretesa di essere giuristi tedeschi, ma con la semplice intenzione di fornire al lettore una panoramica generale di suddetto modello.

4.1. I presupposti del diritto all'indennità del concessionario.

In Germania, la giurisprudenza da anni applica analogicamente i principi dell'indennità in materia di agenzia, regolati dal § 89b HGB (Handelsgesetzbuch), anche al concessionario. La disposizione in questione è il corrispettivo tedesco dell'articolo 1751 c.c., entrambi riformati per attuare la direttiva europea relativa all'agenzia commerciale del 1986.[8]

Affinché l'indennità possa essere riconosciuta, la giurisprudenza tedesca richiede il soddisfacimento dei seguenti presupposti:

  1. il contratto non deve essere sciolto dal preponente a causa di gravi inadempienze dell'agente, ovvero dall'agente senza giustificati motivi, oppure vi sia stata una cessione dei diritti e degli obblighi del contratto a un terzo;
  2. il concessionario deve essere integrato all'interno della rete di distribuzione del concedente;
  3. deve essere avvenuto un trasferimento della lista clienti.
4.1.1. Scioglimento del rapporto.

La giurisprudenza tedesca applica in via analogica i principi in tema di agenzia, per cui l'indennità ha lo scopo di compensare l'agente dei vantaggi che vengono trasferiti al preponente a seguito della chiusura del contratto, non potendo l'agente più beneficiare dei rapporti che ha stabilito o sviluppato con i propri clienti.

L'indennità, quindi, mira da un lato a compensare le perdite provvigionali subite dall’agente a causa della chiusura del rapporto, d'altro lato ha lo scopo di fornire all'agente un compenso per i vantaggi che derivano dai clienti acquisiti e/o sviluppati dall’agente. Prerequisito per la richiesta di indennità, staiblito dal comma 3 del § 89b HGB, è il fatto che il contratto non sia stato sciolto dal preponente per gravi inadempienze dell'agente, dall'agente senza giustificati motivi, ovvero per cessione dei diritti e obblighi del contratto a un terzo.

La giurisprudenza tedesca, seppure la legge non lo regolamenta espressamente, ha ritenuto che l'indennità sia dovuta in caso chiusura del rapporto per mutuo dissenso, indipendentemente da chi abbia per primo proposto la terminazione consensuale del rapporto.[9]

Questi criteri, vengono fedelmente applicati anche ai contratti di concessione di vendita, ivi incluso lo scioglimento consensuale del rapporto.[10] Pertanto, anche in caso di risoluzione consensuale del contratto, il rivenditore autorizzato avrà diritto a un'indennità, a condizione che siano soddisfatti gli altri requisiti, ossia l'integrazione nella rete di distribuzione del produttore e l'obbligo di trasferire la clientela.

4.1.2. Integrazione all’interno della rete.

Per quanto riguarda il requisito di integrazione all'interno della rete di distribuzione, è importante sottolineare che il rapporto commerciale non si limita a una semplice relazione tra un venditore e un cliente abituale, essendo necessaria una forma più approfondita di collaborazione che costituisca un vero e proprio accordo di distribuzione integrata.

Ciò implica che il rivenditore autorizzato sia coinvolto attivamente nel sistema di distribuzione del produttore, così che la richiesta di indennizzo è rivolta a compensare il concessionario non solo per la perdita dei vantaggi derivanti dai rapporti con i clienti, ma anche per il contributo attivo alla rete di distribuzione del produttore.

Leggi anche: Concessione di vendita, distributore o cliente abituale?

La giurisprudenza tedesca[11] nel tempo ha sviluppato alcuni esempi situazioni che possano determinare, o comunque portare a ritenere che vi sia una vera e propria integrazione nel sistema distributivo del concedente; qui di seguito se ne richiamano alcuni:

  • essere riconosciuto come rivenditore autorizzato;
  • conferire al produttore/concedente l'autorizzazione ad accedere ai locali commerciali e di stoccaggio in qualsiasi momento;
  • essere soggetto a obblighi di acquisto minimi dei prodotti contrattuali;
  • avere l'obbligo di stoccare le merci in magazzino;
  • creare e supervisionare officine autorizzate nel territorio del contratto;
  • fornire servizi di assistenza e riparazione ai clienti;
  • ricevere formazione da parte del produttore/concedente;
  • valorizzare, conservare e mantenere il marchio del produttore;
  • seguire le linee guida e le raccomandazioni del produttore per le vendite;
  • avere la possibilità di vendere i prodotti del produttore al di fuori del territorio contrattuale;
  • essere assegnato a un territorio contrattuale specifico, anche in assenza di esclusiva territoriale.
4.1.3. Il trasferimento dei clienti.

Un altro requisito fondamentale affinché il concessionario o il rivenditore abbia diritto all'indennità di fine rapporto è che vi sia stato un trasferimento dei dati dei clienti.

Secondo la giurisprudenza tedesca,[12] non è indispensabile che il trasferimento della lista clienti sia esplicitamente previsto nel contratto, ma può derivare implicitamente come un obbligo o essere una pratica adottata dalle parti (ad es. se il concessionario invia i nominativi dei clienti al produttore per la gestione delle garanzie o per altri scopi legati all'assistenza post-vendita).

Questo trasferimento della lista clienti è un elemento cruciale perché permette al produttore di mantenere e sviluppare la relazione con i clienti acquisiti dal concessionario anche dopo la chiusura del rapporto con il concessionario o rivenditore.

4.2. Il calcolo dell'indennità.

La quantificazione dell'indennità deve essere effettuata considerando i seguenti parametri:

  1. vantaggi per il produttore: occorre valutare se il concessionario ha acquisito nuovi clienti o consolidato quelli esistenti, come previsto dal § 89b HGB (e dall'art. 1751 c.c.), tramite un'analitica prognosi dei vantaggi derivanti dai clienti acquisiti. Spetta al concessionario fornire la prova degli sviluppi per ogni singolo cliente, non essendo sufficiente la produzione di una semplice lista dei clienti che il concessionario ha acquisto o sviluppato nel corso del rapporto.[13] La stima deve poi basarsi sui risultati degli ultimi cinque anni, in applicazione analogica del § 89b HGB;
  2. la quantificazione dei vantaggi deve avvenire in modo "equo", valutando le perdite subite dal concessionario a seguito della chiusura del rapporto. Applicando analogicamente la disciplina dell'agenzia commerciale, le perdite da considerare devono essere di natura "provvigionale". Benché, come è noto, il concessionario non viene retribuito tramite provvigioni, bensì marginalizza sulla scontistica che a questo è riconosciuta dal concedente, per potere applicare analogicamente i principi in tema di agenzia, bisogna calcolare quelle che sarebbero state le provvigioni che il produttore avrebbe pagato a un agente commerciale sulla base del fatturato effettuato dal concessionario, se la distribuzione fosse avvenuta tramite un'agenzia e le vendite fossero state realizzate in questo modo.

In questo contesto, per effettuare il calcolo delle indennità e per cerare di “provvigionalizzare” i ricavi del concessionario, bisogna detrarre dalla scontistica a questi riconosciuta, tutte quelle componenti remunerative tipiche del concessionario ed estranee all’agente. A titolo esemplificativo: le spese per il personale e le attrezzature dell'attività, per la pubblicità, la presentazione dei prodotti, l'assunzione dei rischi di vendita, di fluttuazione dei prezzi, di credito o del valore equivalente, etc.[14]

Il limite dell'indennità corrisponde alla media degli ultimi cinque anni.[15] È importante sottolineare che si tratta delle provvigioni che il concessionario avrebbe ottenuto, non del fatturato generato dal concessionario. Si tratta di un elemento particolarmente importante poiché sposta il focus d’analisi dal volume totale di affari del concessionario, per concentrarsi invece sulle effettive entrate nette.

Tale approccio tiene conto del reale vantaggio economico del concessionario, piuttosto che basarsi su una cifra generica che potrebbe non riflettere accuratamente la sua posizione commerciale. Questa distinzione assicura che l'indennità sia calcolata in modo più preciso e veritiero, riflettendo l'effettivo guadagno del concessionario piuttosto che l'ammontare totale delle vendite realizzate.

L'indennità viene poi calcolata sulla base di tali vantaggi, seguendo un approccio simile a quello utilizzato nell'agenzia.

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[1] Sul punto, cfr. Venezia, Il contratto di agenzia, 2016, pag. 140, Giuffrè.

[2] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET.

[3] Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, Vol. II, Bortolotti, 2007, pag. 42, CEDAM; In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM.

[4] In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM; In giurisprudenza Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013.

[5] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET.

[6] Cfr. Trib. Torino 15.9.1989 (che ha considerato congruo un termine di 15 giorni); Trib. di Trento del 18.6.2012 (che ha considerato congruo un termine di 6 mesi per rapporto durato 10 anni); Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2022, pag. 659, Wolter Kluwer.

[7] Cass. Civ. 5.3.2009 “In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. […] L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre Cass. Civ. 2007 n. 3462)”

[7a] Sul punto, Bortolotti, Il contratto internazionale, pag- 47, 2012, CEDAM.

[8] Direttiva 86/653/CEE del Consiglio del 18 dicembre 1986 relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti.

[9] Sul punto confronta Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 599, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[10] BGH 23.7.1997 – VII ZR 130/96.

[11] BGH 8.5.2007 - KZR 14/04; BGH 22.10.2003 - VIII ZR 6/03; BGH 12.1.2000 – VII ZR 19/99; sul punto confronta anche Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 600, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[12] BGH 12.1.2000 - VIII ZR 19/99.

[13] BGH 26.2.1997 – VII ZR 272/95.

[14] Sul punto confronta anche Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 621, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[15] BGH 11.12.1996 – VII ZR 22/96.


Contratti di distribuzione

Quota di mercato superiore al 30% e impatti su contratti di distribuzione.

1. Inquadramento.

Come è noto, all’interno del mercato europeo, vige il principio del libero mercato.

L’art 101 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, ritiene essere incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno.

Il terzo comma dell’art. 101 prevede comunque un’esenzione a suddetto principio: restano validi gli accordi che, seppure restringano la concorrenza, contribuiscano a migliorare la produzione/distribuzione dei prodotti, ovvero il progresso tecnico o economico, a condizione che venga riservata per gli utilizzatori una congrua parte dell'utile che ne deriva.

Al fine di declinare suddetti principi e fornire agli operatori maggiore chiarezza, così da evitare che il libero mercato possa di fatto bloccare la strutturazione del commercio tramite la stipulazione di accordi tra privati, la Commissione ha emanato negli anni i c.d. regolamenti sugli accordi verticali, da ultimo il regolamento sulle vendite verticali entrato in vigore nel giugno del 2022, che persegue lo scopo di esentare, entro determinati limiti, gli accordi tra imprese operanti su diversi livelli della catena distributiva (tra cui rientra appieno il contratto di distribuzione) da un generale divieto di non concorrenza.

Al fine di chiarire la portata e i contenuti del regolamento di esenzione, la Commissione ha pubblicato, in concomitanza con l’entrata in vigore del Reg. 720/2022 le “Linee direttrici sulle restrizioni verticali” c.d. “Orientamenti”. Seppure si tratti di un testo estremamente autorevole, che gioca un ruolo fondamentale nell’interpretazione della normativa europea, non è vincolante per gli organi competenti a decidere. [1]

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2. La soglia del 30% e la zona di sicurezza del regolamento.

Il nuovo regolamento mantiene all’art. 3 l’esenzione per tutti gli accordi in cui sia fornitore che acquirente non superino il 30% delle quote nel mercato rilevante; del ché godono di una presunzione di liceità tutti quegli accordi verticali tra soggetti che non superino suddette soglie, a condizione che i contratti non contengano restrizioni fondamentali vietate dal regolamento (le c.d. hard-core restrictions di cui all’art. 4 del regolamento, che sono essenzialmente, in un sistema distributivo esclusivo, il divieto di imporre il prezzo di rivendita al distributore, divieto di effettuare vendite passive al di fuori del territorio e dei clienti esclusivo, il divieto assoluto dell’utilizzo di internet).

È molto importante sottolineare che il superamento della soglia del 30% non crea una presunzione di illegalità.

Lo scopo della soglia imposta dall’art. 3 del regolamento è istituire una “zona di sicurezza” e distinguere gli accordi che godono di una presunzione di legalità da quelli che richiedono una valutazione individuale. Il fatto che un accordo verticale non rientri nella “zona di sicurezza”, pertanto, non significa che lo stesso sia incompatibile con il mercato interno e, di conseguenza, vietato.[2]

Con l’introduzione della “zona di sicurezza” la Commissione ha voluto evitare che accordi potenzialmente più pericolosi (a causa del maggiore potere di mercato delle imprese interessate) potessero automaticamente beneficiare dell’esenzione, sfuggendo ad un controllo sui loro concreti effetti sul mercato. È quindi fondamentale accertare sei i singoli accordi superino suddetta quota di mercato, valutazione tutt’altro che agevole, considerando la difficoltà di individuare il mercato rilevante (di prodotto e geografico) su cui calcolare la suddetta quota di mercato e quelli che sono gli effettivi impatti su tale mercato dell’accordo stesso.

Al fine di comprendere come si possa identificare il mercato rilevante, mi richiamo a quanto già scritto nel precedente articolo. Brevissimamente, così da rendere operativa e più organica la presente analisi, il mercato rilevante è quello in cui:

  • tutti i prodotti e/o servizi sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell'uso al quale sono destinati”;
  • le imprese in causa forniscono o acquistano prodotti o servizi, [ove] le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee e [ove] può essere tenuta distinta dalle zone geografiche contigue perché in queste ultime le condizioni di concorrenza sono sensibilmente diverse.”

Quindi, il mercato di riferimento sul quale deve essere calcolata la quota di mercato non necessariamente coincide con un singolo territorio, ma può essere superiore o inferiore; a tal fine bisogna accertare se le imprese site in aree diverse rispetto a quello in cui il distributore effettua le proprie vendite, costituiscano realmente una fonte alternativa di approvvigionamento.

Quanto alle modalità di calcolo delle quote di mercato (del fornitore e dell’acquirente), l’art. 8 del Regolamento dispone che devono essere valutate sulla base dei dati inerenti all’esercizio precedente, in funzione dei dati relativi al valore delle vendite e degli acquisti, ovvero, qualora non presenti, sulla base di stime affidabili.

Se poi una quota di mercato non supera inizialmente la soglia del 30%, ma la oltrepassa successivamente, l’esenzione continua ad applicarsi per un periodo di due esercizi consecutivi a decorrere dall’anno in cui la soglia del 30% è stata superata per la prima volta.[3]

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3. Restrizioni per oggetto e per effetto.

Come si è anticipato all’inizio dell’articolo, l’art. 101 del Trattato qualifica come incompatibili con il mercato interno tutti gli accordi tra imprese che abbiano “per oggetto” o “per effetto” di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno.

Vi è quindi una distinzione netta tra la nozione di “restrizione per oggetto” e quella di “restrizione per effetto”, ciascuna soggetta ad un regime probatorio diverso.[4]

Esistono infatti accordi tra imprese che possono essere considerati, per loro stessa natura, dannosi per il buon funzionamento della concorrenza,[5] tant’è che ove presentino “restrizioni per oggetto”, non occorre ricercare né tanto meno dimostrare gli effetti negativi sulla concorrenza al fine di qualificarli come illeciti, in quanto determinano riduzioni della produzione e aumenti dei prezzi, a danno, in particolare, dei consumatori.[6]

Le c.d. “restrizioni della concorrenza per oggetto”, hanno carattere eccezionale, del che devono essere interpretate restrittivamente e quindi applicate ad un numero assai ristretto, riservato appunto a quegli accordi che presentano un grado di dannosità per la concorrenza tale da ritenere superfluo l’esame dei loro effetti sul mercato interno.[7]

Per i casi relativi alle “restrizioni per effetto”, devono essere valutati di volta in volta i singoli casi, prendendo in considerazione la natura e la quantità, limitata o no, dei prodotti oggetto dell’accordo, la posizione e l’importanza delle parti sul mercato dei prodotti di cui trattasi, il carattere isolato di tale accordo o, al contrario, la sua posizione in un complesso di accordi.[8]

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4. Valutazione delle singole clausole.

Ai fini della valutazione di un’eventuale revoca del beneficio dell’esenzione, bisogna determinare gli effetti preclusivi del mercato e indebolimento della concorrenza che i singoli accordi possono comportare sui consumatori, con conseguente aumento dei prezzi, limitazione della scelta dei beni, abbassamento della qualità dei beni e riduzione dell’innovazione o dei servizi al livello del fornitore.[9] Gli effetti negativi sul mercato che possono derivare da restrizioni verticali e che il diritto dell’Unione in materia di concorrenza è volto a prevenire sono:[10]

  • una preclusione anticoncorrenziale del mercato nei confronti di altri fornitori o altri acquirenti, a seguito della creazione di barriere all’ingresso o all’espansione;
  • l’indebolimento della concorrenza tra il fornitore e i suoi concorrenti (c.d. concorrenza inter-brand);
  • indebolimento della concorrenza tra l’acquirente e i suoi concorrenti (d. concorrenza intra-brand).

Da una brevissima analisi, si può evincere che gli accordi possono contenere al loro interno clausole contrattuali che determinano una riduzione della concorrenza sia all’interno del marchio (ossia la concorrenza tra i distributori di beni o servizi dello stesso fornitore), oppure sulla concorrenza tra marchi (ossia la concorrenza tra i distributori di beni o servizi di fornitori diversi).

In linea di principio, la Commissione ritiene essere più “pericolosi” e più incisive sulla concorrenza gli accordi che incidono sulla concorrenza tra marchi, rispetto a quelli che gravano sulla concorrenza all’interno dello stesso marchio: viene ritenuto essere improbabile che una riduzione della concorrenza all’interno del marchio (ossia intra-brand) possa determinare di per sé effetti negativi per i consumatori se la concorrenza tra i marchi (ossia inter-brand) è forte.[11]

Di tale elemento bisognerà certamente tenere conto nella valutazione delle singole clausole normalmente contenute all’interno di un contratto di distribuzione che hanno un impatto sulla concorrenza. Tra queste si possono elencare le principali, che sono quelle qui di seguito richiamate:

  • monomarchismo;
  • fornitura esclusiva;
  • attribuzione esclusiva di clientela;
  • divieto di vendita online.
4.1. Monomarchismo.

Il monomarchismo (si tratta di una traduzione della locuzione “single branding”), è una categoria in cui rientrano numerose clausole che impattano sul gioco della libera concorrenza, tra cui:

  • l'approvvigionamento esclusivo (con cui si obbliga l’acquirente ad acquistare unicamente prodotti contrattuali presso il fornitore);
  • obbligo di non concorrenza nel corso del rapporto (ove l’acquirente si impegna a non rivendere prodotti concorrenziali rispetto a quelli contrattuali);
  • imposizione di volumi minimi di acquisto.

In pratica, si tratta di una categoria che raggruppa gli accordi la cui principale caratteristica è di indurre l’acquirente a concentrare gli ordini di un particolare tipo di prodotto presso un unico fornitore.[12]

Tra le clausole qui sopra richiamate, solamente quella relativa all’obbligo di non concorrenza di fatto impatta su una concorrenza inter-brand che, se combinata con l’approvvigionamento esclusivo, potrà avrà un impatto ancora maggiore, sia su mercato inter-brand, che su quello intra-brand. In tale ipotesi, il distributore sarà appunto un distributore monomarca, che si obbliga ad acquistare i prodotti unicamente dal fornitore, impattando così sulla concorrenza sia all’intero del mercato contrattuale, che su quello concorrente.

4.2. Fornitura esclusiva.

La fornitura esclusiva si riferisce a restrizioni che obbligano o inducono il fornitore a vendere il prodotto oggetto del contratto soltanto o principalmente a un unico acquirente.

Si tratta quindi, della clausola speculare rispetto a quella di approvvigionamento esclusivo, posto che nella prima il fornitore/concedente si impegna a fornire (in un determinato mercato) solamente un acquirente e nella seconda, è il distributore che si obbliga ad approvvigionarsi unicamente presso il fornitore, senza che allo stesso venga necessariamente garantita un’esclusiva all’interno del mercato ove lo stesso opera.

Molto spesso (ma non sempre), le due clausole vanno di pari passo, così che ad un rapporto di distribuzione esclusiva si abbina un rapporto di approvvigionamento esclusivo.

In particolare, nei mercati in cui la distribuzione di un marchio viene riconosciuta con esclusiva ad uno o più distributori, vi sarà una riduzione della concorrenza all’interno del marchio stesso, che non necessariamente si riflette negativamente sulla concorrenza tra i distributori in generale.[13]

Quando un fornitore attribuisce un territorio molto vasto (ad esempio quello di uno Stato intero) ad un acquirente/distributore senza che vi siano restrizioni sulla vendita del mercato a valle, è improbabile che ci siano effetti anticoncorrenziali. Se del caso, gli stessi potranno essere compensati da vantaggi (ex art. 101, terzo comma) in termini di logistica e promozione, essendo l’acquirente particolarmente spinto ad investire sul marchio oggetto di concessione di vendita.[14]

4.3. Attribuzione esclusiva di clientela.

Con questa clausola vengono riconosciute in esclusiva le vendite dei prodotti contrattuali ad un unico acquirente/distributore ai fini della rivendita ad una determinata categoria o gruppo di clienti. Parimenti, spesso, al distributore vengono vietate le vendite attive ad altri clienti riconosciuti in via esclusiva ad altri acquirenti.

Anche questa clausola rientra tra quelle che hanno un impatto intra-brand, a condizione che la stessa non venga inserita in combinazione con altre clausole che di fatto impattano sulla concorrenza tra marchi concorrenti.

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5. Fattori rilevanti per la valutazione di accordi che superano la soglia di sicurezza.

Ora, nel caso di un rapporto di distribuzione, i cui contraenti superano la c.d. “soglia di sicurezza” del 30%, comprendere se suddette clausole possono beneficiare dell’esenzione, deve essere approfonditamente valutato di volta in volta tenuto conto di differenti elementi, così come degli impatti che tali accordi hanno sulla concorrenza, con la consapevolezza che la combinazione delle singole clausole tra loro incide in maniera più rilevante sulla concorrenza.

Per stabilire se un accordo verticale comporti una restrizione sensibile della concorrenza sono particolarmente rilevanti i seguenti fattori:[15]

  • la natura dell’accordo;
  • la posizione di mercato delle parti;
  • la posizione di mercato dei concorrenti (a monte e a valle);
  • la posizione di mercato degli acquirenti dei beni o servizi oggetto del contratto;
  • le barriere all’ingresso;
  • il livello della catena di produzione o di distribuzione interessato;
  • la natura del prodotto;
  • le dinamiche del mercato.

Chiaro è che, tanto maggiore sarà la quota di mercato dei contraenti (fornitore e acquirente) sui mercati di riferimento (a monte e a valle), tanto maggiore è la probabilità che sia elevato il loro potere di mercato. Ciò vale in particolare quando la quota di mercato riflette vantaggi in termini di costi o altri vantaggi competitivi rispetto ai concorrenti.[16]

Rilevante è altresì la posizione di mercato dei concorrenti. Nuovamente, quanto più forte e la posizione competitiva dei concorrenti e maggiore è il loro numero, tanto minore è il rischio di precludere il mercato ai concorrenti o indebolire la concorrenza.[17]

Se, ad esempio, l’accordo include clausole di monomarchismo e/o di fornitura esclusiva, ma i concorrenti sono sufficientemente numerosi e forti, la Commissione ritiene comunque improbabili la sussistenza di effetti anticoncorrenziali significativi: è inverosimile che i concorrenti vengano esclusi se essi detengono posizioni di mercato analoghe e possono offrire prodotti simili di qualità equivalente. Eventualmente si potrebbe verificare la preclusione del mercato nei confronti dei nuovi operatori potenziali se più fornitori importanti concludono parimenti accordi di monomarchismo con un numero significativo di acquirenti nel mercato rilevante.[18]

Quanto alle barriere all’ingresso, a livello dei fornitori, queste vengono commisurate in funzione della capacità delle imprese già insediate sul mercato di portare il loro prezzo al di sopra di quello concorrenziale senza provocare l’ingresso sul mercato di nuovi concorrenti.

Certo è che, nella misura in cui è relativamente facile per i fornitori concorrenti creare la propria rete di distribuzione integrata o trovare distributori alternativi per il loro prodotto, è nuovamente improbabile che vi sia un problema reale di preclusione, ivi prevedendo delle clausole di monomarchismo,[19] ossia clausole che impattano anche sulla concorrenza inter-brand. Del pari anche in caso di previsione di accordi di fornitura esclusiva, la presenza di barriere all’ingresso a livello dei fornitori, non dovrebbe creare problemi nella misura in cui per gli acquirenti concorrenti è riconosciuta contrattualmente la possibilità di servirsi presso fonti alternative e ciò è anche agevolmente realizzabile.[20]

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6. Valutazioni conclusive.

In pratica, non esiste una formula matematica che permette di individuare a priori se un accordo di distribuzione, che supera la quota del 30%, sia effettivamente esentato dal beneficio di categoria, posto che di volta in volta ciò dipende da numerosi fattori, tra cui la tipologia e il contenuto delle clausole contrattuali restrittive della concorrenza presenti al suo interno e degli impatti che queste hanno sul mercato di riferimento, che può essere più o meno competitivo.

Quindi, per comprendere se un accordo di distribuzione che supera la soglia di mercato del 30% possa comunque beneficiare dell’esenzione, è necessario analizzare la singola fattispecie, altresì utilizzando gli strumenti forniti dalla Commissione e qui sopra brevemente richiamati e riassunti. Semplificando (ma ben lontani dal volere banalizzare), gli elementi che maggiormente devono spingere i contraenti ad aumentare la soglia di attenzione sono:

  • le quote di mercato dalle stesse detenute;[21]
  • la valutazione delle singole clausole contenute all’interno dell’accordo, della loro combinazione e degli effetti che le stesse hanno sul mercato, tenuto conto che quelle che impattano sulla concorrenza inter-brand sono più rischiose rispetto a quelle che inficiano sulla concorrenza intra-brand;
  • l’effettivo stato concorrenziale del mercato e la posizione dei maggiori player.

Per concludere, si può ragionevolmente affermare che i contratti di distribuzione che non contengono le restrizioni fondamentali di cui all’art. 4 del regolamento, né tantomeno quelle di cui all’art. 5, possano essere esentati, nonostante siano stipulati tra parti con una quota di mercato abbastanza rilevante, qualora il mercato appaia sufficientemente concorrenziale.

Se si analizzano, infatti, clausole che hanno un impatto sulla concorrenza tra marchi (quindi obbligo di acquisto esclusivo e patto di non concorrenza), seppure queste clausole impediscono l’accesso al mercato ai concorrenti (al concessionario è vietato infatti rifornirsi e rivendere prodotti differenti da quelli contrattuali), in linea di principio le stesse potranno avere un impatto negativo sulla concorrenza se si dimostra che all’interno del mercato rilevante di riferimento non vi siano sufficienti soggetti che possano svolgere servizi analoghi (e quindi altri concessionario in grado di rivendere i prodotti concorrenti).

Circa invece l’esclusiva di vendita, la stessa, incidendo essenzialmente sulla concorrenza intra-brand, ove nel mercato di riferimento vi sia sufficiente concorrenza inter-brand, la clausola non dovrebbe creare particolari problemi di carattere antitrust, per i motivi qui sopra richiamati.

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7. Ammende e azioni ordinarie.

Eventuali difformità alla normativa antitrust non solo potranno essere accertate da parte della Commissione e dell’Autorità nazionale competente in materia – su istanza propria o su segnalazione di soggetti terzi – ma potranno essere sottoposte ai giudici ordinari su iniziativa dell’altro contraente o di soggetti terzi che lamentano che insinuate condotte anticoncorrenziali, comportano una lesione dei loro interessi.

Con riferimento alle ammende, la soglia prevista dalla Commissione è particolarmente elevata, ed è pari sino al 10% del fatturato annuale totale realizzato nel corso dell'esercizio sociale precedente dall'impresa sanzionata. Questo perché l’ammenda deve avere un “effetto sufficientemente dissuasivo, allo scopo non solo di sanzionare le imprese in causa (effetto dissuasivo specifico), ma anche di dissuadere altre imprese dall'assumere o dal continuare comportamenti contrari agli articoli 101 e 102”.[22]

Parimenti, la normativa interna,[23] riconosce all’Autorità il potere di imporre sanzioni pecuniarie ove la condotta illecita sia qualificata da gravità, che non hanno “natura di misura patrimoniale civilistica (…) bensì di sanzione amministrativa con connotati punitivi (affini a quelli della sanzione penale).[24]

Quanto alle azioni ordinarie sono quelle tipiche, ossia di accertamento di una violazione, di nullità del rapporto contrattuale, quelle volte ad ottenere il risarcimento del danno, così come ad ottenere una misura cautelare. In tal caso, non sono previsti delle soglie massime, ma la quantificazione del danno dovrà essere di volta in volta calcolato e valutato sulla base dei principi generali risarcitori previsti dalla normativa applicabile alla singola fattispecie.

 

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[1] Bortolotti, Contratti di distribuzione, Wolters Kluwer, 2022, pag. 775.

[2] Punto 48, Orientamenti.

[3] Art. 8 lett. d. del regolamento 2022/720.

[4] Sentenza del 30 gennaio 2020, Generics (UK) e a., C-307/18, EU:C:2020:52, punto 63

[5] Sentenza del 2 aprile 2020, Budapest Bank e a., C-228/18, EU:C:2020:265, punto 35 e giurisprudenza ivi citata.

[6] In tal senso, sentenza del 30 gennaio 2020, Generics (UK) e a., C-307/18, EU:C:2020:52, punto 64.

[7] In tal senso, sentenza del 2 aprile 2020, Budapest Bank e a., C-228/18, EU:C:2020:265, punto 54 e giurisprudenza ivi citata.

[8] In tal senso, sentenza 18.11.20221, Visma Enterprise, C-306/20, n. 75.

[9] Punto 19, Orientamenti.

[10] Punto 18, Orientamenti.

[11] Punto 21, Orientamenti.

[12] Punto 298, Orientamenti.

[13] Punto 21, Orientamenti.

[14] Punto 135, Orientamenti.

[15] Punto 278, Orientamenti.

[16] Punto 282, Orientamenti.

[17] Punto 283, Orientamenti.

[18] Punto 303 e 328, Orientamenti.

[19] Punto 305, Orientamenti.

[20] Punto 326, Orientamenti.

[21] Faccio presente che, se molto elevate e in presenza di un mercato non particolarmente concorrenziale, si potrebbe addirittura configurare l’ipotesi di posizione dominante di cui all’art. 102, che mi riservo di approfondire qualora richiesto.

[22] Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003.

[23] Art. 15 Legge 287/1990.

[24] Consiglio di Statto, sentenza n. 1671 del 2001.


Il nuovo Regolamento europeo sugli accordi verticali e pratiche concordate mantiene l’esenzione per tutti gli accordi in cui sia fornitore che acquirente non superino i 30% delle quote nel mercato rilevante; del ché godono di una presunzione di liceità tutti quegli accordi verticali tra soggetti che non superino suddette soglie, a condizione che i contratti non contengano restrizioni fondamentali vietate dal Regolamento.

Ciò deve essere coordinato con il fatto che nel corso degli ultimi decenni la Commissione ha emanato una serie di Comunicazioni, volte a precisare un principio assai rilevanti in materia antitrust,  ossia l’inapplicabilità del divieto di cui all’art. 101, paragrafo 1, del trattato agli accordi la cui incidenza sul commercio fra Stati membri o sulla concorrenza è trascurabile.

Senza contare la teoria de minimis sviluppata dalla Corte di Giustizia, in base alla quale l’accordo non ricade sotto il divieto dell’articolo 101 qualora, tenuto conto della debole posizione dei partecipanti sul mercato dei prodotti, esso pregiudichi il mercato in misura irrilevante.

Applicare questi principi ai rapporti di distribuzione esclusiva è un compito tutt'altro che agevole, con questo articolo si cercherà di fornire al lettore un quadro complessivo della tematica, offrendo così spunti di riflessione e di approfondimento.

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1. Tipiche clausole restrittive della concorrenza nei contratti di concessione di vendita esclusiva.

Il nuovo Regolamento Europeo 2022/720, sugli accordi verticali e pratiche concordate mantiene l’impostazione già adottata dal regolamento 330/2010, in forza del quale sono automaticamente esentate tutte le clausole restrittive della concorrenza, inserite all’interno di rapporti verticali (così come definiti all’art. 1), con la sola eccezione di un limitato gruppo di pattuizioni inammissibili.

Le pattuizioni espressamente vietate si suddividono principalmente in due gruppi, ossia:

  • le restrizioni gravi o fondamentali (c.d. hardcore restrictions), elencate nell’ 4, la cui presenza esclude l’accordo nella sua interezza dal beneficio dell’esenzione per categoria (e che, in un sistema distributivo esclusivo, sono essenzialmente il divieto di imporre il prezzo di rivendita al distributore, divieto di effettuare vendite passive, il divieto dell’utilizzo di internet);
  • le restrizioni di cui all’ 5, le quali seppur non siano esentate dal Regolamento la loro presenza non impedisce che il resto dell’accordo possa beneficiare dell’esenzione (e che, in un sistema distributivo esclusivo, sono essenzialmente l’obbligo di non concorrenza ultra quinquennale[1] e l’obbligo di non concorrenza post-contrattuale).

Nell’ambito di un rapporto di concessione di vendita, tale impostazione per cui tutto ciò che non è espressamente vietato (anche se di per sé limitativo della concorrenza ex art 101) è implicitamente autorizzato, si pone in perfetta linea con l’impostazione adottata dalla Commissione nella (ormai lontana) decisione Grundig,[2] ove è stato appunto ritenuto contrario ai principi del mercato unico europeo, la protezione assoluta dei concessionari e la creazione di distribuzioni “esclusive chiuse”,[3] mente sono state ritenute ammissibili e in linea con i principio della concorrenza europea le c.d. “esclusive aperte”,[4] che di fatto garantisce la possibilità di mercati paralleli a quello esclusivo.[5]

Leggi anche: Le vendite parallele nell'UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle?

Oltre, dunque, alla classica clausola di esclusiva (aperta), un’ulteriore clausola tipicamente inserita all’interno dei contratti di concessione di vendita che può ritenersi automaticamente esentata da parte del Regolamento europeo (non essendo per l’appunto espressamente vietata) riguarda l’imposizione di un obbligo da parte del fornitore/concedente di non effettuare vendite (neppure passive) a clienti del territorio riservato in esclusiva al concessionario.

Del pari si potrebbe affermare, come effettivamente parte della dottrina afferma,[6] che rientra tra le clausole ammissibili anche quella con si cui vieta al fornitore/concedente di vendere prodotti a soggetti al di fuori del territorio, di cui è a conoscenza che riforniscono all’interno dell’area riservata al concessionario.

Diversamente una clausola con cui il distributore si obbliga a rifornirsi esclusivamente dal fornitore, sembrebbe rientrare nell’ambito della definizione dell’obbligo di non concorrenza fornita dall’art. 1 lett. f)[7] e pertanto subordinato limite temporale di cui all’art. 5 del Regolamento.

Fatta una brevissima “carrellata” sulle tipiche clausole dei contratti di concessione di vendita esclusiva che possono avere impatti restrittivi sulla concorrenza, si andrà qui di seguito ad esaminare l’incidenza che la quota di mercato del fornitore e concessionario possono avere sotto il profilo della normativa antitrust. Sul punto, infatti si rileva che:

  • l’art. 3 del Regolamento dispone che l’esenzione si applica a tutti gli accordi in cui sia fornitore che acquirente non superino il 30% delle quote nel “mercato rilevante”;
  • la Commissione europea, in linea con la Corte di Giustizia, con Comunicazione del 30.8.2014, ha fissato le quote di mercato al disotto delle quali il divieto dell’art. 101 deve considerarsi inapplicabile, ad eccezione delle clausole restrittive per “oggetto” e quelle fondamentali;
  • la Corte di Giustizia europea ha sviluppato la teoria de minimis, in base alla quale in presenza di quote di mercato irrilevanti, il singolo accordo è può non ricadere in toto sotto il divieto dell’art. 101.

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2. Quote di mercato superiori al 30%.

Il nuovo Regolamento all’art. 3 ha mantenuto, per tutti gli accordi verticali, la c.d. zona di sicurezza prevista dalla precedente disciplina,[8] delimitata dalla soglia di quota di mercato del 30%, che deve essere superata sia dal fornitore, che dall’acquirente all’interno del mercato rilevante in cui essi rispettivamente vendono e acquistano i beni o servizi oggetto del contratto. Del che beneficiano dell’esenzione automatica garantita dal Regolamento, cioè di una presunzione di liceità, a condizione altresì che essi non contengano restrizioni fondamentali vietate dall’art. 4 del Regolamento.

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2.1. Identificazione del mercato rilevante.

Applicando tale principio ai rapporti di concessione di vendita esclusiva, per comprendere se il singolo accordo goda di suddetta presunzione, bisogna identificare il mercato di riferimento sia del produttore, che del venditore e valutare se entrambi i soggetti abbiano una quota superiore al 30%.

In particolare, bisogna comprendere se il mercato di riferimento sia quello contrattuale (e quindi corrisponda al territorio concesso in esclusiva), oppure se deve essere allargato, includendo anche zone in cui il concessionario non opera attivamente.

La risposta, tutt’altro che immediata, viene in parte offerta dal punto 88 dei vecchi orientamenti della Commissione (2010/C 130/01), così come dal punto 170 dei nuovi orientamenti. Quest’ultimo, in particolare, si richiama, per la definizione del mercato rilevante, ai criteri utilizzati dalla Commissione, nella Comunicazione 97 /C 372/03.

In primo luogo, bisogna comprendere e definire cosa si intende per mercato (merceologico) del prodotto rilevante, che comprende (punto 7 della Comunicazione del 97):

tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell'uso al quale sono destinati.”

Quindi, per calcolare la quota del 30%, è opportuno in prima linea comprendere se i prodotti oggetto del contratto possano essere sostituiti da altri prodotti simili, in base alle finalità per le quali gli stessi sono stati pensati, progettati e venduti, mettendosi dal punto di vista del consumatore finale.

Fatto ciò, bisogna passare al mercato geografico rilevante (qui si legge la definizione, ripresa al punto 88 degli orientamenti della commissione del 2010):

Il mercato geografico rilevante comprende l'area nella quale le imprese in causa forniscono o acquistano prodotti o servizi, nella quale le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee e che può essere tenuta distinta dalle zone geografiche contigue perché in queste ultime le condizioni di concorrenza sono sensibilmente diverse.”

Con specifico riferimento al mercato geografico rilevante, il punto 13 della Comunicazione chiarisce:

Un'impresa o un gruppo di imprese non possono esercitare un'influenza significativa sulle condizioni di vendita correnti, e in particolare sui prezzi, se i clienti sono in grado di passare agevolmente a prodotti sostitutivi disponibili sul mercato o a fornitori siti altrove. Fondamentalmente l'esercizio di definizione del mercato consiste nell'individuare le effettive fonti alternative di approvvigionamento dei clienti delle imprese interessate, tanto in termini di prodotti/servizi quanto di ubicazione geografica dei fornitori.”

Il punto 29 della Comunicazione sembrerebbe non escludere che il mercato rilevante possa essere anche regionale, ma per potere essere definito come “rilevante”, bisogna effettivamente accertare se le imprese site in aree diverse rispetto a quello in cui il distributore effettua le proprie vendite, costituiscano realmente una fonte alternativa di approvvigionamento per i consumatori; ciò avviene tramite un’analisi delle caratteristiche della domanda (importanza delle preferenze nazionali o locali, abitudini d'acquisto correnti dei consumatori, differenziazione e marche dei prodotti, etc.), volta a determinare se le imprese site in aree diverse costituiscano realmente una fonte alternativa di approvvigionamento per i consumatori.

Sul punto, la Commissione afferma:

La prova teorica si fonda anche qui sugli effetti di sostituzione che si manifestano in caso di variazione dei prezzi relativi e l'interrogativo al quale si deve rispondere è sempre lo stesso: se i clienti delle parti deciderebbero di rivolgersi per gli acquisti ad imprese site in un'altra zona, a breve termine e con costi trascurabili.”

Il punto 50 della Comunicazione, da ultimo fa presente che bisogna valutare altresì ostacoli e costi attinenti al passaggio a fornitori ubicati in un'altra zona geografica.

Viene affermato appunto che:

L'ostacolo forse più evidente che si frappone al passaggio ad un fornitore ubicato in un'altra zona è l'incidenza delle spese di trasporto e delle eventuali difficoltà di trasporto derivanti da disposizioni normative o dalla natura dei prodotti rilevanti. L'incidenza dei costi di trasporto limita normalmente il raggio del mercato geografico per i prodotti più ingombranti e di basso valore, anche se non bisogna dimenticare che gli svantaggi derivanti dai costi di trasporto possono essere compensati da vantaggi comparativi in termini di altri costi (costo del lavoro o delle materie prime).”

Tenuto conto di quanto sopra, si può ragionevolmente affermare che il mercato rilevante ai sensi del Regolamento non debba essere intesa l’aria a cui al distributore sia stata riconosciuta l’esclusiva, ma è possibile (se ciò effettivamente accade) estendere tale aria ad una zona geografica maggiore, o minore.

Certamente se all’interno del medesimo mercato rilevante il concedente designa un numero elevato di distributori esclusivi, vi sarà una maggiore facilità da parte degli acquirenti finali di spostarsi in altre zone per effettuare l’acquisto dei prodotti venduti, in forza della particolare parcellizzazione del mercato suddiviso in più zone esclusive.[9]

Se invece il mercato di un determinato paese viene riconosciuto in esclusiva solamente ad un concessionario e in tale mercato entrambe le parti hanno una quota superiore al 30% del mercato di riferimento, sarà certamente meno agevole (anche se tutt’altro che impossibile) dimostrare che il mercato rilevante di riferimento debba essere esteso ad un’area sovranazionale, non coperta dall’esclusiva contrattuale.

Importante sottolineare comunque che la Commissione ritiene che il mero superamento delle quote di mercato di cui all’art. 3, non fa presumere automaticamente che l’accordo (che non contiene le restrizioni fondamentali della concorrenza di cui all’art. 4) non benefici dell’esenzione per categoria.[10]

Sarà necessaria a tal fine una valutazione individuale dei probabili effetti dell’accordo, con un invito delle imprese ad effettuare una propria valutazione, necessario effettuare alcuna notifica.[11] La Commissione suggerisce ai §§ 97 e seguenti dei metodi valutativi di tali effetti.

 

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3. Quota di mercato inferiore al 15%.

 

Nel corso degli ultimi decenni la Commissione ha emanato una serie di Comunicazioni, da ultimo la vigente del 30.8.2014, volte a precisare un principio assai rilevanti in materia antitrust (principio da ultimo riaffermato dalla Corte di Giustizia con la sentenza Expedia,[12]) ossia l’inapplicabilità del divieto di cui all’art. 101, paragrafo 1, del trattato agli accordi la cui incidenza sul commercio fra Stati membri o sulla concorrenza è trascurabile.

L’art. 5 della Comunicazione chiarisce che la stessa, seppure non sia vincolante, deve essere accolto quale strumento essenziale per i giudici e le autorità responsabili nell’interpretazione della normativa sulla concorrenza europea.

All’art. 8 lett. b) viene precisato che l’accordo verticale (nel caso di specie, il contratto di distribuzione esclusiva) ha un’incidenza irrilevante se le quote detenute da ciascuno dei contraenti non supera il 15% su nessuno dei mercati rilevanti interessati dall’accordo.[13]

In linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia, viene precisato che l’inapplicabilità del divieto alle intese minori non vale per restrizioni per “oggetto”,[14] così come le restrizioni fondamentali di cui all’art. 4 del Regolamento (ossia divieto di imporre il prezzo di rivendita al distributore, di effettuare vendite passive e dell’utilizzo di internet).

La Comunicazione invece determina espressamente l’applicabilità del divieto delle intese alle intese minori aventi ad oggetto restrizioni di cui all’art. 5 del Regolamento sulle intese verticali.  Sul punto l’art. 14 seconda parte dispone infatti che:

“La zona di sicurezza è […] rilevante per gli accordi che rientrano in un regolamento di esenzione per categoria della Commissione nella misura in cui tali accordi contengono una cosiddetta restrizione esclusa”.

Come si è visto, le clausole ricomprese nell’art. 5 del Regolamento (c.d. restrizioni escluse) che più spesso vengono utilizzate nei sistemi di distribuzione esclusiva sono il patto di non concorrenza ultra-quinquennale e il patto di non concorrenza post contrattuale; tali clausole, che per definizione sono escluse dalle restrizioni “per oggetto”, sembrerebbero pertanto non essere automaticamente soggette al divieto dell’art. 101, ogniqualvolta il singolo rapporto non super la quota di mercato rilevante del 15% identificata dalla Commissione.

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4. Quota di mercato inferiore al 2%.

Nel (lontano) 1969, la Corte di Giustizia nella sentenza Völk-Vervaecke, aveva elaborato una teoria in base alla quale l’accordo non ricade sotto il divieto dell’articolo 101 qualora, tenuto conto della debole posizione dei partecipanti sul mercato dei prodotti, esso pregiudichi il mercato in misura irrilevante.

Nel caso di specie le quote detenute erano rispettivamente dello 0,008% della produzione CEE e del 0,2% in Germania ed il concessionario belga aveva una quota dello 0,6% nel mercato belga e lussemburghese.

In tale circostanza, la Corte aveva riconosciuto la possibilità di instaurare un rapporto di esclusiva anche assoluta (e quindi un’esclusiva chiusa), “in ragione della debole posizione dei partecipanti sul mercato dei prodotti di cui trattasi nella zona protetta.

In tali casi (ove appunto la quota è “irrilevante” e non “trascurabile” come nella fattispecie delineata dalla Commissione), sarebbero addirittura validi degli accordi contenenti anche delle clausole hardcore, sul presupposto che, se l’accordo non produce alcun effetto rilevante sulla concorrenza, non può rilevare il grado di pericolosità delle clausole ivi contenute.[15]

Si tiene a fare presente che è stata ritenuta “un impresa di dimensioni sufficienti perchè il suo comportamento possa in linea di massima influire sugli scambi” una società che detiene il 5% del mercato,[16] così una società che detiene il 3%, se si tratta di percentuali superiori a quelle della maggior parte dei concorrenti e tenuto conto del loro fatturato.[17]

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[1] Seppure il nuovo Regolamento mantiene invariata l’impostazione precedente, lasciando immutato il periodo quinquennale, i nuovi orientamenti introducono (al §248) un’importante novità con riferimento all’ipotesi sub (iii) del rinnovo tacito, potendo beneficiare dell’esenzione le clausole di non concorrenza che si rinnovano tacitamente oltre i cinque anni a condizione che sia consentito al distributore di rinegoziare effettivamente o risolvere l’accordo verticale contenente l’obbligo di non concorrenza con un ragionevole preavviso e senza incorrere in costi irragionevoli, e che il distributore sia quindi in grado di passare ad un altro fornitore dopo la scadenza del periodo di cinque anni.

[2] Decisione Grundig-Costen, 23.9.1964.

[3] L’esclusiva “chiusa” è caratterizzata dal fatto che al concessionario viene garantita una protezione territoriale perfetta e ciò tramite l’imposizione a tutti i distributori della rete di non rivendere a soggetti al di fuori dalla loro zona e con l’ulteriore obbligo di imporre tale divieto anche ai loro acquirenti e così via.

[4] L’esclusiva aperta si contraddistingue dal fatto che il concessionario ottiene il diritto di essere l’unico soggetto a venire rifornito dal produttore in un determinato territorio. In ogni caso, la posizione che viene a questi garantita non è di “monopolio”, posto che gli importatori paralleli, seppure entro i limiti imposti dalla normativa atitrust (sul punto cfr. Le vendite parallele nell'UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle?) potranno acquistare la merce da soggetti terzi (grossisti o concessionari di altre zone), per poi, eventualmente, rivenderli anche nel territorio esclusivo del concessionario.

[5] Sul punto cfr. Bortolotti, I contratti di distribuzione, pag. 690, 2016, Wolters Kluwer.

[6] Bortolotti, p. 695.

[7]Per «obbligo di non concorrenza» si intende qualsiasi obbligo, diretto o indiretto, […] che impone all'acquirente di acquistare dal fornitore o da un'altra impresa da questi indicata più dell'80 % degli acquisti annui complessivi dei beni o servizi oggetto del contratto.”

[8] Cfr. art. 3 Reg. 330/2010. Il Reg. 2790/99 postulava, come condizione di esercizio della presunzione, una quota di mercato (di norma in capo al fornitore) non eccedente la soglia del 30%. La doppia soglia era stata auspicata dalla Commissione anche con riguardo alla versione del 99; ma la proposta era rientrata per via della diffusa opposizione degli addetti ai lavori e poi accolta nel regolamento del 2010 stante la consapevolezza circa la consistenza crescente del ‘buying power’ della grande distribuzione, Restrizioni per oggetto, Ginevra Buzzone, Trento 2015.

[9] Sul punto cfr. anche §130 dei nuovi orientamenti.

[10]§ 275 dei nuovi orientamenti., conformità con quanto disposto dal § 96 dei precedenti orientamenti.

[11] § 275 dei nuovi orientamenti., conformità con quanto disposto dal § 96 dei precedenti orientamenti.

[12] Cfr. la causa C-226/11 Expedia, in particolare i punti 16 e 17.

[13] Il punto 19 dispone altresì che “Quando sul mercato rilevante la concorrenza risulti limitata dall’effetto cumulativo di accordi relativi alla vendita di beni o servizi posti in essere da più fornitori o distributori (effetto cumulativo di preclusione prodotto da reti parallele di accordi aventi effetti simili sul mercato), le soglie in termini di quota di mercato di cui ai punti 8 e 9 sono ridotte al 5 %, sia per gli accordi tra concorrenti, sia per quelli tra non concorrenti. In linea generale, si ritiene che fornitori o distributori individuali la cui quota di mercato non superi il 5 % non contribuiscano in misura significativa all’effetto cumulativo di preclusione ( 3 ). È inoltre improbabile che si verifichi un tal effetto qualora meno del 30 % del mercato rilevante sia coperto da (reti di) accordi paralleli aventi effetti simili.”

[14] Sin dal 1966 la Corte infatti ha indicato, in Consten & Grundig che “ai fini dell’applicazione dell’articolo 101(1), è superfluo prendere in considerazione gli effetti concreti di un accordo, ove risulti che esso ha per oggetto di restringere, impedire o falsare il gioco della concorrenza” ed ha specificato in Société Technique Minière che, per considerare un accordo restrittivo per oggetto, bisogna considerare “l’oggetto stesso dell’accordo, tenendo conto delle circostanze economiche in cui esso deve essere applicato. (…) Nel caso in cui l’esame di dette clausole non riveli un grado sufficiente di dannosità per la concorrenza si dovranno prendere in esame gli effetti dell’accordo, il quale sarà colpito dal divieto qualora emerga che il gioco della concorrenza è stato in concreto impedito, ristretto o falsato in modo sensibile”. Cfr. Restrizioni per oggetto, Ginevra Buzzone, Trento 2015; Commission Staff Working Document Guidance on restrictions of competition "by object".

[15] Bortolotti, pag. 653.

[16] Causa 19-77, Miller International.

[17]

Scioglimento concessione di vendita e gestione giacenze e stock

Cessazione del contratto di concessione di vendita e gestione delle giacenze: diritti e doveri delle parti.

Sovente nei contratti di concessione di vendita viene prevista una pattuizione sulle modalità di gestione delle giacenze di merce acquistata dal concessionario in corso di rapporto; tale regolamentazione si può concretare nell’opzione di riacquisto dei beni ad un certo prezzo da parte del concedente, ovvero nella facoltà dell’ex concessionario di distribuire tali prodotti.

Altre volte le parti non prevedono alcuna disposizione contrattuale che disciplini tale fattispecie e alla cessazione del rapporto si concretizza la problematica di comprendere se l’ex concessionario possa o meno rivendere lo stock in magazzino, ovvero richiedere al fornitore di riacquistare la merce.

Qui di seguito si andranno ad analizzare, seppure brevemente, tali fattispecie stante la loro rilevanza sia da un punto di vista tecnico-giuridico, quanto pratico e commerciale.


1. Assenza di un accordo scritto nel contratto di concessione.
1.1. Diritto a rivendere i prodotti in stock.

In mancanza di diverse pattuizioni contrattuali, la fattispecie in analisi deve essere trattata sotto due differenti aspetti: in base ai principi del diritto civile, da un lato, e a quelli del diritto della proprietà intellettuale, dall’altro lato.

Civilisticamente il concedente non potrà impedire al proprio concessionario di rivendere la merce da questi acquistata, a meno che la stessa non sia stata venduta con riserva di proprietà e il concessionario provveda all’alienazione dei beni contrattuali prima di esserne divenuto proprietario: in tal caso, oltre all’inadempimento contrattuale, l’alienazione integrerà addirittura gli estremi del delitto di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.).[1]

Da un punto di vista del diritto della proprietà intellettuale, bisogna invece riprendere un principio che è stato già più volte trattato in questo blog, ossia quello dell’esaurimento del marchio, di cui all’art. 5 c.p.i.

Leggi anche - Vendite parallele e principio dell’esaurimento del marchio.

Secondo tale principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà industriale immette direttamente o con il proprio consenso in commercio un bene nel territorio dell’Unione europea, questi perde le relative facoltà di privativa.

L’esclusiva è quindi limitata al primo atto di messa in commercio, mentre nessuna esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare della privativa, sulla circolazione del prodotto recante il marchio.

Posto che in un contratto di concessione di vendita, il consenso alla prima immissione nel mercato (ossia la vendita dal concedente al concessionario) trae origine dal rapporto contrattuale intercorso tra le parti, in mancanza di diverse pattuizioni, il concedente non potrà opporsi alla rivendita dei prodotti contrattuali neppure una volta che il rapporto sia terminato.

Si legge in giurisprudenza in merito che:

l’imprenditore, che abbia acquistato merce con segni distintivi, ha invero diritto alla commercializzazione del prodotto anche successivamente alla risoluzione del rapporto perché, in base al principio dell’esaurimento, il titolare di un diritto di proprietà industriale non può opporsi alla circolazione di un prodotto, cui si riferisce il detto diritto, quanto il prodotto sia stato immesso sul mercato dal titolare del diritto medesimo o con il suo consenso nel territorio dello stato o nel territorio di altri Stati membri dell’Unione europea.”[2]

Il principio di esaurimento conosce pur sempre una limitazione: il secondo comma dell’art. 5 c.p.i. reca una norma di salvaguardia che consente al titolare del marchio di opporsi alla circolazione del prodotto immesso con il suo consenso sul mercato e, pertanto, “esaurito”, qualora sussistano:

motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio”.

Pertanto, in assenza di “motivi legittimi”[3], il fornitore non potrà impedire al concessionario la rivendita di rimanenze, né tantomeno l’impiego del proprio marchio se viene da questi utilizzato con il solo fine di pubblicizzare la disponibilità̀ del prodotto che intende cedere o locare e l’attività pubblicitaria non sia tale da ingenerare nel pubblico la convinzione che il concessionario faccia parte della rete autorizzata del concedente, integrando diversamente tale comportamento un illecito confusorio di cui all’art. 2598, comma 1, n. 1 c.c., in tema di concorrenza sleale.[4]


1.2. Diritto a farsi riacquistare le giacenze.

In assenza di un obbligo contrattuale, per comprendere se il concessionario possa pretendere dal concedente di farsi riacquistare la merce rimasta in giacenza, bisogna rifarsi principalmente ai principi di lealtà e buona fede ex art. 1375 c.c.

La clausola di buona fede nell’esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge.[5]

Trattandosi di un principio molto ampio e certamente di non facile attuazione pratica, è necessario di volta in volta valutare come lo stesso debba essere applicato al caso concreto, sulla base di tutti quei fattori che possano impattare sull’equilibrio contrattuale: verrà certamente valutata diversamente la circostanza che al concessionario fosse stato contrattualmente imposto l’obbligo di mantenere uno stock in magazzino, rispetto alla fattispecie per cui le giacenze siano dovute ad una mancata attinenza alle regole di prudenza, che avrebbero dovuto consigliare al concessionario di sospendere o comunque ridurre gli acquisti e smaltire medio tepore le giacenze in vista di un rapporto prossimo alla scadenza.[6]

Si registra una sentenza del Tribunale di Milano,[7] che ha considerato contraria a tali principi la condotta di un fornitore che ha impedito (in contrasto con il principio di esaurimento) a parte attrice la commercializzazione del prodotto da esso fornito prima del recesso, senza avere cooperato a salvaguardare l’interesse della controparte dando la disponibilità – pur contrattualmente non prevista – al riacquisto della merce.

Il Tribunale ha quindi condannato la convenuta al risarcimento del danno, quantificato nel valore della merce rimasta in giacenza.

Si registra altresì un’ulteriore sentenza sempre del Tribunale di Milano,[8] relativa ad un rapporto di licenza, in cui il giudicante è giunto ad un simile risultato, attraverso l’ausilio dello strumento fornito dall’art. 1340 c.c., in base al quale gli usi negoziali o clausole d’uso s’intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti.

Il Tribunale ha quindi considerato che il licenziante fosse tenuto a riacquistare la merce venduta, oltre che in un’ottica di collaborazione e di comportamento in buona fede, sulla base del fatto che nel settore in cui le parti operavano era consuetudine che il licenziante acquistasse almeno una parte della merce invenduta a seguito dello scioglimento del rapporto.


2. Sussistenza di un accordo tra il concedente e il concessionario.
2.1. Divieto di rivendere le giacenze di magazzino.

Una clausola contrattuale che imponga al concessionario un divieto di vendere i prodotti in giacenza a seguito dello scioglimento del rapporto contrattuale, senza che vi sia un impegno del concedente di riacquistare tale merce è, a parere di chi scrivere, di dubbia valida, sia da un aspetto della normativa antitrust, che di quella civilistica, per le ragioni che si vanno qui di seguito ad illustrare.

In ambito antitrust, l’art. 5, b), del Regolamento 330/2010, impone delle limitazioni alla facoltà del fornitore di imporre al proprio acquirente di svolgere attività in concorrenza dopo lo scioglimento del rapporto. “Le parti non possono imporre alcun obbligo diretto o indiretto che imponga all’acquirente, una volta giunto alla scadenza l’accordo, di non produrre, acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi, salvo che tale obbligo […]:

  • si riferisca a beni o servizi in concorrenza con i beni o servizi contrattuali;
  • sia limitato ai locali e terreni da cui l’acquirente ha operato durante il periodo contrattuale;
  • sia indispensabile per proteggere il «know-how» trasferito dal fornitore all’acquirente;
  • la durata di quest’obbligo sia limitata ad un anno.”

Essendo i requisiti per la legittimità di tale obbligo previsti in via cumulativa, la norma non è di regola applicabile alle forme tipiche di concessione di vendita, che non implicano l’esigenza di proteggere know-how fornito ai rivenditori, ma piuttosto ai contratti di franchising,[9] con la conseguenza che assai difficilmente tale esenzione possa essere applicata alla fattispecie contrattuale oggetto di analisi.

Inoltre, l’obbligo di non concorrenza non fa parte delle “restrizioni gravi” (hardcore) disciplinate dall’art. 4 del regolamento, ma di quelle semplicemente non esentabili, con la conseguenza che tali limitazioni vengono applicate unicamente ai contratti che non hanno importanza minore, ossia che non determinano restrizioni sensibili della concorrenza: ciò si verifica ogniqualvolta la quota di mercato detenuta da ciascuna delle parti dell’accordo supera il 15% sui mercati rilevanti interessati dall’accordo.[10]

Qualora il contratto di concessione sia qualificabile come contratto di importanza minore, una pattuizione che impone il divieto alla rivendita della merce in giacenza, beneficerebbe dell’esenzione e sarebbe (almeno da un punto di vista antitrust) lecito.

Attenzione, ciò comunque non toglie che una tale pattuizione contrattuale debba essere comunque sottoposta al vaglio dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, sicché potrebbe essere non valida, se non viene adeguatamente controbilanciata da – ad esempio – un obbligo del concedente di riacquistare la merce giacente, in particolare se a questi era contrattualmente imposto l’onere di mantenere uno stock minimo in magazzino in corso di rapporto.[11]


2.2. Diritto di riacquistare la merce da parte del concedente.

Un differente ragionamento deve essere fatto – sempre al fine di valutarne la liceità – nel caso in cui le parti prevedano un diritto del concedente di riacquistare lo stock dei prodotti, a seguito dello scioglimento del rapporto.

Per fare ciò, si rende in primo luogo necessario comprendere la natura giuridica di una siffatta pattuizione, ossia se la stessa debba essere inquadrata come:   

  • contratto preliminare ex 1351 c.c., accessorio al contratto di concessione, ovvero
  • patto di opzione di acquisto, ex 1331 c.c.

Si vanno qui di seguito ad esaminare brevemente le differenze tra tali istituti.

a) Contratto preliminare.

Si rientra in tale fattispecie, ogniqualvolta nel contratto entrambe le parti concordino che alla cessazione del rapporto i prodotti a stock verranno riacquistati dal fornitore ad un prezzo pattuito. 

Es. Le parti concordano che al termine del contratto il concessionario sarà tenuto a rivendere al concedente l’intero stock prodotti rimasto in giacenza, al prezzo pari a quello indicato in fattura al netto di IVA, con uno sconto del _____.

Tale clausola contrattuale (che costituirebbe appunto un contratto preliminare) è certamente valida, a meno che non si dimostri che il contratto fosse nullo ab origine, ad esempio per vizio del consenso di una delle parti, abuso di diritto, etc.

b) Patto di opzione di acquisto.

Qualora invece nel contratto una parte si impegna a mantenere ferma una propria proposta e all’altro soggetto (beneficiario) è riconosciuto il diritto di avvalersi o meno della facoltà di accettare la proposta, rientriamo nella differente fattispecie del contratto di opzione ex art. 1331 c.c.

Es. Al termine del contratto il concedente ha la facoltà di riacquistare lo stock al prezzo _______, da comunicarsi entro _____ dallo scioglimento del contratto.

Anche una pattuizione di tale genere deve considerarsi tendenzialmente valida; l’unica problematica potrebbe essere collegata nel caso in cui il diritto di opzione venga concesso a titolo gratuito, ossia senza il versamento di un prezzo (c.d. premio). 

Parte della giurisprudenza (seppure minoritaria)[12] ritiene che in tal caso il patto di opzione sarebbe nullo, non potendo essere concesso tale diritto a titolo gratuito (ad es. uno sconto sul riacquisto delle merci). Si segnala comunque che la giurisprudenza maggioritaria è invece a favore della gratuità dell’opzione: “l'art. 1331 c.c. non prevede il pagamento di alcun corrispettivo e, dunque, l'opzione può essere offerta a titolo oneroso o gratuito”.[13]


[1] Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, § 377.

[2] Trib. Milano, 6.5.2015; in giurisprudenza Corte di Giustizia, 8.7.2010, caso Portakabin.

[3] Costituiscono “motivi legittimi” idonei a far sì che non trovi applicazione il principio dell’esaurimento del marchio: a) la modifica o l’alterazione dello stato dei prodotti, dopo la loro immissione in commercio e b) tutti quei casi che importano un serio e grave pregiudizio: questo ultimo deve essere accertato in concreto. Sul punto cfr. Trib. Milano 17.3.2016.

[4] Sul punto Cass. civ. 1998, n. 10416; Trib. Roma, 28.4.2004.

[5] Cass. Civ. 2014, n. 1179.

[6] Sul punto cfr. Trib. Milano, 19.9.2014.

[7] Trib. Milano, 21.5.2015.

[8] Trib. Milano, 19.9.2014.

[9] Bortolotti, Contratti di distribuzione, Walters Kluver, 2016.

[10] Cfr. Comunicazione De Minimis 2014 della Commissione UE, in combinato disposto con la Comunicazione della Commissione sulle linee direttrici la nozione di pregiudizio al commercio tra Stati membri di cui agli articoli 81 e 82 del trattato.

[11] Sul punto cfr. Trib. Milano, 19.9.2014.

[12] Cfr. Appello Milano 5.2.1997.

[13] Trib. Milano 3.10.2013


coronavirus contratti di distribuzione contratti di agenzia

Gli effetti del coronavirus sui contratti di agenzia e di distribuzione.

Le misure restrittive che il governo ha adottato contro il coronavirus tramite il DCPM del 11.3.2020,[1] hanno portato alla sospensione di un gran numero di attività commerciali, con grave incidenza sui rapporti contrattuali in essere. Con questo articolo si cercherà di focalizzare l’attenzione sui contratti di agenzia e di distribuzione, cercando di comprendere quelli che sono i rimedi che vengono forniti dal nostro ordinamento per gestire le problematiche che più verosimilmente potranno insorgere tra le parti.

In materia contrattuale, a seguito del succitato provvedimento ministeriale, il legislatore non è intervenuto con provvedimenti ad hoc (si riscontrano unicamente in tema di agenzia alcuni provvedimenti di carattere prevalentemente tributario e contributivo),[2] limitandosi a disporre all’art. 91 Decreto Legge 18 marzo 2020, meglio conosciuto come “Cura-Italia”, in tema di “disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento”,quanto segue:

“il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”

Il senso di tale provvedimento normativo sembrerebbe demandare al giudice una valutazione più accurata e prudenziale di un eventuale inadempimento colpevole (art. 1218 c.c.) causato dal “rispetto delle misure di contenimento” della pandemia, anche ai fini della quantificazione del danno (art. 1223 c.c.), elevando il rispetto di tali misure a parametro di valutazione dell’imputabilità e dell'importanza dell’inadempimento (art. 1455 c.c.).

1. La disciplina civilistica.

Come è noto, l’art. 1218 c.c. fissa i criteri per determinare la responsabilità del debitore che non adempie la propria obbligazione, prevedendone l’esonero di una sua responsabilità per danni (art. 1223 c.c.) ogni qualvolta l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile (ex art. 1256 c.c.).[3]

L’art. 1256 c.c. prevede altresì che l’impossibilità sopravvenuta possa portare all’estinzione dell’obbligazione, dovendosi comunque distinguere tra la fattispecie di impossibilità definitiva e impossibilità temporanea. Mentre la prima, essendo irreversibile, estingue l’obbligazione automaticamente (ex art. 1256, 1 comma c.c.), la seconda determina l’estinzione dell’obbligazione solo se perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione, il debitore non può più essere tenuto obbligato ad eseguire la prestazione, ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.[4]

Posto che nei contratti a prestazioni corrispettive l’impossibilità di eseguire un’obbligazione, non sempre comporta automaticamente l’impossibilità di adempiere la controprestazione (ad es. se il venditore non può consegnare un prodotto, il compratore potrà essere ancora in grado di pagare il prezzo della cosa venduta)[5] il legislatore ha inteso tutelare la parte che ha subito l’inadempimento, disponendo all’art. 1460 c.c. che ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che non sia diversamente pattuito contrattualmente (quindi il venditore può rifiutare di provvedere al pagamento, se il produttore non consegna la merce).

Tale eccezione potrà comunque essere sollevata solamente se vi è proporzionalità tra le due prestazioni, tenuto conto della loro rispettiva incidenza sull'equilibrio del rapporto.[6]

Al fine di evitare che il rapporto contrattuale si trasformi in un “limbo” in cui entrambe le parti si limitino unicamente a dichiarare di non volere adempiere alle loro rispettive obbligazioni, qualora l’inadempimento (nel nostro caso del venditore) dipende da fattori esterni sopravvenuti (ad es. le misure sospensive del covid-19) il legislatore (riprendendo i principi generali dettati in tema di risolubilità del contratto per inadempimento, di cui all’art. 1453 c.c.), conferisce alla parti alcuni rimedi, per i casi in cui l’impossibilità sia totale, oppure solamente parziale.

L’art. 1463 c.c. (impossibilità totale) prevede che la parte che è stata liberata dalla propria obbligazione a causa della sopravvenuta impossibilità di adempiere alla stessa (ad es. il venditore che a causa del covid-19 non può più consegnare la frutta che è deperita, in quanto non è stato possibile effettuare la raccolta durante la pandemia), non può pretendere la controprestazione (quindi pagamento del prezzo) e deve altresì restituire ciò che ha eventuamente già ricevuto (ad esempio un anticipo).

L’art. 1464 c.c. (impossibilità parziale) dispone invece che quando la prestazione di una parte è divenuta parzialmente impossibile (ad esempio consegna del 50% della merce venduta), l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta (pagamento del 50% della merce consegnata), ovvero può sciogliere il contratto, qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

Quindi, mentre nel caso di impossibilità totale l’estinzione del rapporto contrattuale opera di diritto, in quella parziale la parte che subisce l’inadempimento può optare tra un adempimento parzialmente proporzionato, ovvero (se vi è un interesse apprezzabile) alla risoluzione del rapporto contrattuale.

Ancora differente è la fattispecie disciplinata dagli art. 1467 c.c. ss., relativa ai rapporti a prestazione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, ove a causa di fattori esterni l’adempimento della prestazione di una delle parti richieda degli sforzi che sono eccessivi e sproporzionati, rispetto a quelli che erano richiedibili una volta che il rapporto era stato stipulato. Anche in tal caso, la parte che subisce l’eccessiva onerosità della prestazione, potrà domandare la risoluzione del rapporto contrattuale, qualora si venga a creare un grave squilibrio economico tra prestazione e controprestazione.

In questo caso, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo (ex art. 1467, comma 3 c.c.) di modificare equamente le condizioni del contratto fino a ricondurre il rapporto tra le prestazioni entro i limiti dell’alea normale del contratto.

È assai importante sottolineare quindi che l’ordinamento non prevede un obbligo delle parti a rinegoziare e riprogrammare il rapporto medesimo, potendosi riscontrare tale fattispecie unicamente nell’ipotesi qui sopra richiamata. A parere di chi scrive, tale obbligo non si può neppure ricavare da un’applicazione estensiva del principio di buona fede di cui all’art. 1374 c.c., che ha ad oggetto la differente fattispecie di “integrazione del contratto”, nei casi di incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti (e non di modifica dei termini pattizi, in caso di variazioni della posizione di equilibrio del rapporto contrattuale per fatti non imputabili alle parti).[7]

Tenuto conto che questi sono gli strumenti offerti dall’ordinamento, andiamo qui di seguito a cercare di rispondere ad alcune di quelle che sono le problematiche che potranno emergere nell’ambito della distribuzione commerciale, tenuto conto che il richiamo del legislatore agli istituti di cui agli art. 1218 c.c. e 1223 c.c., fa pensare che la preoccupazione del legislatore fosse soprattutto di mantenere in vita i rapporti contrattuali, laddove possibile e rispondente all’interesse delle parti.[8]


2. Effetti sui contratti di distribuzione
2.1. Cosa succede se il produttore non può più rifornire i propri distributori e/o clienti a causa del coronavirus?

In linea di massima, qualora il produttore non possa rifornire i propri distributori a causa di un blocco e/o rallentamento della produzione dovuta all’attuazione delle misure restrittive governative, questi non potrà essere ritenuto responsabile per tali ritardi se l'impossibilità era originaria (quindi non conosciuta al momento in cui era sorta l'obbligazione) e si sia verificata dopo la mora del debitore (art. 1219 c.c.), trovandosi il contratto in uno stato di “quiescenza”.

Se per la consegna della merce era stato previsto (espressamente o implicitamente)[9] un termine essenziale (art. 1457 c.c.), il rapporto si risolverà di diritto una volta scaduto il termine.

Qualora invece il termine della consegna della merce non sia essenziale, il rapporto contrattuale si estingue se l’impossibilità perdura fino a quanto questi non può più essere ritenuto obbligato a eseguirla, ovvero qualora nelle more venga meno l’interesse dell’acquirente a ottenere la prestazione.[10] È fatto comunque salvo il diritto dell’acquirente di non sciogliere il rapporto e chiedere unicamente una riduzione del prezzo, qualora la prestazione venga/possa essere eseguita solamente parzialmente (consegna ad es. di un solo lotto della merce acquistata).

2.2. L'accordo di distribuzione può essere risolto a causa degli della pandemia?

La tematica dello scioglimento del rapporto di distribuzione è stata già trattata in questo blog e si richiama tale articolo per eventuali approfondimenti.

Il recesso dal contratto di concessione di vendita (o di distribuzione che dir si voglia…).

Come si è avuto di spiegare (brevemente) nella parte introduttiva dell’articolo, la parte che “subisce” l’inadempimento temporaneo, può risolvere il rapporto se non ha interesse alla continuazione parziale della prestazione. Pertanto, posto che a causa del covid-19 il rapporto di distribuzione viene interrotto per un termine che può essere più o meno prolungato, l’interesse alla continuazione del contratto di distribuzione deve essere certamente calibrato tenuto conto principalmente di due fattori: la durata effettiva dell'evento (in questo caso la pandemia) e la durata residua del contratto.

In linea di massima, si può affermare che tanto più prolungati saranno gli effetti del blocco e tanto più prossima sarà la data di scadenza naturale del rapporto, tanto maggiori saranno le possibilità di risolvere il rapporto obbligatorio. Certamente in tale valutazione, si dovrà altresì tenere conto di quelli che sono gli effetti indiretti delle misure restrittive, collegati ad una ragionevole aspettativa di una delle parti del perpetuarsi di un calo assai importante del commercio anche a seguito del venir meno del blocco.

Inoltre, qualora una delle parti sia contrattualmente tenuta a sostenere costi elevati per il mantenimento del rapporto di distribuzione (locazione, dipendenti, collaboratori, showroom, etc.) che rendono la collaborazione di fatto non più sostenibile, questi potrà valutare di risolvere il rapporto per eccessiva onerosità ex. art. 1467 c.c.

In questo caso, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo (art. 1467, comma 3 c.c.) di modificare equamente le condizioni del contratto fino a ricondurre il rapporto tra le prestazioni entro i limiti dell’alea normale del contratto.

2.3. Le parti possono non rispettare il patto di non concorrenza?

Il patto di concorrenza nei rapporti di distribuzione (e di agenzia) può essere pattuito in duplice modo, ossia:

  • il produttore si impegna a rifornire solamente il distributore in un determinato territorio;
  • il distributore si impegna ad acquistare determinati prodotti solamente dal produttore.

Se a causa del covid-19 il produttore non può più rifornire il proprio distributore perché gli è stato imposto il blocco della produzione, ovvero il distributore non può più eseguire la propria prestazione a causa del blocco, nonostante il produttore abbia la possibilità di rifornirlo (ad es. perché aveva in stock il materiale), ci si chiede se la parte che non ha più interesse a mantenere l’obbligo di non concorrenza per fatto imputabile all'altro contraente, possa decidere di non adempiere ai propri obblighi utilizzando gli strumenti giuridici qui sopra richiamati.

Partendo dal presupposto che l’ordinamento non prevede alcun obbligo delle parti di rinegoziare l’originario assetto contrattuale,[11] non si ritiene possa desumersi l’esistenza di un principio che autorizzi una parte a obbligare l’altra a modifica il contratto in funzione di un riequilibrio.

Ne consegue che una sospensione temporanea della clausola di non concorrenza (a parere di chi scrive) non è giuridicamente fondata, se ciò non deriva da un accordo di entrambe le parti. Contrariamente, qualora il divieto di svolgere attività “in concorrenza” per il periodo in questione crei delle condizioni non sostenibili, si può eventualmente considerare l’ipotesi di risolvere il rapporto contrattuale per impossibilità sopravvenuta, oppure per eccessiva onerosità.

2.4. I budget pubblicitari devono essere forniti e spesi come concordato anche se la distribuzione non è possibile a causa della pandemia?

Qualora una delle parti sia contrattualmente tenuto a sostenere dei costi fissi per attività di marketing e pubblicitaria, potrebbe trovarsi nella posizione di decidere di non affrontare tali spese ritenendo che le stesse non siano necessarie a causa del blocco della produzione.

Per comprendere se (e quali) attività di marketing possano essere bloccate, bisogna analizzare la natura delle singole attività di pubblicità/azioni di marketing. Tendenzialmente si può affermare che tutte quelle attività “generali” che servono a mantenere il posizionamento del marchio all’interno del mercato, devono essere eseguite anche in caso di blocco della distribuzione, essendo di fatto necessarie propedeutiche alla riapertura.

Un ragionamento diverso bisognerebbe fare sulle attività di marketing relative alle azioni di vendita che non possono essere eseguite durante la pandemia. In tal caso, il problema non è tanto che tali prestazioni non possono essere eseguite (e quindi permettano di invocare l’impossibilità sopravvenuta), quanto piuttosto il fatto che le stesse non portano alcun vantaggio commerciale al soggetto che le promuove; inoltre molto spesso tali spese non graveranno economicamente così tanto sul soggetto tenuto a sostenerle, da potere sostenere la rottura dell’equilibrio contrattuale e, quindi, permettere di invocare l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.

In tal caso, qualora le parti non trovino un accordo, la parte tenuta a svolgere l’attività promozionale, potrebbe avere come unica arma (assai spuntata) quella di decidere di non adempiere e quindi di non svolgere tali attività, puntando essenzialmente sul fatto che l’inadempimento possa essere ritenuto dal giudice (tenuto conto anche dell’art. 91 Decreto Cura Italia sopra richiamato)  di scarsa importanza (art. 1455 c.c.), tenuto conto che la prestazione, non avrebbe comunque portato alcun vantaggio commerciale alle parti.


3. Effetti sui contratti di agenzia
3.1. Il preponente deve ancora pagare un fisso provvigionale/rimborso spese, se concordato contrattualmente?

Soprattutto nei contratti di agenzia, è spesso previsto che l'imprenditore paghi un fisso mensile (a titolo di rimborso spese, oppure come provvigione fissa) a cui normalmente si aggiunge una parte variabile.

In questo periodo, dato che l’attività di promozione è stata di fatto in gran parte bloccata, ci si chiede se il preponente possa decidere di togliere (almeno tale fase) questa parte fissa.

Come si è avuto modo di rilevare, seppure l’ordinamento non prevede uno strumento che legittima una parte a modificare unilateralmente il contratto, non è per nulla atipico riscontrare nei contratti di agenzia delle clausole contrattuali che conferiscono al preponente il diritto potestativo di modificare unilateralmente le provvigioni, il territorio e/o i clienti dell’agente.

Cfr. Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente.

Secondo l’orientamento prevalente della Corte, l’attribuzione al preponente di tale potere deve “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.[12] Si può quindi ritenere che l’adeguamento del compenso provvigionale a causa del covid-19, possa essere attuato legittimamente, solamente se vi sia una clausola contrattuale che preveda tale facoltà in capo al preponente, il quale sarà comunque tenuto ad avvalersene in maniera ragionevole ed adeguata.

Diverso discorso, invece, se al contratto di agenzia si applicano gli AEC, i quali conferiscono sì da un lato la possibilità del preponente di modificare le provvigioni dell’agente, ma dall’altro lato il diritto dell’agente di rifiutare le modifiche e chiudere il rapporto per giusta causa se tali modifiche siano significative (sul tema cfr. modifiche provvigioni in base agli AEC). Si ritiene che tale norma non possa essere alterata a favore del preponente neppure tenuto conto dell'impatto che il covid-19 ha avuto sulla rete vendita del preponente, il quale dovrà essere consapevole che una eventuale modifica delle provvigioni, potrà condurre a uno scioglimento del rapporto per giusta causa da parte del proprio agente.

3.2. Cosa devono fare gli agenti se non possono visitare i propri clienti?

È chiaro che se l’agente che non può più andare a visitare i propri clienti, non potrà essere costretto a svolgere tali adempimenti; inoltre, se prima della pandemia questi non svolgeva alcuna attività di promozione online e non era contrattualmente obbligato a fare ciò, il preponente non potrà certamente imporre al proprio agente degli sforzi sproporzionati, richiedendo a questi di iniziare una attività di promozione “telematica”, tramite l’utilizzo di nuovi strumenti informatici.

3.3. Quali sono le conseguenze del mancato raggiungimento dei minimi di fatturato a causa del covid-19?

Negli ultimi anni, si sta sempre più affermando l’orientamento giurisprudenziale[13] che, seppure conferma la pacifica applicabilità della norma generale di cui all’art. 1456 c.c.  in tema di clausola risolutiva espressa, ha tuttavia precisato che al fine di azionare legittimamente il relativo meccanismo risolutorio, il giudice deve comunque accertare la sussistenza di un grave inadempimento, integrante gli estremi della giusta causa.[14]

Cfr. La clausola di “minimi di fatturato” nel contratto di agenzia.

Seguendo tale orientamento, il mancato raggiungimento dei minimi di fatturato a causa del covid-19, non potrà essere considerato di per sé inadempimento tale da legittimare uno scioglimento del rapporto per fatto imputabile all’agente, dovendo comunque il giudice valutare caso per caso l'effettiva imputabilità e colpevolezza di tale inottemperanza.

3.4. L'agente commerciale conserva il diritto alla provvigione se il cliente scioglie il contratto con il preponente a causa del coronavirus?

Se il cliente risolve il contratto con il preponente a causa del coronavirus (ad esempio perché il suo negozio ha dovuto chiudere o i suoi trasportatori si sono fermati), si pone la questione se l'agente commerciale perda il diritto alla provvigione ai sensi dell’art. 1748 c.c.

L'attuale art. 1748, 6 comma c.c. prevede che l'agente è tenuto a restituire le provvigioni riscosse nella sola ipotesi in cui il contratto tra preponente e terzo non è stato eseguito per cause non imputabili al preponente (norma tra l'altro inderogabile dalle parti).

La nozione di causa imputabile al preponente è stata intesa come qualsiasi comportamento doloso o colposo del preponente che abbia determinato la mancata esecuzione del contratto.[15]

Posto che l'inadempimento contrattuale del cliente per impossibilità e/o eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (a causa del coronavirus) non è un fatto imputabile al preponente, l’agente non avrà diritto a percepire la provvigione su tale affare e sarà tenuto a restituirla al nel caso in cui questa fosse stata già integralmente o parzialmente versata.

3.5. Le ripercussioni sulle indennità di mancato preavviso e fine rapporto.

Come è noto le parti hanno il diritto di chiudere il rapporto riconoscendo all’altra parte un preavviso. L’agente a seguito dello scioglimento del contratto ha diritto ad un’indennità di fine rapporto, salvo il fatto che:

  • il preponente risolve il contratto, per un fatto imputabile all’agente;
  • l’agente recede dal contratto, per fatto imputabile all’agente.

Tenuto conto di quanto sopra esposto, si può ragionevolmente sostenere che i ragionamenti fatti al precedente paragrafo "L'accordo di distribuzione può essere risolto a causa degli effetti della pandemia di Corona?” possano essere in linea di massima validi anche per il contratto di agenzia, dovendo comunque essere consapevoli che è comunque necessario operare con massima attenzione e consapevolezza prima di procedere alla chiusura del rapporto contrattuale, valutando prudenzialmente caso per caso.

Una cosa comunque è certa, che tale pandemia avrà un rilevante effetto sui calcoli dell’indennità di fine rapporto e di mancato preavviso per tutte le cessazioni dei contratti che avvengono in prossimità dell’arrivo della pandemia.

Se tali indennità dovessero venire eccessivamente distorte a causa del quadro economico collegato al covid-19, ci si chiede se l'agente possa integrarle avvalendosi del diritto garantito dall'art. 1751, comma 4 c.c., che riconosce all'agente il diritto di richiedere un risarcimento del danno ulteriore rispetto a suddette indennità.

L’orientamento prevalente sostiene che i danni che l'agente può richiedere in aggiunta all'indennità siano unicamente quelli da inadempimento o fatto illecito.[16] Ne consegue che sarà assai complesso per l’agente richiedere ulteriori somme, oltre quelle a questi riconosciute a titolo di indennità di fine rapporto, tenuto conto che il calo di fatturato (che ha comportato la diminuzione delle indennità), difficilmente potrà essere imputabile ad una colpa del preponente.


[1] Misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale.

[2] Limatola, Novità in materia di contratti di agenzia nel mese di aprile 2020.

[3] Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, § 310, CEDAM.

[4] Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, §210, Giuffrè Editore.

[5] In tal caso non rileveranno in ogni caso le difficoltà finanziare del debitore, sul punto Cfr. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane.

[6] Cass. Civ. 2016, n. 22626.

[7] Sul punto, cfr. Vertucci, L’inadempimento delle obbligazioni al tempo del coronavirus: prime riflessioni, ilcaso.it

[8] Vertucci, op. cit.

[9] Cfr. Cass. Civ. Cass. del 2013, n. 3710: l’essenzialità è una caratteristica che deve risultare o dalla volontà espressa delle parti o dalla natura del contratto.

[10] Cfr. sul punto Studio Chiomenti, Incidenza del Covid-19 sui contratti.

[11] Cfr. sul punto Vertucci, op. cit.

[12] Cfr. Cass. Civ. 2000, n. 5467.

[13] Cass. Civ. 2011, n. 10934, Cass. Civ. 2012, n. 8295.

[14] Venezia, Il recesso, la giusta causa e la clausola risolutiva espressa nel contratto di agenzia, marzo 2020, La consulenza del lavoro, Eutekne.

[15] Toffoletto, Il contratto di agenzia, Giuffrè.

[16] Bortolotti, Indennità di cessazione e risarcimento di danni ulteriori, www.mglobale.it


esaurimento del marchio e vendite parallele

Vendite parallele e principio dell'esaurimento del marchio.

I distributori non autorizzati possono effettuare delle vendite parallele? Quando ci si può avvalere del principio dell'esaurimento del marchio? I casi Amazon, Sisley e L'Oréal.

Come
si è già avuto modo di spiegare (cfr. La
distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi
), la
distribuzione selettiva ha la funzione di proteggere la commercializzazione dei
prodotti che, in funzione delle loro caratteriste, necessitano di un sistema di
rivendita più selezionato e curato rispetto ai prodotti di largo consumo.

In
tali casi, il produttore è portato non tanto a puntare sulla vastità e
capillarità della propria rete vendita, quanto a prediligere una limitazione dei
canali commerciali
, preferendo affidare i propri prodotti ad un ristretto
numero di rivenditori specializzati, scelti in funzione di determinati criteri
oggettivi dettati dalla natura dei prodotti: competenza professionale (per
quanto riguarda gli aspiranti distributori),[1] qualità
del servizio offerto, ovvero prestigio e cura dei locali nei quali i
rivenditori dovranno svolgere la loro attività.[2]

Tale sistema, regolamentato dal Regolamento UE 330/2010 sugli accordi verticali,[3] è conforme all’art. 101 § 3 del Trattato (e quindi non ricade nel divieto generale fissato dal § 1 di suddetto articolo), essenzialmente se:

  • la scelta dei rivenditori avvenga secondo criteri oggettivi di indole qualitativa, riguardanti la qualificazione professionale del rivenditore del suo personale e dei suoi impianti”,
  • che “questi requisiti siano richiesti indistintamente per tutti i rivenditori potenziali”,
  • e che “vengano valutati in modo non discriminatorio”.[4]

Con
riferimento alla tipologia di prodotti per i quali può essere
giustificato il ricorso ad un sistema selettivo, seppure il Regolamento
330/2010 non fa alcun cenno in merito, poiché si limita a dare una definizione
di tale sistema, si ritiene che la stessa è riservata solamente a prodotti di
lusso, di alta qualità e tecnologicamente sviluppati.[5]

Uno
degli elementi essenziali collegati alla distribuzione selettiva, è sicuramente
collegato al fatto che, in tale sistema, il produttore può imporre l’obbligo di
non vendere a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti
alla rete (ex art. 4 lett. b), iii)).[6]

Secondo
vantaggio è collegato ai limiti che possono essere imposti a membri del sistema
selettivo, in merito alla possibilità di vendere i prodotti online. Sul
punto la giurisprudenza europea ha affermato che, mentre un
produttore di un sistema non selettivo, non può impedire ai suoi distributori
di vendere online
,[7]
in un sistema selettivo, il produttore è autorizzato ad imporre al proprio
distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite interneta
condizione che tale attività di vendita online
 sia
realizzata tramite una “vetrina elettronica” del negozio autorizzato e che
venga in tal modo preservata l’aurea di lusso ed esclusività di questi
prodotti
.[8]

Inoltre, la giurisprudenza[9] ha considerato legittima una clausola contrattuale che vieta ai distributori autorizzati di un sistema di distribuzione selettiva di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita a mezzo internet dei prodotti contrattuali, purché ciò sia finalizzato a salvaguardare l’immagine di detti prodotti e che sia stabilita indistintamente e applicata in modo non discriminatorio.


1. La distribuzione parallela di distributori non autorizzati.

In ogni caso, nella pratica è altamente diffuso che, anche se il produttore crea un sistema selettivo, si sviluppino distribuzioni parallele all’interno del mercato stesso. Ciò può essere dovuto al fatto che molto spesso i produttori distribuiscono in via “selettiva” soltanto nei mercati più importanti, riservando, contrariamente, un sistema “classico” (ossia tramite un importatore esclusivo e non selettivo) alle altre zone, così permettendo (e facilitando) che i distributori “classici” vendano i prodotti anche a distributori paralleli che si trovano all’intero di un mercato selettivo.[10]

Leggi anche Le vendite parallele nell’UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle? e Distribuzione selettiva ed esclusiva: il sistema misto che selettiva.

Cosa
succede quindi se la società produttrice rileva la vendita non autorizzata di
propri prodotti su una piattaforma e-commerce, da parte di un
distributore/intermediario estraneo alla rete di distribuzione selettiva?

È
chiaro, infatti, che in tale situazione il rapporto tra produttore e il terzo è
di natura extracontrattuale e bisogna quindi comprendere quali (e se vi) siano strumenti
giuridici che consentano al produttore di difendersi da tali vendite estranea
al sistema selettivo.

Per potere rispondere a tale domanda è necessario fare un breve passo indietro.


2. Il principio di esaurimento comunitario.

Come è noto, l’ordinamento europeo garantisce la libertà (fondamentale) della circolazione delle merci; figlio di tale libertà è il principio di esaurimento comunitario, introdotto con Direttiva Europea 2008/95/CE all'articolo 7 e recepito dal nostro ordinamento con l’art. 5 c.p.i.[11]

Secondo
tale principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà
industriale immette direttamente o con il proprio consenso[12]
(ad es., dal licenziatario) in commercio un bene nel territorio dell'Unione
europea, questi perde le relative facoltà di privativa.

L’esclusiva
è quindi limitata al primo atto di messa in commercio, mentre nessuna
esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare della privativa,
sulla circolazione del prodotto recante il marchio.

Il
principio dell’esaurimento conosce tuttavia un’importante eccezione: il secondo
comma dell’articolo 5 c.p.i. reca, infatti, una norma di salvaguardia che, con
riferimento al marchio, consente al titolare, anche quando abbia immesso il
prodotto sul mercato e, pertanto, “esaurito” il diritto, di evitare che la
privativa subisca una diminuzione di attrattiva e di valore
.

Al
fine di eludere che il titolare del marchio possa arbitrariamente comprimere la
libera circolazione sul mercato comunitario, la deroga al principio
dell’esaurimento del marchio è circoscritta al ricorrere di condizioni che
rendono necessaria la salvaguardia dei diritti oggetto specifico della
proprietà: il secondo comma dell’art. 5 c.p.i. dispone infatti che devono
sussistere

motivi
legittimi
perché il titolare stesso si opponga all'ulteriore
commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è
modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio
”.

La
giurisprudenza comunitaria[13]
ha confermato che l’esistenza di una rete di distribuzione selettiva può essere
ricompresa tra i “motivi legittimi”, ostativi all’esaurimento, a condizione che
il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio che
legittimi la scelta di adottare un sistema di distribuzione selettiva.

Spetterà
al giudice nazionale, pertanto, chiamato a giudicare verificare se
sussistano “motivi legittimi” affinché il titolare del marchio possa opporsi
all’ulteriore commercializzazione dei suoi prodotti e, quindi, verificare se i
contratti di distribuzione selettiva siano conformi al diritto antitrust
europeo.[14] Ciò
consiste (per semplificare, ma lungi dal volere banalizzare) nell’accertare:

  • la liceità del sistema di distribuzione dei
    prodotti, valutando la natura dei medesimi (ossia che siano beni di lusso o,
    comunque prodotti di alta qualità o tecnologicamente sviluppati);
  • che il terzo rispetti gli standard che
    il produttore esige dai propri distributori autorizzati.

In
caso negativo, quindi se le modalità di commercializzazione utilizzate del
terzo non rispettano gli standard richiesti e siano lesivi del marchio
del produttore, tale attività sarà sottratta al principio dell’esaurimento.

Per portare qualche esempio pratico e quindi cercare di rendere per il lettore il più possibile chiara tale tematica, si riportano qui di seguito tre recenti (ed interessantissime) sentenze del Tribunale di Milano.


Il Caso Landoll s.r.l. contro MECS s.r.l.

Nella
2018 il Tribunale è stato chiamato a decidere sulla seguente questione: Landoll,
azienda leader nel settore della ricerca, sviluppo e commercializzazione
di prodotti cosmetici professionali e titolare di diversi marchi, provvedeva
alla distribuzione selettiva dei propri prodotti, sulla base di standard qualitativi
prescelti, volti alla tutela dell’immagine di lusso e prestigio. La ricorrente
ha rilevato l’offerta in vendita non autorizzata dei suoi prodotti su una
piattaforma e-commerce, riconducibile alla resistente. La ricorrente ha quindi
chiesto l’inibitoria nei confronti della resistente alla prosecuzione dell’attività
di vendita.

Il
Tribunale ha riconosciuto che la violazione dei diritti di privativa della
ricorrente sui propri marchi registrati, si evinceva dalla

 “valutazione dell’esistenza di un
pregiudizio effettivo all’immagine di lusso e di prestigio di essi che consegue
dall’esame delle modalità di presentazione al pubblico dei prodotti […] sia
su piattaforma e-commerce, che sul suo sito web
, che ne manifestano nella
loro presentazione la piana assimilazione a qualsiasi generico prodotto del
settore anche di minore qualità.”[15]

Ha
quindi inibito alla resistente l’ulteriore pubblicizzazione,
commercializzazione, offerta in vendita dei prodotti di parte ricorrente.  


Caso Sisley Italia s.r.l. contro Amazon Europe Core s.a.r.l.

In
tale vertenza,[16] Sisley
Italia s.r.l., società anch’essa leader nel settore della cosmesi e
organizzata tramite un sistema di distribuzione selettiva, ha proposto ricorso affinché
il Tribunale di Milano inibisse ad Amazon di commercializzare sul territorio
italiano i prodotti recanti i marchi Sisley, ritenendo che le modalità di immissione
in commercio utilizzate dalla resistente violassero gli standard richiesti
da Sisley ai propri distributori autorizzati. Nel dispositivo si legge che sul
portale di Amazon

i prodotti Sisley
vengono mostrati e offerti mescolati ad altri articoli, quali prodotti per la
casa e per le pulizie, prodotti comunque di basso profilo e di scarso valore
economico. Anche nella sezione ‘Bellezza Luxory’ […] il marchio Sisley è
accostato a marchi di fascia bassa, di qualità, reputazione e prezzo molto
inferiori o comunque di gran lunga meno prestigiosi.”

La
sentenza prosegue:

Laddove si
consideri che, nei propri contratti, Sisley esplicitamente richiede che i
propri prodotti vengano venduti in profumerie di lusso o in reparti
specializzati di profumeria e cosmesi di grandi magazzini, con personale
qualificato, in un determinato contesto urbano, appare indubbiamente
inadeguata, rispetto agli standard richiesti, la messa in vendita dei prodotti
in questione accanto a contenitori per microonde, prodotti per la pulizia dei
pavimenti e per gli animali domestici,”

Il Tribunale di Milano ha quindi riconosciuto che la commercializzazione e promozione di tali prodotti nella stessa pagina internet di prodotti di altre marche – anche di segmenti di mercato più bassi – fosse “lesivo del prestigio e dell’immagine del marchio Sisley.”


Ma cosa succede se i prodotti vengono importati da un paese Extra-UE? Il Caso L’Oréal.

Come
si è avuto modo di vedere condizione perché l’esaurimento ex art. 5 c.p.i.
abbia luogo è che la prima immissione in commercio sia stata effettuata dal
titolare (o con il suo consenso) e che tale immissione venga effettuata
all’interno del mercato unico.

Diversa
la situazione in cui la prima immissione viene effettuata nel mercato unico da
terzi non autorizzati: la giurisprudenza della Corte di Giustizia sin dal 1982
ha deciso che se l’immissione in commercio del bene tutelato sia effettuata dal
titolare al di fuori della Comunità, questi può far valere il proprio diritto
per opporsi all’importazione nell’Unione da parte di un distributore
extracomunitario.[17]

Applicando
tali principi il Tribunale di Milano[18]
ha vietato alla IDS International Drugstore Italia s.p.a., l’offerta in vendita
e commercializzazione, in qualsiasi modo e forma, compreso l’uso di internet
e di social network, dei prodotti L’Oréal. Tali prodotti
erano stati invero acquistati da IDS da un distributore extracomunitario,
il quale li aveva acquistati direttamente dal produttore.

Posto
che la prima immissione in commercio all’interno dell’UE non era stata
effettuata da parte del titolare (o con il suo consenso), questi continuava a
detenere, ai sensi degli art. 5 e 20 c.p.i., il diritto di opporsi all’importazione
parallela da paesi extracomunitari senza il suo consenso.

Diversa
questione sarebbe invece nel caso in cui il titolare del marchio acconsenta all’immissione
in commercio in un determinato Stato membro dello SEE; in tal caso egli esaurisce
i propri diritti di proprietà intellettuale e, quindi, non potrà più vietare l’importazione
in un diverso Stato membro.


[1] Si pensi alla
decisione Grundig approvata nel 1985 dalla Commissione, in cui
si richiedeva la presenza “di personale qualificato e di un servizio esterno
con la competenza tecnica necessaria per assistere e consigliare la clientela”,
nonché “l’organizzazione tecnica necessaria per l’immagazzinamento e il
tempestivo rifornimento degli acquirenti”; “presentare ed esporre i prodotti
Grundig in maniera rappresentativa in locali appositi, separati dagli altri
reparti, e il cui aspetto rispecchi l’immagine di mercato di Grundig”.

[2] Sul punto cfr.
PAPPALARDO, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 409, UTET,
2018.

[3] che definisce distribuzione
selettiva come: “un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si
impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o
indirettamente, solo a distributori selezionati sulle base di criteri
specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali
beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha
riservato a tale sistema.”

[4] Sentenza Metro I,
25.10.1977 e causa C-31/80, L’Oréal/ PVBA. Tale orientamento è stato confermato
anche dagli Orientamenti della Commissione al n. 175, che dispongono che “In
genere, si ritiene che la distribuzione selettiva basata su criteri puramente
qualitativi non rientri nell’ambito dell’articolo 101, paragrafo 1, in quanto
non provoca effetti anticoncorrenziali, purché vengano soddisfatte tre
condizioni. In primo luogo, la natura del prodotto in questione deve rendere
necessario un sistema di distribuzione selettiva nel senso che un tale sistema
deve rappresentare un requisito legittimo, in considerazione delle
caratteristiche del prodotto in questione, per conservarne la qualità e
garantirne un utilizzo corretto. In secondo luogo, la scelta dei rivenditori
deve avvenire secondo criteri oggettivi d’indole qualitativa stabiliti
indistintamente e resi disponibili per tutti i rivenditori potenziali e
applicati in modo non discriminatorio. In terzo luogo, i criteri stabiliti non
devono andare oltre il necessario.”

[5] In ogni caso, una risposta si ritrova all’interno degli Orientamenti della Commissione, ove al n. 176, viene affermato che: “se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva […], tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio. Se si verificano effetti anticoncorrenziali sensibili, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato”. Cfr. anche, n. 25, caso Coty Germany, sentenza del 6.12.2017, che dispone:

[6] A tal proposito, si
richiama quanto affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Metro-Saba
I
, sentenza del 25.10.1977, al par. 27 “Qualsiasi sistema di vendita
fondato sulla selezione dei punti distribuzione implica inevitabilmente –
altrimenti non avrebbe senso – l’obbligo per i grossisti che fanno parte della
rete, di rifornire solo i rivenditori autorizzati”.

[7] Caso Pierre Fabre, sentenza del 13.10.2011.

[8] Caso Coty Germany, sentenza del 6.12.2017.

[9] Cfr.
nota precedente.

[10] In tal caso, il
produttore non può imporre il divieto di effettuare vendite passive, nei
confronti dei rivenditori appartenenti alle zone in cui non esiste il sistema
selettivo, ma unicamente vietare allo stesso, ex art. 4 let. b) i), le vendite
attive.

[11] Art. 5,
comma 1, c.p.i. (Esaurimento), “Le facoltà esclusive attribuite dal presente
codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una
volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano
stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio
dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello
Spazio economico europeo.”

[12] La prassi
decisionale e la giurisprudenza europea hanno chiarito che si ha il consenso
quando l’immissione in commercio sia stata effettuata da un’impresa controllata
dal titolare del diritto di proprietà intellettuale o da un’impresa, di regola
un licenziatario, a ciò autorizzata dal titolare. L’esaurimento si verifica
quando il prodotto tutelato sia stato immesso in commercio dal titolare del
diritto “col suo consenso o da persona a lui legata da vincoli di dipendenza
giuridica o economico”
(sent. Keurkoop, cit., n. 25).  Sul punto Cfr. Pappalardo, Il diritto
della concorrenza dell’Unione Europea
, pag. 875, 2018, UTET.

[13] Caso Copad SA, sentenza del 23 aprile 2009, “Quando la commercializzazione di prodotti di prestigio da parte del licenziatario in violazione di una clausola del contratto di licenza deve considerarsi nondimeno effettuata con il consenso del titolare del marchio, quest’ultimo può invocare tale clausola per opporsi ad una rivendita di tali prodotti sul fondamento dell’art. 7, n. 2, della direttiva 89/104, come modificata dall’Accordo sullo Spazio economico europeo, solo nel caso in cui si accerti, tenuto conto delle circostanze della fattispecie, che tale rivendita nuoce alla notorietà del marchio.”

[14] Sul punto, cfr. Fratti, Distribuzione selettiva di cosmetici di lusso: il Tribunale di Milano chiarisce i presupposti per l’esclusione del principio dell’esaurimento del marchio.

[15]
Tribunale di Milano, ordinanza del 18.12.2018. Cfr. nota precedente.

[16] Tribunale di Milano, ordinanza del 3.7.2018

[17] Cfr. Pappalardo,
op. cit., pag. 878.

[18]
Tribunale di Milano, ordinanza del 19.11.2018, cfr. nota 12.


esclusiva non concorrenza contratto concessione di vendita

L’obbligo di esclusiva e il patto di non concorrenza nel contratto di concessione di vendita.

L'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario, costituendo un elemento accidentale e non essenziale del contratto, non può ricavarsi implicitamente dalla predeterminazione di una "zona" al concessionario medesimo, non essendovi alcun necessario collegamento tra zona ed esclusiva.

Il concedente non può impedire che i concessionari esclusivi di zona eseguano vendite passive al di fuori del territorio loro affidata.

1. Concessione di vendita ed esclusiva

In un rapporto di concessione di vendita, per "esclusiva", deve intendersi l’obbligo da parte del concedente di rifornire unicamente il concessionario determinati prodotti nella zona affidatagli.

Seppure tale obbligazione rientra tra le pattuizioni più spesso utilizzate, essa non costituisce una parte essenziale dell'accordo e, pertanto, non è necessaria affinché il rapporto tra concessionario e concedente possa essere considerato valido.[1]

Pertanto, se le parti non l'hanno espressamente pattuita nel contratto, non  si può né dedurre che essa sussista per il solo motivo che sia stato stipulato un contratto di concessione di vendita, né, tantomeno, per il fatto che al concessionario sia stata affidata una zona (non è per nulla insolito, infatti, che un concessionario agisca in una determinata zona affidatagli, ma senza esclusiva).[2] Sul punto, si legge in Giurisprudenza che:

l'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario, costituendo un elemento accidentale e non essenziale del contratto, non può ricavarsi implicitamente dalla predeterminazione di una "zona" al concessionario medesimo, non essendovi alcun necessario collegamento tra zona ed esclusiva.”

Ad ogni modo, non è escluso che le parti possano comunque dimostrare che tale obbligo sussista anche in assenza di un contratto scritto e provare per testi che, ad esempio, tale obbligazione derivi da un accordo verbale, oppure la stessa si evinca dallo sviluppo effettivo del rapporto (cfr. in tema di agenziaonere della prova nei contratti di agenzia). Sul punto una sentenza del 2007 della Corte d’Appello di Cagliari ha ritenuto che:

Nella concessione di vendita l'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario costituisce un elemento accidentale e non essenziale del contratto, ma la sua esistenza, qualora il contratto non rivesta la forma scritta, può essere provata per testimoni e con ogni altro mezzo idoneo (nel caso di specie l'esistenza della clausola di esclusiva è stata desunta, tra l'altro, dalla circostanza che la casa madre rifiutasse rapporti diretti con i terzi indirizzandoli verso il concessionario, dalla pubblicità sulle pagine gialle e dalla mancanza di altri concessionari nella zona).

Nel caso le parti non avessero indicato l’ambito di applicazione dell’esclusiva, essa deve ragionevolmente intendersi estesa all’intera zona affidata al concessionario; quanto ai prodotti, invece, la stessa dovrà riferirsi ai prodotti contrattuali.[3]

2. Vendite passive fuori dal territorio.

Ciò premesso, ci si domanda se il concedente, che si è impegnato a vendere in esclusiva determinati prodotto ad un concessionario esclusivo di zona (ad es. Lombardia e Piemonte), possa vendere gli stessi prodotti a soggetti fuori dal territorio, sapendo che gli stessi (potenzialmente) potrebbero rivenderli nel territorio del concessionario stesso. La Cassazione, in un orientamento più “datato” ha ritenuto che:

il patto di esclusiva comporta, con riferimento alla zona contemplata e per la durata del contratto, il divieto di compiere, non solo direttamente, ma anche indirettamente, prestazione della stessa natura di quelle formanti oggetto del contratto. […] Il divieto di commerciare […] gli stessi prodotti nella zona riservata, […] imponeva al concedente – in conformità al dovere di correttezza che costituisce il limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva contrattualmente attribuita – di astenersi da ogni comportamento idoneo ad incidere sul risultato perseguito.

Tale orientamento deve essere comunque aggiornato e “calato” in un nuovo assetto normativo, in linea con le disposizione di cui al regolamento (UE) n. 330/2010 della Commissione europea, in tema di accordi tra imprese che operano a livelli differenti della catena di produzione e distribuzione (accordi verticali).

In particolare, l’art. 4 del Regolamento, sancisce che non è considerato illecito impedire all’acquirente di effettuare vendite attive in territori o gruppi di clienti che il fornitore riserva a se stesso, ovvero attribuisce in esclusiva ad un altro acquirente, purché la restrizione non limiti anche le vendite da parte dei clienti dell’acquirente.

Per meglio comprendere detta norma, è importare effettuare una breve distinzione tra vendite attive e vendite passive: semplificando, una vendita passiva, può essere definita come un “acquisto”, in quanto l’iniziativa viene presa dall’acquirente;[4] la vendita attiva, invece, è una conseguenza di una strategia imprenditoriale e di azioni di marketing mirate.

Alla luce delle previsioni qui sopra brevemente riportate, un concedente può certamente creare una rete esclusiva, definendo i territori in cui i propri concessionario possono promuovere e commerciare i propri prodotti, ma limitando tali restrizioni unicamente alle vendite attive. Il concedente non può, pertanto, impedire che i concessionari esclusivi di zona non accettino ed eseguano vendite passive nei confronti di soggetti estranei alla zona a loro affidata; ciò che invece è possibile escludere e impedire è che il concessionario di zona, effettui delle vendite attive, che sono il risultato di campagne marketing o strategie commerciali eseguite al di fuori del proprio territorio.

Il concedente ha comunque un obbligo di controllo sulla rete dei propri concessionari (salvo che tale obbligo non sia contrattualmente escluso[5]) , potendo ritenersi responsabile di eventuali violazioni di esclusiva all’interno della sua rete di distribuzione e, in alcuni casi, addirittura “intervenire per contrastare il comportamento degli altri concessionari.[6]

Da ultimo, si sottolinea che la violazione del diritto di esclusiva:

si configura come comportamento contrario ai doveri di correttezza e buona fede e costituisce grave inadempimento contrattuale da cui consegue la risoluzione del contratto.

3. Concessione di vendita e obbligo di non concorrenza

Quanto, invece, all'obbligo di non concorrenza da parte del concessionario, anch'esso non costituisce un elemento naturale del contratto e, quindi, in assenza di previsione espressa, il concessionario sarà libero di trattare prodotti concorrenti.[7] Come per il patto di esclusiva, le parti possono comunque dimostrare per testimoni la sussistenza di tale obbligo.

Resta comunque fermo l’obbligo del concessionario di svolgere la propria attività in linea con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, non potendo svolgere attività che possa danneggiare il mercato, il marchio e il commercio del concedente.

Circa la durata del patto di non concorrenza del concessionario, essa non è sottoposta ai limiti (cinque anni) imposti dall’art. 2596 c.c., in quanto non applicabile alla disciplina in esame.[8]

_____________________________

[1] Appello Cagliari, 11/04/2007; Cass. Civ. 2004 n. 13079; sul punto cfr. Baldi – Venezia, Il contratto di agenzia, la concessione di vendita, il franchising, 2014, pag. 135, GIUFFRÈ.

[2] Cass. Civ. 2004 n. 13079; Cass. Civ. 1994, n. 6819; Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, pag. 552, WOLTERS KLUWER.

[3] BORTOLOTTI, pag. 553, op. cit.

[4] http://www.impresapratica.com/internet-marketing/vendita-attiva-o-passiva/

[5] Trib. Bologna 4.5.2012.

[6] Cass. Civ. 2003 n. 18743.

[7] BORTOLOTTI, pag. 557, op. cit.

[8] Cass. Civ. 2000, n. 1238.


Il recesso dal contratto di concessione di vendita e/o distribuzione. Breve analisi.

"Il contratto di concessione di vendita non è regolato dalla legge italiana e segue le norme generali sui contratti, con applicazione di alcuni principi in tema di mandato e somministrazione. Se il contratto è stato stipulato a tempo determinato, non può essere sciolto in anticipo salvo gravi inadempienze; se a tempo indeterminato, può essere sciolto unilateralmente con congruo preavviso. Il termine di preavviso, se non pattuito, viene determinato in base alla durata del contratto e agli investimenti effettuati; qualora le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso si discute se il giudicante possa svolgere valutazioni sulla sua congruità.

Posto che il contratto di concessione di vendita non è espressamente regolato dal nostro ordinamento, si applicano allo stesso i principi generali previsti in materia di contratti, ponendo comunque particolare attenzione alle disposizioni previste per il contratto di somministrazione (1559 e ss. c.c.) e di mandato (1703 e ss. c.c.), tipologie negoziali molto vicine a quella in esame.

Qualora il contratto di concessione sia stato stipulato a tempo determinato, esso durerà fino alla naturale scadenza non potendo quindi essere sciolto anticipatamente in via unilaterale da una delle parti, salvo il caso di (grave) inadempimento.[1]

Contrariamente, qualora il contratto di concessione di vendita abbia durata indeterminata, esso potrà essere sciolto unilateralmente, senza la necessità di invocare una giusta causa, ma previa concessione di un congruo preavviso. Dottrina e giurisprudenza giungono a tale conclusione, sia in applicazione analogica dei principi dettati in tema di somministrazione (art. 1569 c.c.)[2] e mandato (art. 1725 c.c.),[3] ma altresì poggiandosi alle disposizioni generali dell’ordinamento in ambito di recesso unilaterale ed in applicazione dei principi di buona fede ex art. 1375 c.c.

Un rilevante problema si apre in merito all’individuazione della durata del preavviso, in tutti quei casi in cui le parti non lo abbiano pattuito contrattualmente; tale evenienza può riscontrarsi non solamente qualora i contraenti non abbiano pensato di regolamentare tale questione in sede di redazione del contratto quadro, ma anche nella ben più complessa situazione, in cui il rapporto tra le parti, partito come rapporto di semplice acquirente venditore, si è di fatto nel tempo “trasformato” in un contratto di vera e propria distribuzione (sul punto, confronta l’articolo Concessione di vendita, distributore o cliente abituale? Differenze, elementi caratterizzanti e criteri interpretativi).

Per comprendere cosa si intenda per congruo preavviso e, quindi, per dare un valore temporale a questo termine, bisogna fare riferimento agli interessi del soggetto che “subisce” il recesso, dovendo il recedente concedere un termine che possa permettere di prevenire, almeno parzialmente, gli effetti negativi derivanti dall’interruzione del rapporto;[4] pertanto il concessionario dovrà avere la possibilità di recuperare una parte degli investimenti compiuti (ad es. lo smaltimento delle rimanenze di magazzino), mentre il concedente avere tempo sufficiente per potere riacquistare le merci ancora giacenti presso il concessionario, così da poterle reinserire nel circuito distributivo.[5]

Per dare un taglio più pratico a tale tematica, si elencano qui sotto alcuni casi decisi dalla giurisprudenza, ove è stato ritenuto come:[6]

  • congruo un termine di 18 mesi, con riferimento ad un contratto durato 25 anni circa;[7]
  • non congruo un termine di 6 mesi (sostituito poi con uno di 12 mesi), per un contratto di 10 anni di durata;[8]
  • congruo un preavviso di 3 mesi in relazione ad un contratto di 26 mesi.[9]

In altre situazioni la giurisprudenza ha applicato quale parametro di riferimento il periodo di preavviso previsto dalle disposizioni in ambito di agenzia.[10]

Qualora invece le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso, la giurisprudenza maggioritaria è concorde nel ritenere che si debba comunque fare riferimento a tale termine, anche se molto breve, ritenendo che il Giudicante non possa svolgere alcuna valutazione sulla congruità del preavviso concordato dalle parti.[11]

Con riferimento a tale specifica questione, ossia in ordine alla sindacabilità del termine di preavviso concordato dalle parti, è sicuramente importante tenere presente una rilevante pronuncia della Cassazione del 18 settembre 2009,[12] che ha sancito una serie di interessanti principi. Nel merito, la controversia è stata promossa da una associazione creata da diversi ex concessionari d’auto, nei confronti della casa madre Renault, la quale aveva risolto i rapporti contrattuali con detti concessionari concedendo come termine di preavviso il periodo di 1 anno, in conformità delle disposizioni contrattuali; i concessionari chiedevano la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto. Tale procedimento è stato respinto in primo e secondo grado, ma accolto in ultima istanza da parte della Corte, la quale ha ritenuto che non si possa escludere la possibilità del giudicante di valutare se il diritto di recesso ad nutum sia stato esercitato secondo buona fede, ovvero, contrariamente, possa essere configurabile un esercizio abusivo di tale diritto. La Cassazione è giunta a tale conclusione tramite l’utilizzo del criterio della buona fede oggettiva, che deve considerarsi quale “canone generale cui ancorare la condotta delle parti.[13]

Suddetto orientamento è stato contestato da parte dalla dottrina,[14] che ha ritenuto debba essere considerato con la massima prudenza”. A conferma di ciò il fatto stesso che:

“anche dopo tale sentenza non ci risultano essere stati casi di applicazione concreta di tale principio da parte della giurisprudenza; è auspicabile, che la nozione di abuso del diritto continui ad essere applicata solo in casi estremi e giustificati.”

Contrariamente, non ci sono dubbi sulla validità del recesso in tronco, e quindi senza la concessione di un preavviso, in caso di giusta causa.[15]

Quanto all’apposizione nel contratto di distribuzione di una clausola risolutiva espressa, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la stessa possa essere validamente inserita nell’accordo (contrariamente a quelle che sono gli orientamenti in tema di contratto di agenzia).

Qualora il rapporto venga sciolto in tronco senza giusta causa, la parte che ha provveduto a terminare il rapporto è tenuta a risarcire il danno al soggetto che ha subito tale iniziativa. Al fine del calcolo del danno, bisognerà tenere conto dei guadagni che il concessionario avrebbe presumibilmente ottenuto nella parte residua del contratto (sulla base dello storico del fatturato) ovvero delle spese sostenuto dal concessionario per l’organizzazione e la promozione delle vendite in previsione della maggiore durata del rapporto.

La giurisprudenza è invece unanime nel ritenere che l’indennità di risoluzione del rapporto in favore del concessionario debba essere esclusa e non possono applicarsi a tale tipologia contrattuale le disposizioni in ambito di agenzia.[16]

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[1] Cass. Civ. 1968 n. 1541.; in dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 139, CEDAM. 

[2] È convinzione unanime in dottrina che alla fattispecie possa applicarsi analogicamente l’art. 1569 c.c., relativo appunto al contratto di somministrazione, secondo cui ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza che sia necessario invocare al riguardo una giusta causa (cfr. sul punto I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET)

[3] Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, Vol. II, Bortolotti, 2007, pag. 42, CEDAM.

[4] In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM; In giurisprudenza Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013;

[5] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET

[6] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 564, Wolters Kluver.

[7] Trib. Treviso 20 novembre 2015 in Leggi d’Italia.

[8] Trib. Napoli 14 settembre 2009 in Leggi d’Italia.

[9] Trib. Bologna 21 settembre 2011 in Leggi d’Italia.

[10] Trib. Bergamo 5 agosto 2008 in Agenti e Rappresentanti di commercio 2010, n. 1, 34.

[11] Cfr. Trib. Torino 15.9.1989 (che ha considerato congruo un termine di 15 giorni); Trib. di Trento del 18.6.2012 (che ha considerato congruo un termine di 6 mesi per rapporto durato 10 anni).

[12] Cass. Civ. 2009, n. 20106.

[13] Cass. Civ. 18.9.2009 “In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. […] L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre Cass. Civ. 2007 n. 3462)”

[14] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 565, Wolters Kluver

[15] Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013

[16] Trib. Trento 18.6.2012; Cass. Civ. 1974 n. 1888; Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 567, Wolters Kluver; Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 153, CEDAM


Concessione di vendita, distributore o cliente abituale?

Il contratto di concessione di vendita è un accordo di distribuzione integrata tra due o più imprenditori e spesso è difficile distinguere tra un rapporto concessionario-concedente, da un rapporto di vendita con un cliente abituale; la Corte di Giustizia europea ha indicato alcuni criteri distintivi e caratterizzanti che aiutano una sua qualificazione, come la predeterminazione dei prezzi, l'esclusività e un alto volume di rapporti di vendita.

Il contratto di concessione di vendita (anche chiamato contratto di distribuzione), rappresenta una delle forme più diffuse di distribuzione integrata e viene utilizzato sia a livello di commercializzazione tramite rivenditori (come possono essere gli importatori esclusivi responsabili di una Stato), che al dettaglio (si pensi al classico esempio dei concessionari di macchine).

Tale contratto, seppure nel nostro paese non è legislativamente disciplinato,[1] si concretizza, in linea di massima, nella commercializzazione di particolari prodotti, attraverso un’azione coordinata tra due o più imprenditori: il concedente (che si impegna a produrre) e il concessionario che si impegna ad acquistare periodicamente i prodotti.[2]

Ecco i principali caratteri distintivi di tale tipologia contrattuale:[3]

  1. è un contratto di distribuzione, avente come oggetto e scopo principale la commercializzazione dei prodotti del concedente;
  2. il concessionario gode di una posizione di privilegio (quale ad esempio, seppure non necessaria, l’esclusiva di zona), quale contropartita degli obblighi che si assume per garantire una corretta distribuzione dei prodotti;
  3. il concessionario opera in qualità di acquirente rivenditore e pertanto, diversamente dall’agente e/o dal procacciatore, non promuove solamente i prodotti della casa madre, ma li acquista accollandosi i relativi rischi di rivendita (cfr. differenze principali tra l’agente e il concedente).
  4. il concessionario viene integrato nella rete distributiva del concedente, essendo obbligato a rivendere i prodotti secondo le direttive e le indicazioni del concedente stesso.

Ciò premesso, molto frequentemente, soprattutto nei casi in cui le parti non hanno regolato in maniera specifica il rapporto di collaborazione, si pone il problema di stabilire se la controparte del concedente sia un concessionario, ovvero un semplice "cliente abituale". Si pensi al caso in cui il concedente inizia a vendere in un mercato ad un determinato soggetto, il quale gradualmente assume maggiori responsabilità ed impegni tipici del concessionario (ad es. obbligo di promozione): in tali casi si pone il problema di comprendere se il rapporto tra le parti sia qualificabile come una serie di contratti di vendita, piuttosto che come esecuzione di un contratto di concessione di vendita e quindi se l’acquirente, di fatto, da semplice cliente si è “trasformato” in concessionario, responsabile della distribuzione dei prodotti in un determinato territorio di sua competenza.

La giurisprudenza sul punto, ritiene che sussiste un contratto di concessione di vendita, ogni volta che un

contratto innominato, […] si caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano strutturale, in un contratto quadro […], dal quale deriva l’obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita ovvero l’obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell’accordo iniziale.”[4]

Una delle principali conseguenze della qualificazione di un rapporto come concessione di vendita e non semplice rapporto tra produttore e cliente abituale, è che il contratto di concessione viene normalmente inquadrato come contratto di durata, che non può essere risolto senza riconoscere un congruo preavviso al distributore. Di conseguenza, ove la situazione si configuri effettivamente come in quest’ultimo modo, vi sarà l’obbligo del venditore di rispettare un preavviso ove decida di cessare di rifornire la controparte e viceversa, l’obbligo dell’acquirente di acquistare i prodotti dal concedente, nel periodo di preavviso.[5]

Nel 2013, la Corte di Giustizia europea, nella sentenza Corman-Collins,[6] ha tentato di definire in maniera più precisa possibile quelli che sono i tratti caratteristici del concessionario, al fine di distinguere tale figura dal “cliente abituale”.

In particolare, secondo i Giudici della Corte, un rapporto commerciale durevole tra operatori economici è configurabile come compravendita di beni quando

si limiti ad accordi successivi, ciascuno avente ad oggetto la consegna e il ritiro di merce.”

Contrariamente deve ritenersi il rapporto come concessione di vendita, quando la distribuzione è regolata (per iscritto oppure di fatto) da

un accordo quadro avente ad oggetto un obbligo di fornitura e di approvvigionamento concluso per il futuro, che contiene clausole contrattuali specifiche relative alla distribuzione da parte del concessionario della merce venduta dal concedente.

In conclusione, secondo la Corte, se il rapporto si limita alla fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che esso prosegua anche per un periodo di lunga durata, esso deve essere qualificato come un cliente abituale, che effettua nel tempo diverse compravendite. Nel caso invece in cui il rivenditore assume specifici obblighi tipici della distribuzione, il rapporto andrà qualificato come concessione di vendita.

Ad ogni modo, tali criteri interpretativi dettati dalla Corte di Giustizia, devono essere utilizzati dai giudici nazionali, i quali sono demandati ad individuare gli elementi da cui desumere se siano stati assunti o meno tali obblighi. In particolare, bisognerà andare a verificare come si è effettivamente sviluppato il rapporto tra le parti, anche indipendentemente dal fatto che le parti abbiano o meno stipulato un contratto.

Tali principi non sono sempre di facile applicazione e non sempre portano ad una interpretazione univoca. Si allegano qui di sotto, a titolo esemplificativo, alcuni elementi caratterizzanti e che possono, secondo la giurisprudenza italiana, fare tendere per la qualificazione del rapporto come concessione di vendita, ossia

  • la predeterminazione dei prezzi di rivendita e relativa scontistica, l’esistenza di un’esclusiva, una rilevante, continuativa ed economicamente cospicua serie di contratti di compravendita di prodotti della concedente;[7]
  • accordi sulla vendita dei prodotti “sottomargine”, il fatto che la concessionaria fosse depositaria dei prodotti, che il volume del fatturato delle vendite era rilevante.[8]

 

[1] Soltanto in Belgio la concessione di vendita è stata disciplinata già con la l. 27 luglio 1961.

[2] Cfr. sul punto Bocchini e Gambino, I contratti di somministrazione e di distribuzione, 2017, UTET, pag. 640 e ss.

[3] Cfr. sul punto Bortolotti, Manuale di diritto della distribuzione, CEDAM, 2007, pag. 2 e ss.; Bortolotti, Contratti di Distribuzione, Itinera, 2016, pag. 538 e ss.

[4] Cass. Civ., n. 1469 del 1999; Cass. Civ., n. 13569 del 2009.

[5] Cass. civ., n. 16787 del 2014; Appello Cagliari 2 febbraio 1988.

[6] Sentenza 19.12.2013, nella causa C-9/12.

[7] Cass. Civ., n. 17528 del 2010.

[8] Cass. Civ., n. 13394 del 2011.