Vendita di beni, giurisdizione e incoterms

Vendita di beni, giurisdizione e Incoterms (Wx-Works, FCA, CTP e CIF) .

In che maniera l'inserimento di una clausola Inconterms (ex-works, FCA, CIF), può influire sulla giurisdizione in caso di vendita di beni mobili? Brevi cenni sulla normativa europea e sugli sviluppi giurisprudenziali della giurisprudenza italiana ed europea.

1. Giurisdizione, vendita e incoterms: brevi cenni sulla normativa europea

In caso di compravendita di beni in ambito europeo, le parti hanno la facoltà di concordare in anticipo quali giudici saranno competenti a decidere su eventuali controversie che possano insorgere tra loro. Tale principio, di deroga del foro, è disciplinato dall’art. 25 del Regolamento UE 1215/2012,[1] che prevede come condizione di validità il fatto che l’accordo attributivo della giurisdizione sia stato:

  • concluso per iscritto o provato per iscritto;[2]
  •  in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; o
  • nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato.

Qualora le parti non abbiano espressamente formulato tale scelta, la giurisdizione sarà principalmente regolata dai seguenti principi:

  • il principio generale del foro del convenuto (art. 4 del Regolamento) e
  • il principio dell'”esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio” (art. 7 del Regolamento).

Con specifico riguardo a tale secondo opzione, l’art. 7 del Regolamento, dispone che una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro:

  1. in materia contrattuale, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio;[3]
  2. ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è: nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al con­tratto.”[4]

Leggendo tale norma, non si comprende appieno cosa debba intendersi per “luogo di consegna”, ossia se si debba considerare tale luogo quello in cui è avvenuta la consegna materiale al venditore, oppure se possa ritenersi sufficiente il luogo di consegna al vettore.

Per sciogliere tale dilemma è venuta in soccorso la Corte di Giustizia,[5] affermando che:

L’art. 5, punto 1, lett. b), primo trattino, del regolamento n. 44/2001[6] deve essere interpretato nel senso che, in caso di vendita a distanza, il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto deve essere determinato sulla base delle disposizioni di tale contratto

Se non è possibile determinare il luogo di consegna su tale base, senza far riferimento al diritto sostanziale applicabile al contratto,[7] tale luogo è quello della consegna materiale dei beni mediante la quale l’acquirente ha conseguito o avrebbe dovuto conseguire il potere di disporre effettivamente di tali beni alla destinazione finale dell’operazione di vendita.”

2. Vendita di beni, giurisidizione ed incoterms: le pronuncie delle Sezioni Unite e della Corte di Giustizia.

A tale principio si è adeguata la giurisprudenza italiana: le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che in tema di vendita internazionale di beni mobili, qualora il contratto abbia ad oggetto merci da trasportare (se non diversamente concordato dalle parti), il “luogo di consegna” deve essere individuato nel luogo di recapito finale della merce, ossia ove i beni entrano nella disponibilità materiale e non soltanto giuridica dell’acquirente, con conseguente giurisdizione

del giudice del [luogo di recapito finale della merce] rispetto a tutte le controversie reciprocamente nascenti dal contratto, ivi compresa quella relativa al pagamento dei beni alienati.[8]

Fissato tale principio, nel 2011 alla Corte di Giustizia[9] è stato sottoposto un nuovo quesito, ossia se nel contesto dell’esame di un contratto, al fine di determinare il luogo di consegna, il giudice debba anche tenere conto degli Incoterms. La Corte si è così espressa:

“il giudice nazionale adito deve tenere conto di tutti i termini e di tutte le clausole rilevanti di tale contratto che siano idonei a identificare con chiarezza tale luogo, ivi compresi i termini e le clausole generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale, quali gli Incoterms («International Commercial Terms»), elaborati dalla Camera di commercio internazionale, nella versione pubblicata nel 2000.

In particolare,

per quanto riguarda l’Incoterm «Ex-Works», […] tale clausola comprende […] anche le disposizioni dei punti A4 e B4, intitolati rispettivamente «Delivery» e «Taking delivery», che rinviano al medesimo luogo e consentono quindi di individuare il luogo di consegna dei beni.

La Corte UE ha quindi stabilito che gli Incoterms, possono essere un elemento che permette al giudice di comprendere se le parti abbiano o meno concordato un luogo di consegna differente rispetto al luogo di recapito finale. In particolare, con l’accettazione delle parti del termine “ex-works Iconterms”, le parti concordano che la consegna materiale della merce debba avvenire presso la sede del produttore e, pertanto, in caso di mancata deroga di competenza delle parti, il giudice competente a decidere sarà quello della sede del venditore.

La giurisprudenza nazionale ha recepito tale orientamento, precisando comunque che il principio generale della consegna materiale può essere derogato unicamente se ciò si evince sulla base di una “chiara ed esplicita” determinazione contrattuale. La Cassazione[10] ha quindi negato che possa “assumere valore la dicitura ex Works unilateralmente inserita nelle fatture emesse da parte venditrice, dovendo tale modalità di consegna essere stata concordata tra le parti.

La Corte di Cassazione, ha ritenuto che tali caratteristiche di chiarezza, non risultano da tutti i termini previsti negli Incoterms, posto che per essere valida anche ai fini della determinazione della giurisdizione e, quindi, assumere prevalenza, deve essere chiara, esplicita ed inequivocabile.

È stato quindi negato che le clausole CTP,[11] CIF[12] e FCA[13] palesino una chiara ed univoca volontà delle parti di stabilire il luogo di consegna della merce, in deroga al criterio fattuale del recapito finale, atteso che tali clausole sono piuttosto intese a regolamentare la ricaduto del rischio sul compratore.[14]


[1] Regolamento che ha sostituito il precedente Regolamento UE 44/2001.

[2] Con riferimento alla forma scritta, essa “comprende qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo della competenza” ex art. 25.2 del reg. La Corte di giustizia ha chiarito che le finalità di tale articolo è “quella di equiparare determinate forme di comunicazione elettronica alla forma per iscritto, in vista di semplificare la conclusione dei contratti con mezzi elettronici, poiché la comunicazione delle informazioni sono accessibili attraverso uno schermo.

Affinché la comunicazione elettronica possa offrire le stesse garanzie, in particolare in materia di prova, è sufficiente che sia ‘possibile’ salvare e stampare le informazioni prima della conclusione del contratto.” (CG UE 21.5.2015, CarsOnTheWeb.Deutschland GmbH). Le Sez. Un. della Cassazione 2009 n. 19447, hanno altresì affermato che la forma scritta di cui all’art. 23.2 del reg. 01/44 potesse essere integrata dalla registrazione delle fatture emesse dalla controparte sui sistemi elettronici interni della società.

[3] La giurisprudenza europea, ha affermato che, ove sussistano più obbligazioni derivanti dallo stesso contratto “il giudice adito, per determinare la propria competenza, si orienterà sul principio secondo il quale l’accessorio segue il principale; in altre parole sarà l’obbligazione principale, fra le varie in quesitone, quella che determinerà la competenza” CG UE 15.1.1987, Shenavai;  15.6.2017 Saale Kareda.

[4] Tale clausola, riprende parimenti quella di cui all’art. 5, 1, lett. b. del reg. 44/2001. In particolare, con tale disposizione il legislatore comunitario ha inteso rompere esplicitamente, per i contratti di vendita, con la passata soluzione secondo cui il luogo di esecuzione era determinato, per ciascuna delle obbligazioni controverse, in conformità del diritto internazionale privato del giudice adito.

Designando il luogo di esecuzione, il legislatore comunitario ha voluto centralizzare la competenza giurisdizionale nel luogo di adempimento e determinare una competenza giurisdizionale unica per tutte le domande fondate sul contratto di vendita. In materia cfr. anche CG UE 3.5.2008, Color Drack. Sul punto cfr. Pirruccio, Contratti inutilizzabili se non esplicite le clausole Incoterms, Guida al Diritto, 35-36, 2019, Gruppo24Ore.)

[5] Sentenza Car. Trim GmbH C-381/08.

[6] Disposizione che è stata parimenti ripresa dall’art. 7, co. 1, lett. b) del reg. 1215/2012.

[7] Secondo la dottrina (Pirruccio, op. cit.) ai fini dell’individuazione del “luogo di consegna” dei beni non è possibile fare riferimento alle definizioni del diritto nazionale (quale l’art. 1510 c.c.) dalla cui applicazione rischierebbe di essere vanificata la finalità del Regolamento. Attenzione (!), tale ultima disposizione, può invece essere utilizzata (almeno come spunto difensivo) nel caso in cui la vendita abbia carattere extra UE e, quindi, non si applica il Regolamento: cfr. Cass. Civ. 1982 n. 7040.

[8] Cass. Civ. Sez. Un. 2009 n. 21191, Cass. Civ. 2014 n. 1134. Attenzione(!) in caso di mancata applicazione del diritto Europeo (ad es. per le vendite extra UE): contra Cass. Civ. sez. Un. 2011 n. 22883.

[9]Sentenza Electrosteel Europe SA – Causa
 C‐87/10.

[10] Cass. Civ. ordinanza n. 24279 del 2014.

[11] Tribunale di Padova, 3.5.2012.

[12] Cass. Civ. 2018 n. 32362.

[13] Cass. Civ. 2019 n. 17566.

[14] In materia cfr anche http://www.membrettilex.com/ruolo-degli-incoterms-2010-nella-determinazione-del-giudice-competente/.


Contratto di appalto e vendita

Contratto di vendita o contratto di appalto? ...e cosa succede se si applica la convenzione di Vienna?

Secondo il diritto italiano, ai fini della differenziazione tra contratto di appalto e vendita (di cosa futura), costituisce principio generale la prevalenza o meno del lavoro sulla fornitura della materia. Questo significa che, in linea di massima, si ha un contratto di appalto e non di vendita ogni volta che la prestazione della materia costituisce un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio.

1. Differenza tra contratto di vendita e applato.

In caso di vendita di cosa futura, ossia tutte le volte in cui oggetto della transazione è un bene che deve essere ancora realizzato, si può porre una problematica di grande rilevanza pratica e di notevole complessità giuridica, comprendere se il contratto possa essere identificato come compravendita oppure, contrariamente, come un contratto di appalto.

Secondo il diritto italiano, ai fini della differenziazione tra il contratto di appalto e quello di vendita (di cosa futura), costituisce principio generale la prevalenza o meno del lavoro sulla fornitura della materia. Questo significa che, in linea di massima, si ha un contratto di appalto e non di vendita ogni volta che la prestazione della materia costituisce un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio.

Si pensi al classico esempio in cui, oggetto del negozio è un bene che rientra nella produzione ordinaria di una imprese, ma al quale il committente richiede che vengano apportare alcune modifiche. In tali casi, secondo la giurisprudenza, si avrà appalto, tutte le volte in cui tali modifiche, consistono non già in accorgimenti marginali e secondari diretti ad adattarle alle specifiche esigenze del destinatario della prestazione, ma sono tali da dar luogo ad un bene nuovo, diverso rispetto a quello oggetto della normale produzione. La giurisprudenza italiana, punta in particolare l'attenzione, non tanto sulla quantità di lavoro che viene richiesta per apportare tali modifiche, bensì piuttosto sulla tipologia di modifiche che sono state effettivamente apportate al prodotto. [1]

Inoltre, nel caso il contratto prevedesse la messa in opera e/o l'installazione del bene stesso, la giurisprudenza italiana, fa un ulteriore distinguo: si deve considerare contratto di vendita (con annesso obbligazione di posa in opera), nel caso in cui

la fornitura ed eventualmente anche la posa in opera qualora l'assuntore dei lavori sia lo stesso fabbricante o chi fa abituale commercio dei prodotti e dei materiali di che trattasi, salvo, ovviamente, che le clausole contrattuali obbligano l'assuntore degli indicati lavori a realizzare un quid novi rispetto alla normale serie produttiva […].

Qualora, invece, l'assuntore dei lavori di cui si dice non è nè il fabbricatore, nè il rivenditore del bene da installare o mettere in opera, l'attività di installazione di un bene svolta dal prestatore, risultando autonoma rispetto a quella di produzione e vendita, identifica o rinvia ad un contratto di appalto, dato che la materia viene in considerazione quale strumento per la realizzazione di un'opera o per la prestazione di un servizio.”[2]


2. E se si applica la Convenzione di Vienna?

Una diverso approccio si ha, invece, nel caso in cui al rapporto sia applicabile la Convenzione di Vienna, sulla vendita internazionale di beni mobili, del 1980.
Tale convenzione, si applica al rapporto tutte le volte in cui oggetto del contratto sia la vendita fra parti aventi la loro sede di affari in Stati diversi; nello specifico, l’art. 1 della Convenzione, dispone che la stessa si applica:

  • “quando questi Stati sono Stati contraenti; o
  • "quando le norme di diritto internazionale privato rimandano all'applicazione della legge di uno Stato contraente."

Leggi anche - Altri articoli sulla Convenzione di Vienna.

Certamente, anche nel caso dell’applicazione della Convenzione di Vienna, si pone comunque la problematica relativa all’identificazione del rapporto contrattuale e, nello specifico, di comprendere se il rapporto possa essere identificato come compravendita (con conseguente applicazione della Convenzione stessa), oppure se si tratti di un contratto di appalto.

Sul punto, la stessa Convenzione detta dei principi interpretativi, che permettono alle parti di identificare che cosa debba considerarsi per "vendita". L’art. 3, comma 1 del Convenzione, fa rientrare come contratto di compravendita, anche

"[...] sono considerate vendite i contratti di fornitura di merci da fabbricare o produrre, a meno he la parte che ordina queste ultime non debba fornire una parte essenziale del materiale necessario a tale fabbricazione o produzione."

Inoltre il secondo comma del succitato articolo, dispone che:

La presente Convenzione non si applica ai contratti in cui la parte preponderante dell'obbligo della parte che fornisce le merci consiste in una fornitura di mano d'opera o altri servizi.

Tale articolo estende alla sfera di applicazione della Convenzione, anche i contratti, per i quali il venditore, oltre alla consegna della cosa ed al trasferimento della proprietà,  si impegna altresì ad offrire lavoro o altri servizi, a patto che tali servizi non costituiscano la “parte preponderante” (in inglese “preponderant part”), delle obbligazioni del venditore stesso.

Al fine di comprendere se l’apporto di lavoro/servizi sia “preponderante”, deve essere effettuato un confronto sul valore economico dei servizi offerti e il valore della componente materiale stessa del bene,[3] come se costituissero due contratti distinti e separati.[4] Pertanto, quando l'obbligo per la fornitura di manodopera o servizi è superiore al 50 per cento degli obblighi del venditore, la Convenzione non è applicabile.[5] Alcuni tribunali richiedono che il valore dell'obbligo di servizio "chiaramente" superi quello della merce.[6]

Ciò che contraddistingue essenzialmente i due approcci, è che le Corti italiane, tendono a dare meno peso al rapporto che c’è tra il valore economico del materiale ed i servizi ad esso collegati: la differenza tra appalto e contratto di compravendita, consiste principalmente nell’obbligazione che l’imprenditore si è assunto, ossia identificare se lo stesso si è impegnato a fornire un prodotto che rientra nella propria normale attività produttiva, ovvero se è necessario apportare al prodotto (di linea) modifiche consistenti, tali da dar luogo ad un prodotto diverso, nella sua essenza, da quello realizzato normalmente dal fornitore.


[1] Cass. Civ. 2001 nr. 6925; Cas. Civ. 1994 nr. 7697.

[2] Cass. Civ. 2014, nr. 872.

[3] Obergericht Aargau, Switzerland, 3 marzo 2009; Bundesgerichtshof, 9 giugno 2008; Court of Arbitration of the International Chamber of Commerce, 2000.

[4] Kantonsgericht Zug, Svizzera, 14 dicembre 2009

[5] Kantonsgericht Zug, Switzerland, 14 December 2009, available on the Internet at www.cisg-online.ch; Tribunal of International Com- mercial Arbitration at the Russian Federation Chamber of Commerce and Industry, Russia, Award No. 5/1997, English translation availa- ble on the Internet at www.cisg.law.pace.edu;

Bundesgericht, Switzerland, 18 May 2009, English translation available on the Internet at www.cisg.law.pace.edu (applying the Convention to a purchase of a packaging machine consisting of ten individual devices as well as several transportation and interconnection systems, which also imposed upon the seller the obligation to install the packaging machine and prepare its operation at the buyer’s works).

[6] Kreisgericht Bern-Laupen, Switzerland, 29 January 1999, available on the Internet at www.cisg-online.ch.


L'obbligo previdenziale dell'agente italiano e del preponente straniero.

La Fondazione ENASARCO è l’Ente Nazionale di Assistenza per gli Agenti e Rappresentanti di Commercio e fu costituita nel 1938. Dal 1973[1] l’ENASARCO è divenuto un soggetto di diritto privato che persegue finalità di pubblico interesse mediante la gestione di forme di pensioni integrative obbligatorie a favore degli Agenti e Rappresentanti di Commercio ed il cui controllo pubblico è affidato al Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali e al Ministero dell’Economia e Finanze.

Le attività dell’ENASARCO, la natura giuridica e i compiti che la Fondazione persegue sono regolati dal Regolamento della Attività Istituzionali, che è stato recentemente modifica in data 1 gennaio 2012.

Gli artt. 1 e 2 del Regolamento impongono l’obbligo d’iscrizione e conseguentemente di contribuzione alla Fondazione ENASARCO in capo a tutti gli agenti (sia in forma individuale, che in forma di società) che operano sul territorio nazionale per conto di preponenti italiane o di preponenti straniere che abbiano sede o una qualsiasi .

Nulla viene disposto dal Regolamento 2012 sull’obbligo di iscrizione degli agenti che operano in Italia in favore di preponenti dell’Unione Europea che non hanno sede o dipendenza in Italia. Tale “vuoto” normativo è stato colmato da una circolare della ENASARCO[2] e da un interpello del Ministero del lavoro[3] che hanno allargato l’obbligo di iscrizione anche alle seguenti categorie:[4]

  • per gli agenti operanti in Italia e all’estero, purché l’agente risieda in Italia e vi svolga parte sostanziale della sua attività;
  • per gli agenti operanti in Italia e all’estero che non risiedano in Italia, purché l’agente abbia in Italia il proprio centro d’interessi (valutato in riferimento al numero dei servizi prestati, alla durata dell’attività, alla volontà dell’interessato);
  • per gli agenti operanti abitualmente in Italia e che si rechino a svolgere attività esclusivamente all’estero purché la durata di tale attività non superi i ventiquattro mesi.

Quanto all’importo annuo che il preponente deve accantonare presso il FIRR, esso viene così quantificato dall’AEC industria 2014:[5]

“Agente agente o rappresentante monomandatario a

  • 4% sulla quota di provvigioni fino a Euro 12.400,00 annui;
  • 2% sulla quota di provvigioni compresa tra Euro 12.400,01 annui ed Euro 18.600,00 annui;
  • 1 % sulla quota di provvigioni eccedente Euro 18.600,00 annui.

Agente o rappresentante plurimandatario:

  • 4% sulla quota di provvigioni fino a Euro 6.200,00 annui;
  • 2% sulla quota di provvigioni compresa tra Euro 6.200,01 annui ed Euro 9.300,00 annui;
  • 1 % sulla quota di provvigioni eccedente Euro 9.300,00 annui.”

Le aliquote previdenziale obbligatorie, che il preponente è tenuto a versare annualmente all’ENASARCO, sono regolato all’art. 4 del Regolamento e sono pari a:

2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020
13,50% 13,75% 14,20% 14,65% 15,10% 15,55% 16,00% 16,50% 17,00%

 

I contributi vengono calcolati su tutte le somme dovute all’agente a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di agenzia anche se non ancora liquidate, compresi acconti e premi (art. 4 del Regolamento), ma nel limite inderogabile del massimale di € 37.500,00 annui qualora l’agente sia impegnato ad esercitare la sua attività per un solo preponente e di € 25.000,00 per ciascun preponente dell’agente plurimandatario (art. 5 del Regolamento).

In caso di omissione contributiva da parte del preponente, l’art. 36 del Regolamento, impone come sanzione il pagamento di un tasso del 5,5% annuo sull’importo dei contributi non corrisposto entro la scadenza, con la fissazione di un tetto massimo del 40%.

Importante sottolineare che l’obbligo contributivo, seppure esso sia posto a carico del preponente e dell’agente in misura paritetica, si evidenzia il fatto che l’unico responsabile del pagamento dei contribuiti è il preponente, anche per la parte a carico dell’agente e che tali versamenti devono essere effettuati “con una periodicità massima di tre mesi, in rapporto alle somme a qualsiasi titolo dovute all’agente.

Quanto al termine di  prescrizione del diritto dell’ENASARCO a richiedere il versamento di contribuiti, esso è pari a cinque anni.[7] È invece decennale il termine prescrizionale dell’azione dell’agente diretta ad ottenere il risarcimento del danno da omesso o insufficiente versamento dei contributi ENASARCO, decorrente dal momento in cui l’agente, raggiunta l’età pensionabile, perde il relativo diritto o lo vede ridotto in ragione dell’omissione.[8]

Come si è già accennato nella parte introduttiva di questo articolo, alla quale si rimanda,[9] la previdenza gestita dall’ENASARCO rappresenta un caso unico non solo in Europa, ma anche in Italia, dal momento che essa è integrativa rispetto al trattamento pensionistico che gli agenti sono obbligati a versare personalmente presso l’INPS.[10] I rappresentati e gli agenti di commercio sono pertanto obbligati a versare i contributi verso due enti: da una parte personalmente presso l'Inps e, dall’altra parte, presso l'ENASARCO, il cui contributo, come si è visto, viene pagato dal preponente, in qualità di sostituto di imposta.[11]

Circa la quantificazione dei contributi INPS, è prevista una aliquota variabile pari a circa al 20/23%. Si rileva comunque che sulla parte di reddito eccedente i 100.324,00 per gli iscritti dopo il 01.01.1996 (ed € 76.718,00 per quelli iscritti prima di tale data), non vi è obbligo di versamento dell’INPS.

[1] Ai sensi della legge 2 febbraio 1973, n. 12

[2] Circolare AIS n. 2/2012 protocollo numero AIS/46.

[3] Interpello del Ministero del lavoro n. 32/2013.

[4] Cfr. anche Baldi-Venezia, Il contratto di agenzia, 2014, GIUFFRÈ.

[5] Si indica a titolo esemplificativo il FIRR previsto dall’AEC industria 2014; si rileva comunque che il FIRR previsto dagli altri AEC ad oggi vigenti sono in linea di massima in linea con tale contratto collettivo.

[6] Art. 7, legge 2 febbraio 1973, n. 12.

[7] Cass. 1983 n. 5532.

[8] Cass. Civ. 1983 n. 5532.

[9] Cfr. § 1 del presente articolo.

[10] Cfr. nota n. 1

[11] Il riconoscimento di questo status particolare del Fondo risale alla legge 613/1966 ed è rimasto ad oggi immutato.


Convenzione di Vienna e risoluzione del contratto di compravendita. Termini di decadenza e prescrizione dell'azione.

Come si è già avuto modo di rilevare,  la Convenzione di Vienna non si occupa della prescrizione dell’azione, che secondo la più autorevole dottrina[1]  e giurisprudenza,[2] viene disciplinata dalle norme interne. La prescrizione, pertanto, ai sensi dell’art. 7, comma 2 della medesima Convenzione, trova ingresso sulla base delle norme del diritto applicabile e, nel caso del diritto italiano, all’art. 1495 c.c. e ss..

  1. Termini di decadenza ex art. 39 e 49 della Convenzione

Contrariamente, la Convenzione regolamenta espressamente i termini di decadenza del diritto dell'acquirente alla garanzia. L’art. 39 così recita:

  1. L'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al venditore, precisando la natura di tale difetto, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui l'ha constatato o avrebbe dovuto constatarlo.
  2. In tutti i casi l'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al più tardi entro un termine di due anni, a partire dalla data alla quale le merci gli sono state effettivamente consegnate, a meno che tale scadenza non sia incompatibile con la durata di una garanzia contrattuale.   

L’art. 39 prevede dunque che viene meno il diritto del compratore, di fare valere il difetto di conformità dei beni, ivi compreso, il diritto di risolvere il contratto, se non lo denuncia al venditore entro un tempo ragionevole, dal momento in cui lo ha scoperto o avrebbe dovuto scoprirlo e, in ogni caso al più tardi entro due anni dalla data in cui i beni gli sono stati effettivamente consegnati.

Contrariamente alla disciplina civilista, nel caso in cui l'acquirente intenda chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale, la Convenzione prevede un ulteriore termine di decadenza, oltre a quello sopra descritto di denuncia del vizio, che impone allo stesso di comunicare al venditore la propria intenzione di  dichiarare il contratto risolto. L’art 49 della Convenzione così dispone:

  1. L'acquirente può dichiarare il contratto risolto [avoided]:
    1. se l'inadempimento da parte del venditore di uno qualsiasi degli obblighi che gli derivano dal contratto o dalla presente Convenzione costituisce un'inosservanza essenziale del contratto; […]
  2. Tuttavia, quando il venditore ha consegnato le merci, l'acquirente scade dal diritto di dichiarare risolto il contratto se non lo ha fatto:
    1. in caso di consegna tardiva, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui è venuto a conoscenza che la consegna era stata effettuata;
    2. in caso di inosservanza diversa dalla consegna tardiva, entro una scadenza ragionevole.

Tale articolo contempla il più radicale dei rimedi per l’inadempimento del venditore: la risoluzione del contratto. Il secondo comma dell’art. 49, prevede che, qualora il compratore abbia effettuato la consegna, l’acquirente perde il diritto di dichiarare risolto il contratto, se non lo esercita entro un “termine ragionevole tramite una propria dichiarazione unilaterale.

L’acquirente in base alla Convenzione di Vienna deve quindi:

  • entro un termine ragionevole (ed al più tardi entro due anni dalla consegna) denunciare il vizio (art. 39);
  • entro una scadenza ragionevole dalla consegna, dichiarare il contratto risolto (art. 49).

Sull’interpretazione di “scadenza ragionevole”, di cui all’art. 49, per la dichiarazione di risoluzione del contratto, le Corti si sono pronunciate tenendo di volta in volta conto della tipologia di merce venduta e del settore merceologico.

È stato ritenuto non ragionevole il periodo di cinque mesi a partire dal momento in cui l’acquirente ha comunicato al venditore i vizi della merce;[3] un dichiarazione di risoluzione fatta dopo otto settimane, da quando il compratore è venuto a conoscenza della sussistenza dei vizi è stato altresì ritenuto tardivo;[4] “irragionevole” è stato altresì ritenuto il termine di otto mesi dopo che il compratore avrebbe dovuto conoscere i vizi.[5] D’altro canto il periodo di un mese o cinque settimana è stato ritenuto ragionevole e pertanto tempestivo per effettuare la dichiarazione di cui all’art. 49 secondo comma, lettera b.[6]

Inoltre, secondo autorevole dottrina, il termine ragionevole di cui all’art. 49 secondo comma, non può mai superare il termine di cui all’art. 39, secondo comma, ossia due anni dalla data in cui i beni sono stati effettivamente consegnati.

“Il compratore perde il diritto di far valere il difetto di conformità e, conseguentemente, di risolvere il contratto. In tale ipotesi, il limite temporale previsto dall’art. 39 prevale su quello previsto dall’art. 49 comma 2°, lett. B); la data della denuncia ex art. 39 e quello della dichiarazione di risoluzione ex art. 49 possono non coincidere, ma il termine per entrambe decorre dal medesimo momento, e ha la medesima scadenza [appunto data dell’effettiva consegna].[7]

Questo comporta, che entro il limite massimo di due anni dalla consegna, il compratore deve sia denunciare i vizi (ex art. 39), che dichiarare il contratto nullo (ex art. 49), qualora in giudizio intenda chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale.

Circa le modalità con le quali tale dichiarazione deve essere effettuata, l’art. 26 della Convenzione dispone:

Una dichiarazione di risoluzione del contratto ha effetto solo se è effettuata mediante notifica all'altra parte.

Ciò comporta che tale dichiarazione deve contenere in maniera espressa ed inequivocabile che il contratto sia stato risolto e, pertanto, sia terminato.[8]

 

[1] Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, UNCITRALS, 2016 UNITED NATIONS, 2016 Edition, pag. 25; Schlechtriem, Internationales UN-Kaufrecht, Tübingen 2007, 124, n. 162; Honsel, Das einheitliche UN-Kaufrecht, consultabile sul sito http://20iahre.cisg-library.org.

[2] Bundesgerichtshof, Germania, 23 ottobre 2013, Internationales Handelsrecht 2014, 25 = CISG-online n ° 2474; Bundesgericht, Svizzera, 18 maggio 2009, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Appellationsgericht Basilea Città, Svizzera, 26 settembre 2008, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Corte Suprema, Slovacchia, 30 aprile 2008, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Oberlandesgericht Köln, Germania, 13 Febbraio, 2006, anche in Internationales Handeslrecht 2006, 145 ss.; Cour d'appel de Versailles, Francia, il 13 ottobre 2005, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu, Tribunale di Padova, sez. Este, 20 febbraio 2004, disponibile all’indirizzo  http://www.uncitral.org/docs/clout/ITA/ITA_100106_FT_clean.pdf.

[3] Bundesgerichtshof, Germania, 15 febbraio 1995; cfr. inoltre Oberlandesgericht München, Germania, 2 marzo 1994] (4 mesi).

[4] Oberlandesgericht Koblenz, Germania, 31 gennaio 1997.

[5] Cour d’appel Paris, Francia, 14 giugno 2001; cfr. inoltre Tribunal of International Commercial Arbitration at the Russian Federation Chamber of Commerce and Industry, Russia, 22 October 1998. (che ha considerato una denuncia effettuata dopo cinque o sei mesi non tempestiva); Hof ’s-Hertogenbosch, Danimarca, 11 ottobre 2005.

[6] [Tribunal cantonal du canton de Valais, Switzerland, 21 February 2005] (one month); CLOUT case No. 165 [Oberlandesgericht Oldenburg, Germany, 1 February 1995] (five weeks); Bundesgericht, Switzerland, 18 May 2009, Internationales Handelsrecht 2010, 27 (one to two months).

[7] Bianca e Bonell, Commentario sulla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci, Nuovi leggi  civili commentate, CEDAM, Padova, 1989.

[8] Kantonsgericht des Kantons Zug, Svizzera, 30 Agosto 2007; UNCITRAL Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, UNCITRALS, 2016 UNITED NATIONS, 2016 Edition, pag. 233.

 


La legge applicabile al contratto di agenzia internazionale.

Quando si opera nell’ambito della contrattualistica internazionale sicuramente il primo aspetto da analizzare è comprendere da quale legge è regolato il rapporto contrattuale.
Come è noto, la disciplina della legge applicabile, in ambito europeo, è dettata dal Regolamento europeo Roma I, n. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali.

L’art. 3 del Regolamento conferisce alle parti la libertà di scegliere a quale legge sottoporre il rapporto contrattuale:

…la scelta è espressa, o risulta chiaramente dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze del caso

Nel caso le parti non abbiano scelto a quale ordinamento sottoporre il contratto, si applicherà l’art. 4 del Regolamento, che indica i criteri volti a individuare la legge applicabile al rapporto. Nello specifico, l’art. 4 par. 1, lett. B) del Regolamento prescrive che i contratti relativi alla prestazione di servizi, tra i quali rientra anche il contratto d’agenzia, sono regolati dalla legge del Paese in cui il prestatore di servizi (l’agente, dunque) ha il domicilio abituale. Ciò comporta, che tutti i rapporti di agenzia tra preponente straniero ed agente italiano, per i quali le parti non hanno scelto (espressamente) la legge applicabile, saranno regolati dalla legge del Paese in cui l’agente ha il suo domicilio abituale, quindi, normalmente, dal diritto italiano.

Si può pertanto affermare che il diritto italiano è applicabile al contratto di agenzia internazionale nei seguenti casi:

  • nel caso di scelta delle parti (art. 3 Regolamento Roma I);
  • in assenza di scelta delle parti, in tutti i casi in cui l’agente ha il suo domicilio abituale sul territorio italiano (art. 4 Regolamento Roma I);
  • nel caso in cui le parti decidano di sottoporre il contrattato alla legge straniera, si applicheranno le norme italiane “internazionalmente imperative” o di “applicazione necessaria” (art. 9 Regolamento Roma I).

Con riferimento a quest’ultimo punto, che certamente costituisce uno dei profili più complessi e critici del diritto commerciale internazionale, si ritiene necessario svolgere un breve approfondimento.

Come è noto la libertà riconosciuta ai contraenti di scegliere come regolamentare un rapporto contrattuale incontra dei limiti: in tutti gli ordinamenti esistono norme imperative volte appunto a limitare la libertà delle parti, al fine di garantire l’osservanza di determinati principi. Applicare questo principio nell’ambito della contrattualistica internazionale non è di facile soluzione, proprio perché si è obbligati a confrontarsi con norme imperative di due o più ordinamenti: quello scelto dalle parti e quello che, in mancanza di scelta, si applicherebbe ex art. 3 Regolamento Roma I.

Come si coordina quindi il diritto riconosciuto alle parti di scegliere la legge applicabile con il principio secondo il quale si devono rispettare le norme inderogabili applicabili in mancanza di scelta?

In linea di principio si può affermare che la scelta di una determinata legge comporta la totale deroga delle norme di un determinato ordinamento (ivi incluse quelle imperative), in favore di quelle di un altro ordinamento. Ciò comporta che, normalmente, se le parti scelgono di sottoporre il contratto ad un altro ordinamento giuridico, il loro contratto dovrà rispettare le norme imperative di quell’ordinamento, ma non quelle dell’ordinamento derogato attraverso la loro scelta.

Bisogna comunque rilevare che, in casi particolari, i legislatori nazionali possono decidere di attribuire a determinate norme un valore ancora più cogente, tale da renderle inderogabili anche alla scelta delle parti: tali norme vengono definite come “internazionalmente imperative” o di “applicazione necessaria” e si distinguono per questo da quelle “semplicemente imperative”.

In ambito europeo, questo principio è disciplinato dall’art. 9 del Regolamento Roma I, che definisce le norme di applicazioni necessaria come:

«... disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile al contratto secondo il presente regolamento.»

Ad interpretare l’ambito applicativo di tale norma è intervenuta la Corte di Giustizia europea nel caso Unamar: con tale pronuncia la Corte ha affermato che il Tribunale nazionale può applicare le norme più protettive del proprio ordinamento (in luogo della legge scelta dalle parti)

«...unicamente se il giudice adito constata in modo circostanziato che, nell’ambito di tale trasposizione, il legislatore dello Stato del foro ha ritenuto cruciale, in seno all’ordinamento giuridico interessato, riconoscere all’agente commerciale una protezione ulteriore rispetto a quella prevista dalla citata direttiva, tenendo conto, al riguardo, della natura e dell’oggetto di tali disposizioni imperative».

Da tale pronuncia, si evince che per poter prevalere sulla legge di un altro paese basata sulla medesima direttiva, non sia sufficiente che le norme scelte prevedano un livello più elevato di protezione ed attribuiscano loro carattere di norme internazionalmente inderogabili, ma che debba altresì risultare che tale scelta sia di importanza cruciale per l'ordinamento in questione, in considerazione della natura e delle finalità perseguite dalle norme in questione.


La denuncia del vizio e la prescrizione in caso di compravendita internazionale di beni immobili. Cosa prevede la Convenzione di Vienna?

In ambito europeo la legge applicabile al contratto di compravendita di beni mobili è regolata dall'art. 4 del Regolamento CE593/2008, che prevede che in caso di mancanza di scelta delle parti, "il contratto di vendita di beni è disciplinato dalla legge del paese nel quale il venditore ha la residenza abituale."

Nel caso in cui il rapporto sia regolato dalla legge italiana bisogna sicuramente essere consapevoli del fatto che, in maniera implicita, troverà applicazione anche la Convenzione di Vienna del 1980 sulla compravendita internazionale di beni mobili.

Ciò premesso, con questo articolo si andranno ad analizzare brevemente due aspetti di grandissima rilevanza sia pratica che giuridica, ossia comprendere come sono regolati il termine di denuncia dei vizi e di prescrizione dell'azione nel caso in cui al rapporto contrattuale si applica la Convenzione di Vienna.

a) Denuncia del vizio

Tale termine è regolato dall'art. 39,1 c.c. della Convenzione, che dispone:

"l'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al venditore, precisando la natura di tale difetto, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui l'ha constatato o avrebbe dovuto constatarlo."

Il problema della quantificazione del “termine ragionevole", dovrebbe essere regolato, sulla base dei principi generali di diritto internazionale, tenendo conto delle decisioni dei Tribunali dei Paesi che hanno aderito alla Convenzione di Vienna e della tipologia del bene venduto. Tale principio è stato espresso con l'art. 7,1 della Convenzione, che prevede che:

"ai fini dell'interpretazione della presente Convenzione, sarà tenuto conto del suo carattere internazionale e della necessità di promuovere l'uniformità della sua applicazione, nonché di assicurare il rispetto della buona fede nel commercio internazionale."

Se si guarda in ambito europeo per „termine ragionevole" viene normalmente inteso un periodo di circa 20-30 giorni. (cfr. Oberlandesgericht Stuttgart, 21.8.1995, Oberlandesgericht Köln 21.8.1997, Obergericht Luzern 7.1.1997, Cour d’Appel Grenoble 13.7.1995).

Ad ogni modo, qualora la controversia dovesse essere giudicata da un Tribunale italiano, si rileva che i giudici italiani, seppure dovrebbero tenerne conto delle sentenze europee in ambito di interpretazione della Convenzione di Vienna, non sono a queste vincolati e potrebbero avere la tendenza ad interpretare tale termine utilizzando i parametri del diritto italiano.

Come è noto, a tal proposito l’art. 1495 del codice civile prevede che:

"il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi  al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge."

In primo luogo è necessario specificare che è pacifico in dottrina e in giurisprudenza che tale termine di otto giorni, si applichi non solo al caso di chiamata in garanzia, bensì anche in caso di azione relativa al risarcimento del danno. Inoltre il termine di otto giorni decorre dalla consegna della merce al compratore oppure, in caso di vizi occulti, dalla scoperta del vizio.

Ciò considerato, secondo alcune (ma rare) sentenze italiane, il termine ragionevole per la denuncia si identifica in circa 20-30 giorni (Tribunale Vigevano 12.7.2000; F. Ferrari, Giur. It. 2001, 2) e tale termine è stato addirittura prolungato a 4 mesi (Tribunale di Bolzano, 27.1.2009)

Ad ogni modo, bisogna tendere conto del fatto che la Corte di Cassazione non si è ancora pronunciata sul punto, e pertanto si consiglia prudenzialmente, per essere sicuri che la denuncia sia stata effettivamente tempestivamente, verificare, in prima battuta, se questa è stata eseguita entro 8 giorni dalla scoperta del vizio.

b) Prescrizione

Un secondo aspetto, di non poca rilevanza, riguarda invece il termine di prescrizione.

A tal riguardo, si evidenzia che la Convenzione di Vienna non prevede espressamente un termine di prescrizione, bensì solamente un termine di denuncia che non può essere superiore a due anni. L'art. 39,2 dispone che:

in tutti i casi l'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al più tardi entro un termine di due anni, a partire dalla data alla quale le merci gli sono state effettivamente consegnate, a meno che tale scadenza non sia incompatibile con la durata di una garanzia contrattuale."

Posto che la questione della prescrizione non è trattata nella Convenzione, bisognerà verificare cosa dispone in merito il diritto italiano. A tal proposito l'art. 7,2 della Convenzione prevede che:

"le questioni riguardanti le materie disciplinate dalla presente Convenzione e che non sono da questa espressamente risolte, saranno regolate secondo i princìpi generali a cui si ispira, o, in mancanza di tali princìpi, in conformità alla legge applicabile secondo le norme del diritto internazionale privato."

La prescrizione, in ambito di contratti di compravendita, è regolata nel diritto italiano all’art. 1495 c.c.:

l'azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna; ma il compratore, che sia convenuto per l'esecuzione del contratto, può sempre far valere la garanzia, purché il vizio della cosa sia stato denunziato entro otto giorni dalla scoperta e prima del decorso dell'anno dalla consegna.”

Ci si domanda se tale termine di un anno, possa coordinarsi con il termine di due anni previsto dall’art. 39,2 della Convenzione per la denuncia dei vizi. Sul punto sussistono anche qui pareri discordanti.

Nella sentenza sopra richiamata, il Tribunale di Bolzano ha ritenuto che il termine di due anni di cui all’art. 39, 2 comma della Convenzione è incompatibile con la previsione di un termine di prescrizione più breve di un anno di cui all’art. 1495 comma 3. Secondo il Tribunale di Bolzano, pertanto, il termine ex art. 1495 comma 3, va allungato da 1 anno a 2 anni.

Secondo autorevole dottrina (A. Reinstadler; F. Ferrari) e la giurisprudenza dei Tribunali europei (Oberster Gerichtshof – Österreich, - 25.6.1998) le lacune della convenzione vanno colmate in base alla legge applicabile al contratto, anche se questa prevede un termine inferiore ai due anni.

Pertanto, anche su questo punto, la giurisprudenza e la dottrina italiana non sono concordi e si ritiene consigliabile, in via prudenziale, verificare se sia stato rispettato il termine di prescrizione di 1 anno, ex art. 1495 c.c..

 


Il cabotaggio in Europa e documentazione necessaria

La licenza comunitaria consente anche, ai sensi degli artt. 8 e 9 del regolamento CE n. 1072/2009, l’attività di cabotaggio stradale di merci, ossia la prestazione di servizi di trasporto di merci su strada per conto terzi entro i confini di uno Stato membro diverso da quello di stabilimento dell’impresa comunitaria.

Il cabotaggio si distingue dal trasporto internazionale intracomunitario, in quanto si svolge interamente all’interno dei confini di un unico Stato membro (diverso da quello di stabilimento).

a) Limitazioni all'attività di cabotaggio

Il cabotaggio stradale di merci è consentito soltanto in via temporanea e resta soggetto a varie limitazioni quantitative

  • Il primo limite deriva dalla necessità che la presenza del veicolo all’interno dello Stato membro ospitante si giustifichi in forza di un precedente trasporto internazionale.
  • Gli altri limiti (quantitativi) si differenziano a seconda che lo Stato membro ospitante sia quello di destinazione del precedente trasporto internazionale o sia uno Stato diverso.
    • Nel primo caso, il co. I dell’art. 8.2 del regolamento CE n. 1072/2009 circoscrive la durata complessiva dell’attività di cabotaggio ad un arco temporale massimo di sette giorni dall’ultimo scarico relativo al trasporto internazionale e fissa un limite di tre operazioni consentite in detto arco temporale.
    • Nel secondo caso, il co. II stabilisce che possa essere effettuata un’unica operazione entro tre giorni dall’ingresso del veicolo vuoto nel territorio dello Stato membro ospitante, ferma la possibilità di effettuare altre due operazioni in diversi Stati membri, il tutto sempre nell’arco temporale massimo di sette giorni dall’ultimo scarico relativo al trasporto internazionale.
b) documentazione da tenere a bordo

Il rispetto dei suddetti limiti quantitativi deve essere rigorosamente documentato. In Italia, non è più richiesto che le annotazioni avvengano in un apposito libretto dei resoconti. Tuttavia, il D.M. 03.04.2009, in conformità con l’art. 8.3 del regolamento CE n. 1072/2009, continua a richiedere il possesso di documentazione che attesti il trasporto internazionale in entrata e che, per ogni operazione di cabotaggio, riporti almeno:

  • il nome, l'indirizzo e la firma del mittente;
  • il nome, l'indirizzo e la firma del trasportatore;
  • il nome e l'indirizzo del destinatario, nonché la sua firma e la data di consegna una volta che le merci siano state consegnate;
  • il luogo e la data di presa in consegna delle merci e il luogo di consegna previsto;
  • la descrizione della merce e del suo imballaggio nella terminologia comune e, per le merci pericolose, la denominazione generalmente riconosciuta, nonché il numero di colli, i contrassegni speciali ed i numeri riportati su di essi;
  • il peso lordo o la quantità, altrimenti espressa, delle merci;
  • il numero di targa del veicolo a motore e del rimorchio.

Le limitazioni quantitative di cui sopra ed il correlato obbligo di documentazione vengono meno qualora l’attività di cabotaggio sia svolta nell’ambito di un trasporto combinato (intermodale) di merci. Volendo incentivare l’intermodalità dei trasporti quale possibile rimedio ai problemi connessi alla congestione del traffico stradale, alla tutela dell'ambiente e alla sicurezza della circolazione, infatti, la legislazione europea ha liberalizzato da ogni restrizione quantitativa il trasporto combinato di merci.

c) Il trasporto combinato di merci

La direttiva CEE n. 92/106, recepita in Italia con D.M. del 15.02.2001, deroga in forza del criterio di specialità alla normativa generale sul cabotaggio stradale di merci, rimuovendo tutte le limitazioni quantitative previste dal regolamento CE n. 1072/2009 e dal D.M. 03.04.2009, a condizione che vengano rispettati alcuni presupposti di applicabilità. Presupposto fondamentale è, in primo luogo, la combinazione della modalità di trasporto terrestre con quella ferroviaria e/o marittima o per via navigabile interna. In secondo luogo, il contenitore trasportato deve essere pari o superiore a venti piedi. Gli ulteriori presupposti differiscono a seconda che si tratti di un trasporto combinato nave-gomma o rispettivamente ferrovia-gomma:

  • nel trasporto combinato nave-gomma, il tratto su nave deve essere di almeno 100 km in linea d’aria, mentre quello su gomma deve essere al massimo di 150 km in linea d’aria tra il punto di inizio o di termine del viaggio su gomma ed il porto.
  • nel trasporto combinato ferrovia-gomma, il tratto ferroviario deve essere di almeno 100 km in linea d’aria, mentre quello su strada deve essere il tragitto più breve tra il luogo di inizio o di termine del viaggio su gomma e la più vicina stazione ferroviaria appropriata.

Per quanto concerne il trasporto combinato ferrovia-gomma, deve ritenersi che la dizione «appropriata stazione ferroviaria» di cui all’art. 1 della direttiva CEE n. 92/106 sia riferibile alle sole stazioni ferroviarie multimodali che, in relazione alle circostanze del caso, risultino concretamente idonee quale punto di inizio o di termine del tragitto ferroviario. I presupposti applicativi della normativa speciale sono, pertanto, rispettati anche se vi siano altre stazioni ferroviarie più vicine al punto di inizio o di termine del viaggio su gomma, ma esse non risultino concretamente funzionali all’intermodalità del trasporto.

Vale la pena notare che spetta all’autotrasportatore dimostrare la ricorrenza dei presupposti di applicabilità della disciplina speciale sul trasporto combinato di merci: in mancanza, restano ferme le limitazioni quantitative per il cabotaggio stradale ed il correlato obbligo di documentazione.

 

avv. Luca Andretto
collaboratore presso Studio Dindo, Zorzi & Associati

 


Documentazione da tenere a bordo nell’autotrasporto di merci in Italia da parte di imprese straniere

Il trasporto di merci su strada per conto terzi su territorio italiano può essere effettuato anche da imprese di autotrasporti stabilite all’estero, purché nell’ambito di un trasporto internazionale. Può anche trattarsi di trasporto interamente interno ai confini italiani (cabotaggio), ma in tal caso vanno rispettati limiti stringenti.

Esaminiamo di seguito le autorizzazioni e gli altri documenti che l’autotrasportatore deve tenere a bordo del veicolo ed esibire a richiesta degli agenti italiani preposti al controllo, nonché le sanzioni cui può andare incontro in caso di mancata esibizione degli stessi.

a) La licenza comunitaria

Il regolamento CE n. 1072/2009 (che dal 04.12.2011 sostituisce il regolamento CE n. 881/1992) disciplina la licenza comunitaria per il trasporto internazionale di merci su strada per conto terzi, con la quale ciascuna impresa di autotrasporto avente stabilimento in uno Stato membro può svolgere la propria attività in tutto il territorio UE, salve alcune limitazioni.

La licenza è necessaria solo per trasporti di merci con autoveicoli il cui peso massimo a carico ammissibile, compreso quello dei rimorchi, superi le 3,5 tonnellate. Se, invece, il peso massimo è pari o inferiore a 3,5 tonnellate, il trasporto non richiede la licenza comunitaria e l’art. 1.5, lett. c), del regolamento CE n. 1072/2009 lo esenta espressamente da ogni speciale autorizzazione per il trasporto internazionale intracomunitario.

La licenza comunitaria è rilasciata dalle autorità competenti dello Stato membro di stabilimento dell’impresa di autotrasporti. La licenza è unica per ciascuna impresa, perciò occorre chiedere il rilascio di un numero di copie certificate conformi corrispondente al numero di veicoli (immatricolati in ambito UE) di cui l’impresa di autotrasporti disponga, anche a titolo di noleggio, leasing o altro. A bordo di ciascun veicolo deve, infatti, trovarsi una copia certificata conforme della licenza comunitaria, che va esibita a richiesta degli agenti preposti al controllo (art. 4.6 del regolamento CE n. 1072/2009).

La licenza comunitaria è necessaria per i soli veicoli a motore e, perciò, in caso di complesso veicolare, va tenuta a bordo del trattore stradale ed estende i suoi effetti anche al rimorchio o semirimorchio. Solo per il trattore stradale è necessaria l’immatricolazione in uno Stato membro, mentre il rimorchio o semirimorchio può anche essere immatricolato in uno Stato terzo.

b) L’attestato di conducente

Per quanto riguarda i conducenti di veicoli che effettuano trasporti intracomunitari di merci su strada per conto terzi, è ovviamente necessario che essi dispongano di idonea partente di guida, valida per l’Europa. Oltre alla patente, i soli conducenti che non siano cittadini di uno Stato membro necessitano altresì dell’attestato di conducente previsto dall’art. 5 del regolamento CE n. 1072/2009.

L’attestato di conducente è rilasciato all’impresa di autotrasporti (e non al conducente stesso) dalle autorità competenti del suo Stato membro di stabilimento. Si tratta di un documento nominativo, che identifica l’impresa di autotrasporti ed il conducente e certifica la regolarità del relativo rapporto di lavoro. Occorre, pertanto, richiedere un attestato e una copia certificata conforme per ogni conducente extracomunitario alle dipendenze dell’impresa di autotrasporti. L’attestato va tenuto in originale a bordo del veicolo guidato dal conducente extracomunitario ed esibito a richiesta degli agenti preposti al controllo, mentre la copia certificata conforme va conservata nei locali dell’impresa.

c) Contratto di noleggio e contratto di lavoro del conducente

L’art. 2 della direttiva CE 2006/1 impone a ciascuno Stato membro di consentire alle imprese di autotrasporti stabilite in altri Stati membri l’utilizzazione nel suo territorio di veicoli presi a noleggio (o in leasing) senza conducente, a condizione che tali veicoli siano guidati da personale proprio della stessa impresa che li utilizza. A bordo del veicolo devono trovarsi i seguenti documenti:

  • contratto di noleggio (o di leasing) o estratto autenticato del contratto contenente in particolare il nome del noleggiante, il nome del noleggiatore, la data e la durata del contratto e l’identificazione del veicolo;
  • contratto di lavoro del conducente o estratto autenticato del contratto, contenente in particolare il nome del datore di lavoro, il nome del dipendente, la data e la durata del contratto di lavoro, o un foglio paga recente.

A seguito di questa direttiva, lo Stato italiano si è limitato ad emanare una circolare ministeriale (la n. 63/M4 del 08.05.2006 del Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti)ribadendo l’obbligo di tenere a bordo del veicolo noleggiato il relativo contratto di noleggio e il contratto di lavoro del conducente. Sennonché, le circolari ministeriali non sono fonti normative e, quindi, non sono idonee ad implementare le norme di una direttiva che, come noto, vincola esclusivamente gli Stati membri e non può in alcun caso essere invocata quale atto dotato di efficacia diretta a carico dei privati.

Può, però, ritenersi che l’ordinamento italiano fosse già “preconformato” alla direttiva e non fosse, perciò, tenuto a darvi ulteriore implementazione, in quanto già il D.M. n. 601 del 14.12.1987 prevedeva all’art. 4 l’obbligo di tenere a bordo del veicolo noleggiato il relativo contratto di noleggio e il contratto di lavoro del conducente, entrambi in originale o copia autentica. Di conseguenza, al fine di evitare probabili contestazioni, è opportuno tenere sempre tali documenti a bordo del veicolo noleggiato.

avv. Luca Andretto
collaboratore presso Studio Dindo, Zorzi & Associati

 

Il sorpasso (1962)
Regista: Dino Risi.


Il contratto di agenzia in Germania.

Con il presente articolo si intendono dare al lettore alcuni elementi per meglio comprendere la regolamentazione del contratto di agenzia in Germania, la cui importanza è assai rilevante, tenuto conto del fatto che la direttiva europea in tema di agenzia si è ispirata proprio a tale modello e, conseguentemente, anche la normativa italiana, si è adeguata ad essa, con gli interventi normativi del 1991 e 1999 la figura 


1) Contratto di agenzia e lavoratore autonomo.

Nel diritto tedesco la figura giuridica dell’agente di commercio è regolata dal libro primo, settimo titolo del Codice di Commercio tedesco (HGB— Handelsgesetzbuch) e più precisamente dai §§ 84-92c. Il § 84 HGB apre questo titolo con una definizione che qualifica l’agente di commercio come colui a cui viene affidato da un preponente il compito di intercedere, in modalità di autonomo esercente, negli affari a favore di quest’ultimo ovvero di concluderli a suo nome. Autonomo è colui che svolge la propria attività in sostanziale autonomia e può regolare il proprio orario di lavoro.

Questo presupposto legislativo viene ovviamente utilizzato in sede giudiziaria, per poter distinguere l’agente di commercio dal lavoratore dipendente. La giurisprudenza ritiene la definizione di cui al § 84 comma I HGB quale parametro generale per poter distinguere le due figure giuridiche, se pur sia necessario tener conto delle circostanze del caso, nella loro integralità e totalità.

Dato il carattere generico e non facilmente interpretabile del concetto di autonomia richiesto dal § 84 HGB all’agente di commercio, la Giurisprudenza si è più volte imbattuta in questo problema. Una sentenza della Corte Federa le del Lavoro (BAG) ha indicato in una sua nota sentenza del 2003 diversi accordi contrattuali che ha definito come Arbeitnehmerverdächtig”, ossia che fanno sospettare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Si elencano qui sotto alcuni di essi:

  • richiesta di trasmissione di una previsione trimestrale sull’andamento della produzione, avente ad oggetto i singoli reparti produttivi e una previsione della valutazione percentuale della chiusura degli affari dei singoli clienti. Una tale richiesta va oltre l’obbligo di tutela degli interessi di cui al § 86 comma 1 HGB che obbliga l’agente ad impegnarsi per la vendita dei prodotti o per il perfezionamento degli affari, tenendo conto degli interessi dcl preponente;
  • ordini di blocco delle ferie. In questa maniera viene limitata l’autonomia dell’agente di determinare le ore di lavoro;
  • la denominazione del contratto è irrilevante per l’inquadramento della figura giuridica; la mancanza di un accordo sull’inizio e la fine dell’orario di lavoro e sull’indicazione dell‘organizzazione dell‘attività lavorativa sarà interpretata a favore dell’autonomia dell’agente di commercio:

Al contrario non preclude l’autonomia:

  • l’obbligo a partecipare, settimanalmente, ad conferenze telefonico di 5 ore e, in casi straordinari, di svolgere gli ordini d’incasso entro breve,
    l’imporre termini per il compimento dei lavori, così come, in periodo di assestamento dell’impresa, il blocco delle ferie pe un lasso di tempo che va da 4 fino ad 8 settimane;
  • la comunicazione degli obbiettivi di produzione, se rimane comunque un margine considerevole per l’autorganizzazione delle ore di lavoro:
    un obbligo di informazione, a meno che l’agente non sia tenuto ad un’informazione copiosa sulla sua attività ed a brevi intervalli;
  • una previsione trimestrale sull’andamento della produzione supera sicuramente l’usuale obbligo d’informazione, ma di per sé non può essere considerato come un indizio sostanzia le di subordinazione;
    il divieto di concorrenza dell’agente;
  • istruzioni sull’orario cli lavoro, in quanto anche i collaboratori del servizio esterno si devono adattare alle richieste di orario di propri clienti.

Secondo l‘OLG (Oberlandesgericht - Corte di Appello) di Koblenz la tipologia del rapporto si evince esplicitamente dalla dipendenza personale che intercorre tra le due figure giuridiche e che una dipendenza di tipo economico non è né necessaria, né sufficiente.
Il fatto che l’agente sia legato al preponente attraverso indicazioni e direttive che quest’ultimo ha il potere di emettere, in linea generale non va ad intaccare quello che è lo status dell’agente di lavoratore indipendente. Il lavoratore dipendente è colui che, contrariamente all’agente, svolge le sue prestazioni inquadrato all’interno di una organizzazione definita da un terzo. Rilevanti per la qualificazione della figura giuridica sono le circostanze in cui è stata compiuta la prestazione e le modalità di pagamento ovvero connotati puramente formali come il pagamento delle tasse al parti del pagamento degli enti di previdenza ed assistenza sanitaria o il tenere fascicoli personali dell‘agente.


2) Il diritto alla provvigione.

L’agente ha in base al § 87 comma 1 HGB diritto alla provvigione. Questi può esercitare tale diritto su tutti gli affari la cui conclusione è stata resa possibile grazie ad un ‘attività a lui riconducibile ovvero agli affari conclusi con terzi acquisiti dall’agente come clienti per affari dello stesso tipo (§ 87 comma HGB). Pertanto, per potersi rivendicare il diritto alla provvigione è sufficiente qualsiasi cooperazione dell’agente che abbia reso possibile che abbia portato alla concreta conclusione dell’affare.

Le parti possono comunque convenire una clausola derogatoria. Importante sottolineare che il secondo comma dell'art. 87 HGB prevedere che  "il diritto alla provvisione viene meno quando è certo che il terzo non adempie, le somme già ricevuto dovranno essere restituite" ( 87a comma 2 HGB) (cosidetto star del credere).

Importante specificare che se il preponente non esegue l’affare completamente o parzialmente in modo corretto oppure nella maniera in cui era stato stipulato, l’agente ha comunque diritto alla provvigione ( 87-a comma 3 HGB). Ad ogni modo decade il diritto della provvigione qualora il mancato adempimento sia d’attribuire a condizioni che non sono riconducibili alla sfera di responsabilità del preponente.

La Corte di Cassazione tedesca (BGH – Bundesgerichtshoff) si è pronunciata recentemente sul §87a comma 2 HGB specificando che questo non si applica qualora il terzo non abbia adempiuto a causa di una mancata esecuzione dell’affare da parte del preponente ovvero per cause che sono da imputare al preponente. La Corte, inoltre, specifica che il preponente è responsabile di tutte le situazioni che hanno portato alla mancata esecuzione dell’affare, non solamente quando queste sono attribuibili ad una sua colpa personale, bensì anche quando queste sono da ricondurre ad un rischio di tipo imprenditoriale ovvero aziendale.

Seppur sia nell’interesse del preponente ricevere da parte dell’agente il più elevato numero di offerte, rimane fermo il diritto del preponente di decidere se accettare l’affare propostogli. Questo potere decisionale in capo al preponente, risulta indirettamente dal 86a comma 2 HGB, che obbliga quest’ultimo a comunicare all’agente l’intenzione di accettare in numero notevolmente minore gli affari procacciati dall’agente. Questo potere decisionale non è comunque illimitato: il preponente non può rifiutare del tutto arbitrariamente la conclusione di un contratto procacciato. Bisogna inoltre sottolineare che la giurisprudenza ritiene estraneo ai poteri del giudice, interferire nella politica dei l’impresa, valutando le decisioni prese da quest’ultima. Per questo il giudice deve accettare ogni decisione che possa apparire per lo meno plausibile.


3. L'agente di zona.

A fianco la figura dell’agente si colloca quella dell’agente di zona (Bezirkshandelsvertreter). Tale figura è caratterizzata dal fatto di doversi occupare in maniera esclusiva di una zona, affidatagli dal preponente oppure, in altri casi,  di una determinata clientela.

Il § 87 comma 2 HGB prevede, per l’agente di zona, il diritto alla provvigione anche per gli affari che sono stati conclusi, all'interno della zona attribuitagli, seppur senza la sua collaborazione. Proprio per questo motivo, è  evidente che la nomina di un agente di zona possa debba essere piuttosto occulata. Si parte dal presupposto che l’agente possa considerarsi di zona, qualora sia stato qualificato in maniera sufficientemente chiara come tale. In caso di controversia l’onere della prova ricade su colui il quale sostiene che l’agente rivesta tale qualifica. Eventuali incertezze contrattuali devono essere chiarite dalla parte che ha stipulato il contratto.

Quanto agli obblighi dell'agente, questi nello svolgere la propria attività,  deve curare la propria zona continuamente e con particolare attenzione e solamente agendo secondo questi criteri avrà diritto alla provvigione.

Una piuttosto recente sentenza del BGH ha sancito che un’attività al di fuori della zona non può essere considerata impedita a priori. Infatti, qualora il preponente accettasse l’affare, questo può essere considerato come tacito allargamento della zona ovvero della clientela.

Di regola l’agente di zona, che con il consenso del preponente svolge attività al di fuori di questa o con clientela diversa da quella accordata, matura egualmente il diritto alla provvigione di cui al § 87 comma 1 HGB. Resta comunque la facoltà delle parti di accordarsi diversamente.


4. Vendite dirette senza l'intervento del produttore.

La vendita diretta a un cliente da parte del produttore, nonostante questi abbia concesso un diritto di esclusiva al rivenditore, è da considerarsi inadempimento contrattuale. Ma anche nel caso in cui non sia stata concessa l'esclusiva, il produttore non può effettuare, secondo mero arbitrio, vendite dirette ai clienti nella zona di competenza del rivenditore.

Secondo la Corte Federale di Giustizia tedesca, il produttore deve infatti tenere in debito conto e non può contrastare, senza fondati motivi, gli interessi legittimi del rivenditore il quale assoggetta la propria attività e la gestione operativa alle esigenze del produttore.

In una sentenza della Corte di Appello di Düsseldorf del 21.06.2013 (R.G. n. 16 U 172/12) i giudici hanno invece negato la sussistenza di una violazione dell'obbligo di fedeltà perché il produttore non aveva in modo arbitrario ignorato gli interessi legittimi del rivenditore. Nella fattispecie i clienti avevano infatti ribadito di desiderare la vendita diretta da parte del produttore, altrimenti non avrebbero acquistato i prodotti.

Considerando che il rivenditore disponeva solo di un diritto di esclusiva di fatto, che non era stato contrattualmente pattuito, questa decisione dei clienti costituiva, secondi i giudici, un motivo sufficiente per l’ammissibilità della vendita diretta a questi clienti, tanto più che il produttore aveva in precedenza offerto al rivenditore il versamento di una provvigione a titolo di compensazione.


5. Dichiarazione di fallimento e diritto alla provvigione.

In base al § 115 comma I in correlazione con il 116 comma I InsO (lnsolvenzordnung - “legge fallimentare”) l’apertura del procedimento fallimentare porta alla risoluzione del contratto d’agenzia, senza necessità di preavviso. Una continuazione delle attività contrattuali è possibile solamente a seguito di un accordo, anche tacito, tra l’agente e il curatore fallimentare.

Quanto ai diritti alla provvigione maturati a seguito della conclusione dcl nuovo contratto, questi devono essere considerati sempre come crediti prededucibili (debiti della massa) § 55 comma I, punto InsO. Nel caso in cui le attività svolte dall’agente prima dell‘apertura del procedimento fallimentare non abbiano ancora portato alla conclusione di un contratto con il terzo, il diritto alla provvigione dipende dalla scelta del curatore di concludere o meno l’affare con il terzo.

In caso positivo, il diritto alla provvigione si considera alla luce dcl 55 comma I punto InsO come credito privilegiato.

In caso contrario il diritto alla provvigione sussiste comunque indipendentemente dal fatto che il curatore abbia optato per la conclusione del contratto con il terzo o l’abbia rifiutata. In tal caso la provvigione viene considerata come credito chirografaria ex § 38 InsO.

Diverso discorso, invece, per quanto riguarda al diritto dell'agente all’indennità di non concorrenza di cui al § 90a comma 1 HGB; in questo caso, il diritto viene meno in caso di risoluzione del contratto a seguito di apertura del fallimento. Contemporaneamente, tale evento fa cessare anche il divieto di concorrenza dell’agente che le parti avevano pattuito.

Infine, se all’apertura del fallimento il contratto era già risolto il curatore fallimentare può richiedere ex § 103 InsO il mantenimento del divieto di concorrenza ed il diritto al risarcimento costituisce credito sulla massa fallimentare.


L'aereo più pazzp del mondo

[:it]CGUE: volo cancellato? obbligo di prestare assistenza ai passeggeri.

[:it]La Corte di Giustizia, con la sentenza del 31 gennaio 2013 nella causa C-12/11, si esprime nuovamente sulla questione avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da ritardi e disagi dei voli aerei.

Si ricorda, brevemente, che con la Sentenza del 23 ottobre 2012, n. 629/10, la Corte ha affermato che, in caso di sbarco del passeggero con ritardo di tre ore dopo l’orario previsto, si applicano i parametri di risarcimento del danno dettati dal Regolamento CE n. 261/2004, che prevede, per l’appunto, il diritto dei passeggeri di ricevere una compensazione forfettaria di importo compreso tra 250 e 600 euro, in caso di cancellazione del volo.

Nella sentenza del 23 ottobre, veniva inoltre specificato che il risarcimento non possa essere chiesto qualora il vettore aereo dimostri che il ritardo è stato causato da circostanze eccezionali, che non si sarebbero potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso, ossia circostanze che sfuggono all’effettivo controllo del vettore aereo.

Con la Sentenza oggetto di esame la Corte di Giustizia specifica sul punto che, anche in caso di forza maggiore, le compagnie non sono esonerate dall’obbligo di prestare assistenza ai passeggeri rimasti a terra. Pertanto, anche se il volo è stato cancellato a causa di circostanze eccezionali quali la chiusura dello spazio aereo – nel caso di specie appunto l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull – il vettore è comunque obbligato a prestare assistenza senza limitazioni di tempo o di denaro ai passeggeri, fornendo loro alloggio, pasti e bevande.

Peraltro, la Corte sottolinea che, quanlora il vettore aereo non ha adempiuto al suo obbligo di prestare assistenza al passeggero, quest’ultimo può ottenere, soltanto il rimborso delle somme che risultino necessarie, appropriate e ragionevoli.

 

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