Cassazione: abuso del diritto anche in materia tributaria.

[:it]Per la Cassazione l’abuso di diritto è configurabile anche in materia tributaria.

Le recenti sentenze 3242/2013 e 4901/2013 hanno riconfermato che l’istituto dell’abuso del diritto sia applicabile anche in materia tributaria.

Per comprendere appieno il dettato, è preliminarmente necessario comprendere il concetto di abuso del diritto, stando attenti di applicare una netta distinzione tra evasione fiscale ed abuso ed elusione.

Contrariamente da altri paesi europei, quali, ad esempio, Germania, Grecia, Svizzera, Portogallo, l’Italia non ha recepito come norma di legge il principio in dell’abuso del diritto. Tuttavia, a livello civilistico, dottrina e giurisprudenza hanno sviluppato tale ampiamente detto istituto. Un’ottima definizione è stata data dalla Corte di Cassazione, che ha previsto che “si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando un sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti” (Cass. Civ. 2009/20106).

In ambito tributario, la figura dell’abuso è stata introdotto, invero, con la sentenza del 13 maggio 2009, n. 10981 la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, con cui ha affermato che “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.

In sostanza, il concetto di abuso del diritto tributario è stato, di fatto, un allargamento del concetto di elusione,circoscritto (erroneamente) a fattispecie casistiche (art. 37-bis del Dpr 600/1973).

Le recenti sentenze oggetto di esame, hanno risancito l’applicabilità dell’istituto dell’abuso anche in ambito tributario. Nello specifico, hanno stabilito che qualora un contribuente, esercitando un diritto espressamente riconosciutogli, non persegua, in realtà, un fine meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, realizzando anzi un obiettivo contrario, non può essergli riconosciuta alcuna tutela giurisdizionale. Infatti, il soggetto abusa della libertà di adottare un certo trattamento per i propri vantaggi, sfruttando la varietà di forme giuridiche che l’ordinamento gli mette a disposizione.

Quindi, al contrario dell’evasione, che si realizza quando vi è un occultamento di ricchezza imponibile ovvero l’alterazione di un fatto economico (come la simulazione, l’interposizione fittizia), l’abuso e l’elusione, al contrario, si verificano quando il vantaggio fiscale del contribuente è indebito, poiché ottenuto attraverso il superamento (o abuso) del vantaggio riconosciutogli espressamente da una norma, andando a perseguire un vantaggio disapprovato dal sistema.

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Fantozzi contro tutti

Tardiva contestazione disciplinare? Reintegro del lavoratore.

[:it]La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 1693 del 24.1.2013 ha affermato un principio di diritto piuttosto rilevante nell’ambito del diritto del lavoro. Nello specifico ha attestato che, in caso di licenziamento disciplinare per giusta causa, le infrazioni devono essere contestate dal datore di lavoro nell’immediatezzadella loro commissione.

Il caso di specie ha visto un lavoratore che si è presentato, per oltre due mesi, in ritardo sul luogo di lavoro, ritenendosi demansionato. Il Tribunale di Roma, nel primo grado di giudizio, ha a questi riconosciuto il danno liquidando però soltanto un indennizzo. La Corte di appello, invero, ne ha disposto anche la reintegra.
È arrivata da ultimo la Cassazione Civile statuendo, nella sentenza 1693/2013, che  “il tempo trascorso tra l’intimazione del licenziamento disciplinare e l’accertamento del fatto contestato al lavoratore può indicare l’assenza di un requisito della fattispecie prevista dall’articolo 2119 c.c. (incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto di lavoro), in quanto il ritardo nella contestazione può indicare la mancanza di interesse all’esercizio del diritto potestativo di licenziare; sotto un secondo profilo, la tempestività della contestazione permette al lavoratore un più preciso ricordo dei fatti e gli consente di predisporre una più efficace difesa in relazione agli addebiti contestati: con la conseguenza che la mancanza di un tempestiva contestazione può tradursi in una violazione delle garanzie procedimentali fissate dalla legge 300 del 1970, articolo 7”.

La mancata contestazione è stata, dunque, considerata dalla Suprema Corte, come un “comportamento tollerato”. Si pensi, infatti, che il succitato articolo 7 dello statuto dei lavoratori prevede esplicitamente che: “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa”.

 

 

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