Il distacco

Il distacco dalla rete. Un detachment quantificabile?

[:it]Se un cittadino rimane senza connessione, può richiedere il risarcimento del danno alla compagnia telefonica?

A questa domanda ha dato risposta il Giudice di Pace di Trieste con una recente sentenza (GdP Trieste 30/7/2012 n. 587).

La vicenda ha visto protagonista una famiglia rimasta senza collegamento ADSL per 4 mesi, la quale si è rivolta a Giudice di Pace al fine di richiedere il ristoro dei danni patiti. Il Giudice si è pronunciato sul punto affermando che “ormai da tempo la giurisprudenza è orientata nel ritenere che il distacco o il mancato allaccio della linea telefonica e internet costituiscano un danno patrimoniale e esistenziale per il titolare del contratto e della sua famiglia, danno considerato particolarmente grave in un'epoca in cui la comunicazione è fondamentale in ogni aspetto della vita quotidiani.

Sulla base di questo ragionamento il Giudice ha, pertanto, liquidato il danno patrimoniale derivante dal mancato adempimento (avere lasciato la famiglia sconnessa per 4 mesi) esprimendosi sul punto:  “tale inadempimento, pur non essendo precisamente quantificabile economicamente, sussistendo i presupposti di cui all, può essere valutato equitativamente in € 1.600,00.”

Il Giudice continua nella motivazione, riconoscendo anche il danno da “digital divide, ossia un danno di natura esistenziale caratterizzato dall’esclusione del cittadino dalla rete. Il mancato accesso ai servizi di connettività genera, compromette la sfera relazionale, le attività realizzatrici e diverse abitudini di vita.

Sul punto il Giudice: “alquanto difficoltoso lo svolgimento delle quotidiane attività, difficoltà costituenti presupposto per concedere alla parte attrice il risarcimento del danno esistenziale subito a causa dell'inadempimento del gestore telefonico ....La valutazione del danno in mancanza di criteri oggettivi deve essere determinata equitativamente in € 800,00"

 

 

 

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Il fantasma dell'opera

L'opera digitale. Un horror per il nostro ordinamento?

[:it]Sempre più spesso si parla di “opera digitale”, il cui significato sembrerebbe essere inteso sempre più dagli utenti, senza che vi sia, invero, un reale ed effettivo riscontro da parte del legislatore.

Come è noto, infatti, l'opera digitale è intesa come una opera dell’ingegno che è caratterizzata dal fatto di contenere un cosiddetto “corpus mysthicum(quale appunto l’originalità, la creatività, le
caratteristiche di innovatività; connotazioni quindi intangibili) e di non avere un “corpus mechanicum” (si pensi ad esempio allo spartito musicale o il tradizionale foglio di carte su cui è scritta un’opera).

È importante, sul punto, ricordare che l’opera digitale, proprio per la sua connotazione del tutto immateriale, non deve essere confusa con il CD/DVD contenente files multimediali. Bensì l’opera si identifica proprio nei files in esso racchiusi, quindi in un insieme di impulsi elettrici espressi in codice binario.

Importante, sul punto, differenziare le opere digitali in senso stretto, dalle opere “digitalizzate”, (appunto il semplice DVD o CD, al cui interno vengono impressi e salvati dei file digitali). In questi casi, infatti, il formato fisico incide fortemente sulla distribuzione e le opere musicali, editoriali ed audiovisive, già pienamente tutelate, vengono trasportate in formato digitale per ragioni distributive.

Classico esempio, dunque, di opera digitale è la fotografia e/o il video digitale, non essendo questa necessariamente associata ad una riproduzione cartacea.

Va da sé che i problemi collegati ai rapporti tra il diritto d’autore e le opere digitali sono evidentemente enormi. Posta la facilità con cui un soggetto possa “impossessarsi” ed utilizzare un’opera digitale di un terzo attraverso l’utilizzo del web.

Il nostro ordinamento, ciò nonostante , in ambito di diritto d’autore non ha ancora dato una definizione del termine di “opera digitale” e non ha avuto ancora modo di regolamentare tale disciplina, nonostante le necessità siano già da anni necessarie.

 

 

 

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Intrigo internazionale

La giurisdizione su internet? La Corte di Giustizia da risposta a questo "intrigo internazionale".

[:it]Pubblicata in data 25.10.2012 una importantissima sentenza della Corte di Giustizia che ha avuto modo di risolvere una questione ormai aperta da diversi anni. È stato, infatti, richiesto all’organo giurisdizionale europeo, di decidere in merito alla possibilità di un cittadino dell’UE, di potere ricorrere presso i giudici dello Stato in cui questi ha il proprio centro d’interessi, al fine di richiedere il risarcimento del danno causato dalla violazione dei propri diritti alla persona, per mezzo di contenuti messi da un terzo sul web, tramite un sito internet.

La Corte, era stata chiamata a decidere su due questioni molto simili:

- il primo caso aveva visto un cittadino tedesco, che era stato precedentemente condannato per omicidio e poi, in seguito, era stato ammesso alla libertà condizionata, ha richiesto al Tribunale tedesco il risarcimento del danno per dei contenuti messi in rete da una società austriaca, che ledevano i suoi diritti alla persona;

- nel secondo, parimenti, un cittadino francese chiedeva la condanna al pagamento di una somma di denaro nei confronti di una testata giornalistica on-line inglese, che aveva pubblicato informazioni non veritiere sul suo conto.

La Corte di Giustizia, chiamata a decidere su queste controversie ha affermato che sussiste la possibilità alternativa di agire:

1. presso i Giudici dello Stato membro, ove il soggetto che ha pubblicato i contenuti lesivi è stabilito;

2. nel luogo in cui il soggetto leso trova il proprio centro di interessi;

3. dinanzi ai giudici di ogni Stato membro sul cui territorio un’informazione messa in rete sia accessibile oppure lo sia stata.

La sentenza argomentava la propria decisione sulla base dell’art. 5, punto 3, del regolamento (CE) 44/2001, regolante, tra le altre cose, la competenza giurisdizionale in ambito europeo.

Tale norma, infatti, recita che “la persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti al giudice del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto o può avvenire.”

Molto interessante questa sentenza e sicuramente non di poco spessore, che va a dare certezza in una altra situazione di violazione di diritti alla persona in ambito meta-territoriale, ossia attraverso l’utilizzo della piattaforma web.

 

 

 

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La compravendita del domain name

Intervento al convegno sulla vendita internazionale di beni mobili.

[:it]Il 15.11. ho avuto il piacere di presentare brevemente, in occasione del convegno sulla vendita internazionale dei beni mobili, presso l'aula magna dell'Università di Verona, un tema già da me trattato nei seguenti articoli: la compravendità del domain name e tld (in ambito internazionale).

Se è di vostro interesse ecco qui le slides del convegno.[:]


Un americano a Roma

Ma il .eu, lo potrebbe utilizzare anche un americano a Roma...?

[:it]In data 12 luglio 2012 la Corte di Giustizia europea ha emanato una sentenza molto interessante in ambito di diritto dell’internet e e-commerce. Nello specifico ha stabilito che i domini di primo livello (Tld – top level domain) “.eu” sono riservati solamente alle imprese che hanno “la propria sede legale nel territorio dell’Ue”.
In particolare ai sensi della normativa EU (art. 12 del regolamento n. 874 del 2004)  può essere richiesta la registrazione del Tld “.eu” solamente dei “nomi di dominio [..] dei marchi nazionali registrati, dei marchi comunitari registrati, [..] e dai titolari o licenziatari di diritti preesistenti.

La Corte di Giustizia, nell’interpretare la succitata norma ha considerato che per “licenziatari di diritti preesistenti” non possono intendersi società o persone dell’unione europea che si limitano, su richiesta di un titolare di un marchio con sede in un paese terzo, alla registrazione dello marchio medesimo senza che ne sia a loro consentito un uso commerciale.

Il caso di specie, per rendere più chiara la questione, ha visto protagonista una società americana, (la Wlash Optical), che opera nella vendita online di lenti a contatto e di altri articoli di occhialeria. La stessa gestisce dal 1998 il sito www.lensworld.com e si è resa titolare del marchio Benelux Lensworld, registrando lo stesso in data 26 ottobre 2005. Nel novembre 2005 la stessa decide di stipulare un contratto di licenza con la Bureau Gevers, società belga che svolge attività di consulenza in materia di proprietà intellettuale, affinché quest’ultima registri a suo nome, ma per conto della stessa Walsh Optical, il dominio “lensworld.eu” presso l’UERid.

A seguito di un anno, anche la Pie Optiek, società belga concorrente della ditta americana, chiede la registrazione del sito “www. lensworld.eu.” Detta richiesta viene ad ogni modo respinta.

La Pie Optiek, pertanto, promuove un azione legale nei confronti della società americana, ritenendo che, in quanto avente sede in un paese terzo, non avesse diritto ad utilizzare il dominio .eu. Il tribunale di prima istanza respinge il ricorso. Avverso la sentenza propone appello la Pie Optiek. La Corte di Appello di Bruxelles rimette la causa alla Corte di Giustizia richiedendo l’interpretazione dell’articolo 12, paragrafo 2, del Regolamento n. 874 del 2004. La  Corte, quindi, afferma che non si può intendere licenziatario di diritti preesistenti” una persona semplicemente autorizzata dal titolare del marchio, con sede in un paese terzo, a registrare a proprio nome, ma per conto del concedente, un nome a dominio identico o simile al marchio stesso, senza che tuttavia le sia consentito un uso commerciale del medesimo.

La Corte rileva sul punto come il dominio di primo livello .eu è stato creato allo scopo di accrescere la visibilità del mercato interno nell’ambito degli scambi commerciali virtuale basato su Internet, offrendo un nesso chiaramente identificabile con l’Unione Europea, con il quadro normativo associato e con il mercato europeo, nonché consentendo alle imprese, alle organizzazioni e alle persone fisiche dell’Unione di registrarsi in un dominio che renda evidente tale nesso.

Per tale motivo debbano essere registrati i nomi di dominio esclusivamente richiesti da qualsiasi soggetto che soddisfi i criteri di presenza sul territorio dell’Unione Europea. Più precisamente, da parte di imprese che abbiano la propria sede legale, amministrazione centrale o sede di affari principale nel territorio dell’Unione, da qualsiasi organizzazione stabilita nel territorio della medesima nonché da qualsiasi persona fisica residente nel territorio dell’Unione Europea.

 

 

 

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Le barzellette

C'e' un francese, uno spagnolo, un italiano e YouTube.

[:it]YouTube può ritrasmettere sulla propria piattaforma spezzoni di un canale televisivo? E se sì, che ruolo ricopre da un punto di vista civilistico? A questi quesiti sicuramente di grande rilevanza e di grande importanza ha dato risposta il Tribunal de grande instance di Parigi.

I giudici francesi si sono visti a decidere su una vertenza promossa dalla società televisiva TF1, che chiedeva a YouTube un risarcimento danni pari ad 150 milioni di euro per violazione del codice della proprietà intellettuale. In particolare dell’art. 216-1 che subordina la diffusione e la ritrasmissione di un’opera dell’ingegno all’autorizzazione del titolare dei diritti e dell’art. 1382 del Code civil (corrispondente al nostro art. 2043 c.c. disciplinante la responsabilità extracontrattuale).

I giudici d’oltralpe hanno deliberato il rigetto di tutte le istanze formulate da TF1, condannando la stessa al pagamento delle spese legali pari ad € 80.000.

La sentenza risulta interessante in quanto statuisce che “il modello economico sviluppato dalla società YouTube nella sua qualità di fornitore di hosting non è né vietato, né illecito e nessuno sviamento di clientela” può esserle imputato. Secondo il giudici francesi, infatti YouTube e televisione configurano due differenti tipologie di business.

Viene, inoltre, fatta chiarezza sulla figura di YouTube, la quale rimarrebbe mero hosting non essendo in alcun modo assimilabile la sua attività a quella di tipo editoriale.

Gli attori sul punto avevano osservato che YouTube compie attività che vanno oltre a quelle tipiche dell’hosting. Ad esempio, Youtube attua una verifica preventiva volta a bloccare e censurare alcuni contenuti che YouTube “ritiene contrari alla propria linea editoriale”; inoltre Google acquisisce in automatico i diritti d’autore necessari allo sfruttamento dei contenuti postati dagli utenti. Malgrado dette osservazioni la Corte ha affermato che tali circostanze, non sarebbero idonee e sufficienti a qualificare il colosso del web quale “editore”.

Da ultimo la sentenza ripercorre quanto già affermato dalla giurisprudenza Spagnola dello Juzgado de lo Mercantil di Madrid, 20 settembre 2010, che declinava ogni responsabilità in capo a Youtube per i contenuti pubblicati dagli utenti (si veda sul punto anche "Il contratto di hosting e i profili di responsabilita’ dell’hosting provider e  Responsabilita’ del motore di ricerca nel caso di “caching” (if you can)).

Sul punto aggiunte anche che l’utilizzo della pubblicità su alcuni dei video pubblicati non sarebbe di per sé sufficiente a comportare la perdita di status di intermediario.

Gli operatori di internet quindi sono semplici intermediari e, in quanto tali, non possono essere considerati responsabili dei contenuti veicolati da terzi, né, tanto meno, essere equiparati a degli editori.
In definitiva, si avverte che la giurisprudenza europea si stia avviando finalmente verso una difficile inquadratura nell’individuazione dei doveri e delle responsabilità dei motori di ricerca e degli hosting.

 

 

 

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Responsabilità del motore di ricerca nel caso di “caching”.

Nel maggio di quest’anno la Sezione proprietà industriale del Tribunale di Firenze si è vista a decidere su una questione molto interessante per tutti gli utenti del web. Il caso è facilmente riassumibile: Tizio, imprenditore, navigando sul web scopre un sito nel quale vengono riprodotte sue foto e viene diffamato il nome della propria azienda.

Dato dal sito non si riusciva a risalire al webmaster o al gestore del sito, decide di rivolgersi direttamente a Google Inc. (sede americana), chiedendo alla stessa
di rimuovere il collegamento dal motore di ricerca al sito contestato. A seguito del rifiuto di Google, Tizio decide di promuovere un’azione legale.

Il 12.5.2012, il Tribunale di Firenze, pronuncia una ordinanza con la quale esclude la responsabilità di Google per le seguenti ragioni:

  • l’attività dei motori di ricerca è una attività di mero caching, ex art. 15 del dlgs 70/2003;
  • il motore di ricerca è tenuto a rimuovere i collegamenti solo su ordine dell’organo competente.

Soffermandosi brevemente sul primo punto, si può rilevare che l’ordinanza è dell’avviso che quella dei motori di ricerca si soffermi ad essere una mera attività di caching, posto che è limitata “alla indicizzazione dei siti ed alla formazione di copie cache dei loro contenuti, con memorizzazione temporanea delle informazioni”. Gli operatori di internet, pertanto, risultano essere dei semplici intermediari e, in quanto tali, non possono essere considerati responsabili dei contenuti veicolati da terzi.

Quanto al secondo punto, l’ordinanza si concentra sugli obblighi dei motori di ricerca, qualora pervengano agli stessi  richieste di rimozione o di disattivazione dell’accesso a determinati contenuti. Il Tribunale su questo punto afferma che “la conoscenza effettiva della pretesa illiceità dei contenuti del sito de quo non possa essere desunta neppure dal contenuto delle diffide di parte, trattandosi di prospettazioni unilaterali.

Inoltre, circa la conoscibilità degli illeciti, questi non sono presumibili sulla base di meri reclami da parte degli utenti della rete, ma è necessario che un “organo competente abbia dichiarato che i dati sono illeciti, oppure abbia ordinato la rimozione o la disabilitazione dell’accesso agli stessi, ovvero che sia stata dichiarata l’esistenza di un danno” o, ancora, “che l’ISP stesso sia a conoscenza di una tale decisione dell’autorità competente.”

Questa decisione sembra sostituire il precedente orientamento giurisprudenziale che applicando in maniera estensiva il dlgs 70/2003, ha ritenuto bastevole che il soggetto comunicasse all’intermediario il link del sito contenente il presunto materiale illecito.

Orientamento, a parere di chi scrive, giustamente superato con l’ordinanza oggetto di esamina, che risulta, peraltro, essere molto importante nel settore, posto che vengono impartite direttive ben chiare e viene delineata in maniera ferma la responsabilità di figure giuridiche non ancora del tutto ben inquadrate.


I vitelloni

Diffamazione su facebook. Meglio stare attenti, che se poi l'auto finisce la benzina...

[:it]Facebook, spazio di grande interesse sia sociale che commerciale. Un nuovo modo di condividere i propri pensieri, idee e spunti lavorativi. Una nuova piazza multimediale.

Tale affermazione, che in un primo momento potrebbe sembrare una mera e semplice asserzione di carattere “para-sociopolitico” , si sta in realtà rilevando sempre più di interesse giuridico. Ci si chiede infatti, ma cosa può accadere se si pubblica sul proprio profilo un commento offensivo, falso o semplicemente volgare? Deve ritenersi che detto comportamento sia effettivamente posto in essere in un luogo pubblico o, addirittura, per mezzo stampa?

A tale domanda, che come si può capire, non è più di poco interesse, ha risposto il primo di ottobre il Tribunale di Livorno. La Corte su punto ha deciso la condanna di una donna per “diffamazione”, con l’aggravante “mezzo stampa”, poiché ha insultato il proprio ex datore di lavoro (che l'aveva licenziata) sul proprio profilo Facebook.

Il tribunale di Livorno, ha dato pertanto vita ad un nuovo orientamento nella giurisprudenza di merito, ponendosi in controtendenza con un orientamento giurisprudenziale della Cassazione, in base al quale “ai fini della configurabilità di una fattispecie criminosa come reato commesso con il mezzo della stampa, le definizioni che di stampa e stampati fornisce l’art. 1, l . n. 47 del 1948 non sono suscettibili d’interpretazione analogica e/o estensiva.

Sarà quindi necessario che ogni utente ponga sempre più attenzione ai commenti postati su FB, posto che questi oltre ad avere delle conseguenze prettamente sociali e relazionali, possono addirittura profilare una eventuale responsabilità civile e penale.

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Il diavolo veste prada

La catena di Sant’Antonio viene spezzata. A questo punto, il diavolo veste ancora Prada?

[:it]Qualche giorno fa, la Corte di Cassazione ha affrontato un tema che è ormai parte del linguaggio comune di tutti i giorni: lo spam. Tale attività, conosciuta anche come la “catena di Sant’Antonio“, è un veicolo utilizzato da molte società al fine di reclutare il maggior numero di soggetti per fini economici. Il classico esempio e la classica tecnica utilizzata è quella di invogliare i navigatori ad iscriversi ad un servizio in cambio di un
omaggio.

A tentare di fermare detta prassi si è inserita la Suprema Corte, la quale ha stabilito che il comportamento dei titolari di siti web che incentrano la propria attività sulla corresponsione di incentivi agli iscritti al solo fine di ottenere i dati di nuovi soggetti, sia da ritenersi di fatto illecito.

Nello specifico, la Corte ha affermato con sentenza n. 37049 del 2012, che “è illecito il comportamento del titolare di siti web incentrati sulla corresponsione di incentivi agli iscritti sulla base del mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che ricondurli alla attività di vendita di beni o servizi determinati”.

La base di questo ragionamento si incentra principalmente sul divieto delle “vendite piramidali”, di cui all’art. 5 della legge 173/2005. Detta prassi, infatti, si fonda sull’attività propagandistica di strutture di core business, focalizzate esclusivamente sull’aumento delle fila degli utenti e non sulla promozione di alcun servizio o prodotto.

Importante sottolineare che tale prassi è illecita anche qualora l’adesione sia volontaria, posto che, come recita la Corte, “la norma incriminatrice non richiede l’involontarietà dell’adesione quale presupposto per la sussistenza del reato”.

Interessante vedere come tale principio potrà e verrà applicato al nuovo mondo dei social-network, piattaforme sicuramente molto adatta per lo sviluppo di tali attività.

 

 

 

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Indovina chi viene a cena

Il contratto di hosting e i profili di responsabilità dell'hosting provider.

[:it]Negli ultimi anni, il sito internet non è più una semplice vetrina usata dalle società per dare delle generiche informazioni e indicazioni sulle attività di un’impresa, bensì un mezzo e uno strumento di lavoro e promozione.

Prima di affrontare la tipologia contrattuale di “creazione di sito web”, ritengo necessario andare ad analizzare molto brevemente quella che è la base di tutto questo rapporto contrattuale, il terreno su cui i web designer, di fatto svolgono la propria attività: il contratto di hosting web. Come per costruire un’immobile è necessario del terreno, allo stesso modo, per pubblicare un sito è necessario acquisire dello spazio web. Alla base di tutto questo vi si pone quindi il cosiddetto contratto di “hosting web”, che si potrebbe  definire come il contratto  mediante il quale un soggetto acquisisce dello spazio su uno o più server di titolarità di un hosting provider, dietro pagamento di un corrispettivo.

Il contratto di hosting web, rientra nella categoria dei contratti atipici, ossia di quei contratti che non sono regolati e disciplinati direttamente dal codice civile e consiste in definitiva in una prestazioni di servizi. L’hosting provider, più specificatamente, mette  a disposizione di un altro soggetto dello spazio su uno o più computer per ospitare pagine web.

Uno degli elementi giuridicamente più rilevanti in questa tipologia contrattuale, riguarda sicuramente la responsabilità del provider per i dati che vengono salvati sui propri server dai gestori dei siti con cui ha stipulato un contratto di hosting.

Tale profilo è regolato dall’art. 16 d.l. 70/2003 (decreto legislativo con cui il legislatore italiano ha recepito la direttiva comunitaria 2000/31 CE). Ai sensi di tale articolo:

nella prestazione di un servizio della società dell'informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a)    non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione;

b)    non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso.

L’art. 17 del d.l. prevede inoltre, che

il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, ne ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino fa presenza di attività illecite.

A tal proposito si ricorda, una importante sentenza del Tribunale di Roma del 2009, con la quale la Corte ha cercato di chiarire e precisare la portata di suddetti disposti normativi, affermando che “sebbene l'internet provider non sia assoggettato ad un generale obbligo di sorveglianza sui contenuti memorizzati, in quanto ciò si risolverebbe in una inaccettabile responsabilità oggettiva, egli è tuttavia soggetto a responsabilità quando non si limiti a fornire accesso alla rete, ma eroghi servizi aggiuntivi (caching, hosting ) e/o predisponga un controllo delle informazioni e, soprattutto, quando, consapevole della presenza di materiale sospetto, si astenga dall'accertare la illiceità e dal rimuoverlo o se, consapevole dell'antigiuridicità, ometta di intervenire”.[1]

Il Tribunale, pertanto, posto che non sussiste in capo al provider un obbligo generale di sorveglianza, ha ritenuto necessario perché possa configurarsi una responsabilità civilistica in capo allo stesso, la conoscenza e conoscibilità da parte del provider di informazioni illecite ovvero di fatti e circostanze che rendono manifesta detta illiceità e la mancata rimozioni di dette informazioni non appena a conoscenza di tali fatti e su comunicazione delle autorità competenti. [2]

Il Tribunale con tale sentenza, riprende il concetto di responsabilità oggettiva in base al quale un soggetto può essere responsabile di un illecito, anche se questo non deriva direttamente da un suo comportamento e non è riconducibile a dolo o colpa del soggetto stesso. Tale situazione va a derogare il principio generale della responsabilità, in base al quale è necessario un preciso nesso di causalità tra il comportamento dell’individuo e l’illecito stesso.

Il presente articolo, ad ogni modo, deve considerarsi come un semplice e puro spunto di una tematica molto complessa, dettagliata e in continua evoluzione. Una specie di piccola spiegazione su quelli che sono i rapporti giuridici tra nuove tipologie di soggetti. Interessante, comunque, vedere come, seppure gli strumenti all’interno della società evolvono, le categorie e gli istituti giuridici del codice civile, rimangono sempre unica e vera base per disciplinare i rapporti commerciali e sociali.


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