Il diritto dell’agente di visionare i libri contabili del preponente.

L'art. 1749 c.c. conferisce all'agente il diritto di visionare la documentazione contabile del preponente. Tale norma si prefigge il compito di rendere il più possibile equilibrato il rapporto tra l’agente e il preponente, soprattutto nel caso in cui lo stesso agente non ha poteri di rappresentanza e non è quindi in grado di verificare direttamente quali affari sono stati conclusi dal preponente.

Nello specifico, il secondo comma dell'art. 1749 c.c.,[1] dispone che:

"il preponente consegna all’agente un estratto conto delle provvigioni dovute al più tardi l’ultimo giorno del mese successivo al trimestre nel corso del quale esse sono maturate.”

Il terzo comma dell'art. 1749 c.c. recita che:

L’agente ha diritto di esigere che gli siano fornite tutte le informazioni necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate e in particolare un estratto dei libri contabili."

Tale articolo si fonda essenzialmente sul principio di carattere generale, in base al quale il preponente deve agire con lealtà e buona fede nei confronto dell’agente, imponendo da un lato al preponente stesso l’obbligo di mettere a disposizione dell’agente, almeno con cadenza trimestrale, un estratto conto delle provvigioni dovute, quanto più analitico possibile e, dall’altro lato, l’agente deve avere la possibilità di verificare che le provvigioni liquidate siano state calcolate correttamente.

L'importanza di tale norma viene sottolineata dal quarto comma dello stesso articolo, che sancisce l’inderogabilità, anche parziale, degli obblighi ivi indicati:

"è nullo ogni patto contrario alle disposizioni del presente articolo."

Il principale strumento processuale utilizzato dall’agente per fare valere tale diritto è rappresentato dall’art. 210 c.p.c. Tale norma stabilisce che il Giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o a un terzo di “esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo”. 

L’applicazione pratica di tale norma non è sempre di facile soluzione (anzi…) e la giurisprudenza italiana si è spesso trovata a risolvere numerose problematiche ad esso correlate.

In primo luogo, è importante sottolineare che, per il nostro Ordinamento, lo strumento istruttorio di cui 210 c.p.c. ha natura residuale e può essere utilizzato solo se la prova del fatto non è acquisibile da parte istante e se l’iniziativa non ha finalità meramente esplorative;[2] l’accoglimento di tale istanza è rimessa al potere discrezionale del Giudice, il quale la potrà ammettere solamente se consta che

 “la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile aliunde, non potendo avere l'iniziativa finalità meramente esplorative o sostitutive dell'onere probatorio posto a carico della parte.[3]

Ne consegue che l’agente, sul quale grava l’onere di provare l’avvenuta conclusione degli affari, non può utilizzare tale strumento per supplire al mancato assolvimento di un suo gravame probatorio e dovrà provare che la mancata allegazione di elementi probatori non sia a lui imputabile, nonché indicare in maniera specifica i documenti di cui chiede un estratto (che devono essere direttamente o indirettamente individuabili), posto che una richiesta troppo generica, sarebbe di fatto esplorativa e, quindi, inammissibile.

Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione,

l'agente è titolare di un vero e proprio diritto all'accesso ai libri contabili in possesso del preponente, che siano utili e necessari per la liquidazione delle provvigioni e per una gestione trasparente del rapporto secondo i principi di buona fede e correttezza. Di conseguenza, il preponente, ove richiesto (anche giudizialmente), ha un vero e proprio obbligo di fornire la documentazione e le informazioni richieste dall'agente al fine di consentire l'esatta ricostruzione del rapporto di agenzia.”[4]

La sentenza continua:

incombe comunque sull’agente che agisce al fine di ottenere l'esibizione documentale dedurre e dimostrare l'esistenza dell'interesse ad agire, con circostanziato riferimento alle vicende rilevanti del rapporto (tra cui, in primis, l'invio o meno degli estratti conto provvigionali ed il loro contenuto) e l'indicazione dei diritti, determinati o determinabili, al cui accertamento è finalizzata l'istanza.

Seguendo tale principio, un’istanza con cui si chiede che venga genericamente ingiunto alla preponente di esibire gli estratti contabili di tutti i clienti che l’agente ha fornito (ad es. senza indicarne i nominativi), ovvero dei clienti che il preponente ha fornito direttamente nel territorio contrattuale (e sui cui ordini andati a buon fine, l’agente avrebbe percepito le provvigioni indirette), sarebbe verosimilmente ritenuta inammissibile, in quanto troppo generica e, quindi, esplorativa.


Qualora il Giudice riconosca che sussistono i requisiti sopra indicati, potrà emettere l’ordinanza di esibizione di tali estratti, con cui, in pratica (almeno per quanto è mia esperienza personale…) la preponente viene intimata ad esibire i mastrini provvigionali / le schede contabili, relative ai clienti per i quali l’agente ha promosso istanza ex art. 210 c.p.c.

In buona sostanza, i documenti sui quali sussiste il diritto di accesso dell’agente saranno:[5]

  • le fatture di vendita rilasciate alla clientela;
  • la copia dei libri iva, le bolle di consegna della merce;
  • le ricevute di versamento ENASARCO e comunque tutti quei documenti necessari per la verifica del singolo affare;
  • nonché gli estratti conto provvigionali, il tutto ovviamente riferito alla zona e al periodo nei quali l’agente ha svolto il proprio incarico.

Il Giudice, ottenuta la documentazione, può quindi disporre CTU tecnico contabile, volta a verificare gli ordini ricevuti dalla preponente e conteggiare il pagamento delle provvigioni.

Da un punto di vista pratico, bisogna altresì fare presente che spesso ciò può comportare dei problemi pratici assai rilevanti, derivanti dal fatto che dalla documentazione esibita, ed elaborata da parte del perito, spesso emerge un copiosissimo numero di informazioni prima sconosciute (almeno ad una) delle parti e che tali informazioni possono dare adito ad “una causa, nella causa.”

Da ultimo, si fa presente che l’art. 210 c.p.c. non è l’unico strumento in mano all’agente, il quale, secondo la giurisprudenza maggioritaria, ha comunque il diritto a richiedere l’estratto conto provvigionale ex art. 1749 c.c, anche autonomamente in via monitoria.[6]

Come si può comprendere, tale tematica è di assoluta rilevanza, posto che dall'art. 1749 c.c. derivano in capo all'agente diritti fondamentali che gli permettono, in definitiva, di provare il proprio diritto al pagamento delle provvigioni.


[1] Articolo che ha recepito con d.lgs 1999 n. 64, l’art. 12, co. 2 della direttiva 86/653/CEE, che ha appunto conferito all’agente il diritto “di esigere che gli siano fornite tutte le informazioni, in particolare un estratto dei libri contabili, a disposizione del preponente, necessarie per verificare l'importo delle provvigioni che gli sono dovute.”

[2] Cfr. Cass. Civ. 2011 n. 14968

[3] Cass. Civ. 2011, n. 26151.

[4] Cass. Civ. Sez. lavoro, n. 19319 del 2016.

[5] Cfr. Buffa, Bortolotti & Mathis, Contratti di Distribuzione, Wolters Kluver, 2016.

[6] Cass. Civ. 2010, n. 20707.


Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente.

Quando si tratta la tematica delle modifiche unilaterali del contratto, è necessario  ricordare l’esistenza di un principio fondamentale di diritto, ossia il “consenso delle parti” (di cui agli artt. 1325 e 1372 c.c.). Sulla base di tale principio, l’accordo delle parti è necessario per la valida modifica di preesistenti pattuizioni contrattuali (sul punto cfr. anche Il potere del preponente di modificare il portafoglio clienti del proprio agente). La Cassazione, proprio vertendo su tale fondamento di diritto, ha considerato nulla e priva di efficacia proprio una clausola inserita in un contratto di agenzia, che consentiva al preponente di modificare a suo piacimento le aliquote provigionali. (Cass. Civ. 1997 n. 11003).

Ciò premesso e sulla base della giurisprudenza qui sopra citata, si può ragionevolmente ritenere che una clausola che conferisce il potere potestativo di modificare unilateralmente le clausole contrattuali,  debba tendenzialmente considerarsi nulla, inefficace, o quantomeno debba essere interpretata in coerenza con quelli che sono i principi dettati dall’AEC, qualora applicabili al rapporto.

Si tenga comunque presente che la giurisprudenza, pur senza affrontare direttamente la questione, tende a dare per scontata la nullità della clausola del contratto difforme dall’AEC e la sua sostituzione con la disposizione di quest’ultimo, (Cass. Civ. 2000 n. 8133; Cass. Civ. 2004 n. 10774) facendo in particolare riferimento all’art. 2077 c.c.

L’art. 2 degli AEC settore commercio 2009, regola quelli che sono i poteri del preponente di modificare unilateralmente, quindi senza la necessità di una espressa approvazione da parte dell’agente, le provvigioni e i prodotti promossi dall’agente stesso. Tale norma dispone che, salvo diverso accordo tra le parti, tali variazioni possono essere:

di lieve entità, intendendosi per lieve entità le riduzioni che incidano fino al 5% delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile (1° gennaio – 31 dicembre) precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero;
di media entità, intendendo per media entità le riduzioni che incidano oltre il 5% e fino al 15% delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile (1° gennaio – 31 dicembre) precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero;
di rilevante entità, intendendo per rilevante entità le riduzioni superiori al 15% delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile (1° gennaio – 31 dicembre) precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero.”

La norma prevede inoltre che:

Le variazioni di lieve entità possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi senza preavviso. Dette variazioni saranno efficaci sin dal momento della ricezione della comunicazione scritta della ditta mandante da parte dell’agente o del rappresentante.
Le variazioni di media e rilevante entità possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi, nel caso delle variazioni di media entità, almeno due mesi prima, salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza. Nel caso di variazioni di rilevante entità il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto, salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza. Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro il termine perentorio di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, di non accettare le variazioni di media o rilevante entità, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante.”

"L'insieme delle variazioni di lieve entità apportate in un periodo di 18 mesi antecedenti l’ultima variazione, sarà da considerarsi come unica variazione, per l'applicazione del presente articolo 2, sia ai fini della richiesta del preavviso, sia ai fini della possibilità di intendere il rapporto cessato ad iniziativa della casa mandante. Per gli agenti e rappresentanti che operano in forma di monomandatari sarà da considerarsi come unica variazione l’insieme delle variazioni di lieve entità apportate in un periodo di 24 mesi antecedenti l’ultima variazione.”

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che:

  • da un lato al preponente è conferito un diritto potestativo di apportare delle variazioni che comportano la diminuzione dei prodotti promossi e delle provvigioni del proprio agente;
  • dall’altro lato l’agente, per le variazioni di media e rilevante entità, ha la facoltà di comunicare il proprio rifiuto entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione, così trasformandola in comunicazione di preavviso per la cessazione del rapporto ad iniziativa della casa mandante.

La norma sopra esaminata regola solamente le variazioni del contratto da parte del preponente, volte a diminuire l’ammontare delle provvigioni e della zona (prodotti, clientela, territorio).

Posto che l’art. 1752 c.c. prevede che il contratto di agenzia debba essere provato per iscritto, ne consegue che anche le modifiche sono valide solamente se rispettano tale requisito. Importante sottolineare che l’ordinamento non richiede la forma scritta “ad substantiam”, bensì “ad probationem: questo implica che non è necessario che la modifica, perché abbia efficacia tra le parti, debba essere concordata espressamente per iscritto, ma è sufficiente che l’accordo su tale modifica si possa evincere anche solo da un comportamento tacito delle parti e che di tale comportamento vi sia traccia scritta.


L'indennità di fine rapporto nel contratto di agenzia: art. 1751 c.c. ed AEC a confronto.

Come si è già avuto modo di evidenziare, l’indennità di fine rapporto in Italia segue un sistema binario: da una parte la disciplina regolata all’art. 1751 c.c. e, dall’altra parte, la disciplina degli AEC. (cfr. anche La contrattazione collettiva. Origini, valore ed applicabilità. E se un contraente è straniero, si applicano oppure no?)

La versione attuale dell’art. 1751 c.c., così modificato dal d.lgs 1999 n. 65, attuativo della direttiva 86/853/CEE, dispone che:

“all’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni:

  1. l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti;
  2. il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
  3. il pagamento di tale indennità sia equo, tenendo conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l'agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti."

Il terzo comma dello stesso articolo dispone che l’indennità non è dovuta quando:

  • il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente, la quale per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto;
  • l’agente receda dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all’agente, quali età, infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell’attività;
  • quando, ai sensi di un accordo con il preponente, l’agente cede ad un terzo i diritti e gli obblighi che ha in virtù del contratto d’agenzia.

Circa l’ammontare dell’indennità, ex art. 1751, terzo comma c.c., essa:

non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione.”

Il criterio di cui all’ art. 1751 del codice civile, non contiene  alcun metodo di calcolo, ma solo un tetto massimo (ossia un’annualità da calcolarsi secondo la media provvigionale degli ultimi 5 anni) e due condizioni all’avverarsi delle quali è subordinato il maturare dell’indennità, ossia che:

  • l’agente abbia procurato nuovi clienti e/o “intensificato” il fatturato di quelli già esistenti;
  • l’indennità sia “equa” alla luce di “tutte le circostanze del caso ivi comprese le provvigioni che l’agente perde a seguito della cessazione del contratto.

Dall’altra parte, la disciplina contrattuale degli AEC stabilisce un metodo di calcolo certo e preciso, articolato su tre diverse voci:

  • l’indennità di risoluzione del rapporto (il “FIRR”, costituito da un accantonamento annuale presso l’apposito Fondo gestito dall’ENASARCO) calcolata sulla base dei dettami degli AEC;
  • l’indennità suppletiva di clientela, riconosciuta all’agente anche in assenza di un incremento della clientela, (pari a ca. al 4% sull’ammontare globale delle provvigioni e delle altre somme maturate);
  • l’indennità meritocratica, collegata all’incremento della clientela e/o giro di affari.

Come si può notare, entrambi i sistemi hanno al loro interno sia vantaggi che svantaggi per le parti contraenti.

I vantaggi per l’agente dell’indennità ex art. 1751 c.c. sono costituiti dal fatto che spesso l’indennità liquidata dal giudice è superiore rispetto a quella prevista dagli AEC.

Gli svantaggi normalmente consistono nel fatto che:

  • è stabilito solo un massimo, ma manca assolutamente un criterio di calcolo;
  • l’onere di provare l’aumento/intensificazione della clientela e l’equità dell’indennità è integralmente in capo all’ agente;
  • l’indennità è esclusa in tutti i casi in cui l’agente sia receduto dal contratto senza giusta causa.[1]

Quanto invece all’ indennità calcolata secondo gli AEC i vantaggi sono piuttosto evidenti, posto che:

  • è configurato un criterio di calcolo chiaro e definito;
  • il FIRR e l’indennità suppletiva di clientela spettano (salvo eccezioni) sempre, anche nel caso di recesso da parte;
  • non viene posto in capo all’agente alcun onere probatorio.

Circa gli svantaggi per l’agente, si rileva che, di fatto, l’indennità liquidata ex art. 1751 c.c. è molto spesso superiore rispetto a quella garantita dagli AEC.

Si evidenza che la Corte di Giustizia europea, con una pronuncia del 23 marzo 2006,[2] ha contestato la legittimità dell’indennità di fine rapporto, così come regolata dagli AEC.  Tali accordi, secondo la Corte, possono derogare alla disciplina dettata dalla direttiva 86/653/CEE solo se, con un’analisi ex ante, dall’applicazione dell’AEC derivasse all’agente un trattamento economicamente più favorevole rispetto a quello di cui all’art. 1751 c.c. Ora, dal momento che non son previsti degli strumenti di calcolo che permettono di pronosticare l’ammontare dell’indennità codicistica ed essa può essere conosciuta e calcolata solamente dopo lo scioglimento del rapporto e posto che, secondo la Corte, la valutazione sul fatto che il trattamento degli AEC sia (sempre) più favorevole rispetto alla disciplina civilistica deve essere fatto ex ante, è chiaro che, seguendo tale ragionamento, solamente un sistema di calcolo che garantisce sempre il massimo dell'indennità potrà essere considerato in linea con i principi dettati dalla direttiva e con la pronuncia della Corte di Giustizia.[3]

Nonostante la sentenza della Corte di Giustizia, appare comunque in via di consolidamento l’orientamento della Cassazione secondo il quale i criteri di quantificazione dell’indennità di fine rapporto previsti dalla contrattazione collettiva debbano considerarsi comunque come un trattamento minimo che deve essere garantito all’agente, salvo la necessità da parte del giudice, una volta riscontrata l’esistenza o meno dei requisiti previsti dall’art. 1751 c.c., di effettuare una sorta di valutazione caso per caso al fine di valutare l’equità della soluzione derivante dagli AEC, con facoltà di discrezionale, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.[4]

Si rileva comunque l’esistenza di un orientamento minoritario della giurisprudenza di merito, che ha ritenuto gli AEC inapplicabili al nostro ordinamento e non ha pertanto riconosciuto all’agente la disciplina ivi riportata come un minimo garantito.[5]

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[1] Art. 1751 comma 2, punto 1: “L'indennità non è dovuta […] quando l'agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all'agente, quali età, infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell'attività

[2] Corte di Giustizia 2006, C-465/04.

[3] Baldi-Venezia, Il contratto di agenzia, 2014, GIUFFRÈ; Bortolotti, L'indennità di risoluzione del rapporto secondo il nuovo Accordo Economico Collettivo Settore industria, 2014, www.newsmercati.it.

[4] Cass. Civ. 2009 n. 12724; Cass. Civ. 2012 n. 8295; Cass. Civ. 2013 n. 18413; Cass. Civ. 2014 n. 7567; Cfr. Baldi-Venezia, Il contratto di agenzia, 2014, GIUFFRÈ,  “Questa soluzione non appare soddisfacente e soprattutto non individua in concreto quali siano i criteri di quantificazione da adottare, lasciando al giudice di merito un ampio margine di discrezionalità, che non depone in favore della futura individuazione di criteri precisi ed uniformi a discapito di un principio di certezza”.

[5] Tribunale Treviso 29 maggio 2008; Tribunale Treviso 8 giugno 2008; Tribunale di Roma 11 luglio 2008.


L'agente persona fisica, il lavoro parasubordinato e il rito lavoro.

La Legge n. 533/73, ha introdotto nell’ordinamento processuale italiano il cosiddetto “rito lavoro”, procedimento caratterizzato dai principi di oralità e immediatezza. Il punto 3 del comma 1 dell'art. 409 c.p.c., introdotto da tale Legge prevede espressamente che sono assoggettati al rito lavoro anche:

“i rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale […] che si concretano in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato.”

Pertanto, anche le controversie relative a rapporti di rappresentanza e agenzia, sono soggette al rito del lavoro, se la prestazione lavorativa è caratterizzata dalla continuità, dalla coordinazione e dalla prevalente personalità (cfr. anche Il contratto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato: criteri distintivi e parametri valutativi).

Si è quindi venuta a creare, a fianco alle già esistenti categoria di lavoratore autonomo e subordinato, una terza figura, ossia quella del lavoro “parasubordinato.” Essa in principio fu elaborata dalla dottrina, per poi essere recepita dalla stessa giurisprudenza,[1] per rispondere ad un'esigenza reale di definire quei rapporti di lavoro autonomi, in cui, di fatto, il lavoratore si trova in una posizione di dipendenza verso il committente meno forte rispetto a quella del lavoratore subordinato, ma sicuramente molto più vincolante rispetto a dei rapporti autonomi. In tale modo si è venuta ad enucleare una categoria di soggetti ritenuti meritevoli di una tutela ulteriormente rafforzata, che li avvicina per questo ai lavoratori subordinati.

Sorge spontanea la domanda se sono soggetti al rito lavoro solamente gli agenti commerciali che agiscono in qualità di persone fisiche, oppure anche gli agenti che, seppure operino sotto forma di società di capitali, abbiano una struttura tale per cui di fatto prevale l’elemento personale della prestazione (ad es. società unipersonali). Secondo la più recente giurisprudenza della Cassazione, si ritengono essere soggetti al rito del lavoro, solamente le vertenze coinvolgenti agenti che agiscono come persone fisiche, escluse tutte le ipotesi di agente che opera in forma societaria, sia di persone che di capitali, regolare o irregolare.[2] Con una recente sentenza la Cassazione ha affermato che:[3]

qualora l'agente sia una società o si avvalga di un'autonoma struttura imprenditoriale, il carattere personale della prestazione viene meno, con la conseguenza che il rapporto non può più essere ricondotto nella previsione di cui all'art. 409 c.p.c. e, dunque, al rito del lavoro, dal momento che, laddove la qualità di agente è assunta da una società di capitali o di persone, la società, anche se priva di personalità giuridica, rappresenta pur sempre un autonomo centro di rapporti giuridici che si frappone tra il socio ed il soggetto mandante.”

La giurisprudenza, inoltre, ritiene che possa essere considerato lavoratore parasubordinato anche l’agente persona fisica che svolge la propria attività avvalendosi di proprio personale, purché nel rapporto non prevalga l’aspetto organizzativo dell’agente su quello della prestazione personale:[4] la personalità della prestazione, infatti, seppure deve essere prevalente, non è necessario che sia esclusiva. Bisogna invece escludere la parasubordinazione se l'attività viene svolta attraverso criteri imprenditoriali tali per cui l’agente si limita a coordinare e dirigere i propri collaboratori, senza svolgere alcuna attività di promozione.[5] (cfr. anche Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?)

I lavoratori parasubordinati sono soggetti al medesimo trattamento giuridico dei subordinati non solo per quanto riguarda l'applicazione del rito lavoro, bensì anche al diritto alla rivalutazione dei crediti di lavoro[6] e l'istituto giuridico sostanziale della invalidità delle rinunce e delle transazioni relative ai diritti indisponibili del lavoratore ex art. 2113 c.c., che tratteremo al seguente punto.

_______________________

[1] Cass. civ. Sez. lavoro, 1998, n. 4580.

[2] Cass. Civ. 2012 n. 2158, La giurisprudenza di gran lunga prevalente ritiene, tuttavia, che quando l'agente sia una società o si avvalga di una autonoma struttura imprenditoriale il carattere personale della prestazione vien meno ed il rapporto non può essere ricondotto nella previsione dell'art. 409 cit., atteso che se la qualità di agente è assunta da una società di capitali o di persone, la società, anche se priva di personalità giuridica, costituisce pur sempre un autonomo centro di rapporti giuridici che si frappone fra il socio ed il soggetto mandante; Cass. n. 2509/1997; Cass. n. 9547/2001; Cass. n. 14813/2005; Cass. n. 6351/2006; Cass. n. 15535/2011; App. Firenze, 11/04/2007 “Le controversie tra l'agente ed il preponente sono di competenza del Giudice del lavoro se l'attività svolta ha le caratteristiche della parasubordinazione, ossia nell'ipotesi in cui l'agente svolga l'attività prevalentemente con il lavoro personale. Tale requisito difetta quando l'agente svolge l'attività sotto forma di società, anche di persone o irregolare o di fatto, ed anche quando l'attività, pur essendo svolta in forma individuale, sia caratterizzata dalla prevalenza del momento organizzativo dell'opera dei propri dipendenti e collaboratori rispetto all'apporto personale.”; Bortolotti, Il contratto di agenzia commerciale, CEDAM, 2007.

[3] Cass. Civ. 2005 n. 14813.

[4] Cfr. anche Cass. Civ. Sez. lavoro, 1998 n. 14454: che ha escluso il carattere prevalentemente personale dell’agente “che si era avvalso di due impiegati, di un autista, di un magazziniere, di vari automezzi e soprattutto di ben sei subagenti, assumendosi l’onere economico della intera organizzazione anche sul piano retributivo”

[5] Cass. civ. Sez. II Ord., 22/03/2006, n. 6351.

[6] Art. 429, terzo comma, c.p.c. “Il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto.”


La legge applicabile al contratto di agenzia internazionale.

Quando si opera nell’ambito della contrattualistica internazionale sicuramente il primo aspetto da analizzare è comprendere da quale legge è regolato il rapporto contrattuale.
Come è noto, la disciplina della legge applicabile, in ambito europeo, è dettata dal Regolamento europeo Roma I, n. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali.

L’art. 3 del Regolamento conferisce alle parti la libertà di scegliere a quale legge sottoporre il rapporto contrattuale:

…la scelta è espressa, o risulta chiaramente dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze del caso

Nel caso le parti non abbiano scelto a quale ordinamento sottoporre il contratto, si applicherà l’art. 4 del Regolamento, che indica i criteri volti a individuare la legge applicabile al rapporto. Nello specifico, l’art. 4 par. 1, lett. B) del Regolamento prescrive che i contratti relativi alla prestazione di servizi, tra i quali rientra anche il contratto d’agenzia, sono regolati dalla legge del Paese in cui il prestatore di servizi (l’agente, dunque) ha il domicilio abituale. Ciò comporta, che tutti i rapporti di agenzia tra preponente straniero ed agente italiano, per i quali le parti non hanno scelto (espressamente) la legge applicabile, saranno regolati dalla legge del Paese in cui l’agente ha il suo domicilio abituale, quindi, normalmente, dal diritto italiano.

Si può pertanto affermare che il diritto italiano è applicabile al contratto di agenzia internazionale nei seguenti casi:

  • nel caso di scelta delle parti (art. 3 Regolamento Roma I);
  • in assenza di scelta delle parti, in tutti i casi in cui l’agente ha il suo domicilio abituale sul territorio italiano (art. 4 Regolamento Roma I);
  • nel caso in cui le parti decidano di sottoporre il contrattato alla legge straniera, si applicheranno le norme italiane “internazionalmente imperative” o di “applicazione necessaria” (art. 9 Regolamento Roma I).

Con riferimento a quest’ultimo punto, che certamente costituisce uno dei profili più complessi e critici del diritto commerciale internazionale, si ritiene necessario svolgere un breve approfondimento.

Come è noto la libertà riconosciuta ai contraenti di scegliere come regolamentare un rapporto contrattuale incontra dei limiti: in tutti gli ordinamenti esistono norme imperative volte appunto a limitare la libertà delle parti, al fine di garantire l’osservanza di determinati principi. Applicare questo principio nell’ambito della contrattualistica internazionale non è di facile soluzione, proprio perché si è obbligati a confrontarsi con norme imperative di due o più ordinamenti: quello scelto dalle parti e quello che, in mancanza di scelta, si applicherebbe ex art. 3 Regolamento Roma I.

Come si coordina quindi il diritto riconosciuto alle parti di scegliere la legge applicabile con il principio secondo il quale si devono rispettare le norme inderogabili applicabili in mancanza di scelta?

In linea di principio si può affermare che la scelta di una determinata legge comporta la totale deroga delle norme di un determinato ordinamento (ivi incluse quelle imperative), in favore di quelle di un altro ordinamento. Ciò comporta che, normalmente, se le parti scelgono di sottoporre il contratto ad un altro ordinamento giuridico, il loro contratto dovrà rispettare le norme imperative di quell’ordinamento, ma non quelle dell’ordinamento derogato attraverso la loro scelta.

Bisogna comunque rilevare che, in casi particolari, i legislatori nazionali possono decidere di attribuire a determinate norme un valore ancora più cogente, tale da renderle inderogabili anche alla scelta delle parti: tali norme vengono definite come “internazionalmente imperative” o di “applicazione necessaria” e si distinguono per questo da quelle “semplicemente imperative”.

In ambito europeo, questo principio è disciplinato dall’art. 9 del Regolamento Roma I, che definisce le norme di applicazioni necessaria come:

«... disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile al contratto secondo il presente regolamento.»

Ad interpretare l’ambito applicativo di tale norma è intervenuta la Corte di Giustizia europea nel caso Unamar: con tale pronuncia la Corte ha affermato che il Tribunale nazionale può applicare le norme più protettive del proprio ordinamento (in luogo della legge scelta dalle parti)

«...unicamente se il giudice adito constata in modo circostanziato che, nell’ambito di tale trasposizione, il legislatore dello Stato del foro ha ritenuto cruciale, in seno all’ordinamento giuridico interessato, riconoscere all’agente commerciale una protezione ulteriore rispetto a quella prevista dalla citata direttiva, tenendo conto, al riguardo, della natura e dell’oggetto di tali disposizioni imperative».

Da tale pronuncia, si evince che per poter prevalere sulla legge di un altro paese basata sulla medesima direttiva, non sia sufficiente che le norme scelte prevedano un livello più elevato di protezione ed attribuiscano loro carattere di norme internazionalmente inderogabili, ma che debba altresì risultare che tale scelta sia di importanza cruciale per l'ordinamento in questione, in considerazione della natura e delle finalità perseguite dalle norme in questione.


L'obbligo di informazione dell'agente nei confronti del preponente

L’obbligo di informazioni viene disciplinato dall’art. 1746 c.c. Tale norma impone all’agente di fornire al preponente informazioni sulle condizioni di mercato nella zona assegnata, nonché ogni altra informazione utile per valutare la convenienza dei singoli affari. Nello specifico tale articolo dispone che l’agente deve:

fornire al preponente le informazioni riguardanti le condizioni del mercato nella zona assegnatagli, e ogni altra informazione utile per valutare la convenienza dei singoli affari

Come si può evincere, le informazioni richieste all’agente possono essere di due tipi:

  • informazioni riguardanti le condizioni di mercato;
  • informazioni necessarie alla valutazione della convenienza dell’affare.

L’agente, pertanto, svolge un doppio ruolo nel rapporto contrattuale. Da un lato deve sondare l’andamento della zona e clientela affidatagli, con il fine di tenere aggiornato il preponente su quanto effettivamente accada in tale ambito. Dall’altro lato, svolge il delicato compito di vagliare la convenienza dei singoli affari e la solvibilità dei clienti a cui vengono trasmessi gli ordini.

Non pochi problemi derivano proprio dall’interpretazione di tale articolo. In particolare, non è agevole comprendere quali siano i limiti al diritto del preponente di pretendere dall’agente informazioni dettagliate e continuative: in linea di massima, si ritiene che un ampliamento eccessivo di tale obbligo, potrebbe addirittura essere considerato un indizio per mettere in discussione l’indipendenza dell’agente e quindi fare qualificare il rapporto come un rapporto di lavoro subordinato.

Ciò premesso, con riferimento all’obbligo dell’agente di informazione sulle condizioni del mercato, è possibile ritenere che il preponente può pretendere che l’agente lo tenga informato, nei limiti delle sue possibilità, di tutto ciò di cui venga a conoscenza sulla situazione del mercato e sui suoi cambiamenti, relativamente alla zona assegnatagli. Ciò non comporta, comunque, un obbligo dell’agente a dovere effettuare valutazioni, previsioni o indicazioni sulle prospettive future del mercato stesso. Invero, l’agente è unicamente tenuto a segnalare informazioni su potenziali o reali concorrenti, necessarie al preponente per elaborare una politica commerciale che possa essere quanto più efficace possibile nella zona assegnata all’agente.

Sotto il secondo aspetto, ossia l’obbligo di valutare la convenienza dell’affare, l’agente deve valutare per ogni singolo affare (e cliente), quali siano le concrete capacità del contraente di adempiere.

Ad integrazione di quanto previsto dall’art. 1746 c.c., l’art. 1 degli AEC industria 2014 e commercio 2009 dispone che, salvo patto contrario,

L’agente esercita la sua attività in forma autonoma ed indipendente [ed][…] è tenuto ad informare costantemente la casa mandante sulla situazione del mercato in cui opera, non è tenuto peraltro a relazioni con periodicità prefissata sulla esecuzione delle sue attività.”

L’art. 5 degli AEC Industria e l’art. 4 dell’AEC Commercio, inoltre, chiarisce che l’agente:

deve adempiere l'incarico affidatogli in conformità alle istruzioni impartite dalla ditta e fornire le informazioni riguardanti le condizioni del mercato nella zona assegnatagli, nonché ogni altra informazione utile al preponente per valutare la convenienza dei singoli affari.”

L’agente, pertanto, da un lato è tenuto ad informare il preponente e dall’altro lato ha il diritto di agire in piena autonomia organizzativa: è quindi necessario trovare il giusto equilibrio tra le opposte esigenze di autonomia organizzativa dell’agente ed il suo obbligo di seguire le istruzioni del preponente.

Per tale motivo, da un lato il preponente, dovendo rispettare l’autonomia dell’agente, non potrà, ad esempio, imporre allo stesso la lista giornaliera dei clienti da visitare e programmare gli itinerari che l’agente dovrà seguire, ma dall’altro lato potrà chiedergli di visitare certi clienti o categorie di clienti a cui tiene e pretendere che l’agente organizzi le visite in modo da coprire adeguatamente tutta la clientela e che gli renda conto dell’attività svolta.

Ciò premesso, secondo la dottrina e la giurisprudenza ritengono che l’obbligo di informazione non abbia una rilevanza fondamentale . Ad ogni modo, può assumere in concreto una rilevanza tale da giustificare, in caso di violazione, la risoluzione del rapporto per colpa dell’agente, nel caso in cui le omissioni possono causare gravi conseguenze negative sull’andamento commerciale del preponente (Cass. Civ. 1994 n. 7644).


Il recesso anticipato dal contratto di agenzia. Come si calcola l’indennità per il mancato preavviso?

Il recesso dal contratto di agenzia è espressamente regolato all'art. 1750, comma 2. c.c. Tale articolo concede ad entrambe le parti la facoltà di recedere liberamente dal contratto a tempo indeterminato, senza alcuna motivazione, dandone preavviso all'altra entro un termine stabilito.

L'art. 1750 comma 3 c.c. dispone, inoltre, che il “contratto di agenzia a tempo indeterminato può essere risolto dalle parti solamente se viene dato preavviso, che non può essere inferiore a”:

  • 1 mese per il 1° anno
  • 2 mesi per il 2° anno
  • 3 mesi per il 3° anno
  • 4 mesi per il 4° anno
  • 5 mesi per il 5° anno
  • 6 mesi per il 6° anno e per gli anni successivi.

Importante ricordare che le parti possono prevedere un termine di preavviso superiore, ma mai inferiore a quello dettato dalle norme codicistiche.

Ci si domanda, fuori dai casi in cui è ammessa la risoluzione anticipata, cosa succede quando una parte recede dal contratto di agenzia, senza osservare il preavviso. In tale situazione si pongono, di norma, due tipologie di problemi:

  1. comprendere se il rapporto contrattuale prosegue o viene interrotto;
  2. comprendere se e in che misura controparte avrà diritto al risarcimento del danno.

Con riguardo al primo punto, bisogna distinguere tra contratto a tempo determinato e contratto a tempo indeterminato.

Con riferimento al contratto a tempo determinato, è pacifico ritenere che il contratto continua ad essere efficace fino alla scadenza. In tale caso, un recesso illegittimo, non potrà in alcun modo risolvere il contratto che, pertanto, proseguirà anche dopo l'ingiustificato recesso fino alla sua normale scadenza (cfr. Cass. Civ. 1990 n. 1614).

"con riguardo a contratto di agenzia, ove il preponente receda illegittimamente dal rapporto ed ometta, di conseguenza, di fornire all'agente la cooperazione indispensabile per lo svolgimento della sua attività, non ne consegue la risoluzione del contratto, che deve considerarsi ancora in corso fino alla prevista scadenza, bensì ne deriva la responsabilità del preponente stesso, che è tenuto - pur in mancanza di una costituzione in mora - al risarcimento del danno in favore dell'agente."

 In tale caso, seppure il contratto continui ad essere efficace anche a seguito del recesso ingiustificato, bisogna anche tenere presente che, in linea di massima, risulterà quasi impossibile per il non recedente proseguire concretamente il rapporto. Proprio su tale punto, la Casssazione nella sentenza qui sopra citata, ha affermato che:

"è praticamente impossibile per un agente continuare la promozione degli affari qualora il preponente abbia intimato il recesso sia pure illegittimo ed abbia di conseguenza tenuto un comportamento coerente con tale recesso cessando di fornire all'agente quella cooperazione necessaria per lo svolgimento del rapporto."

Ne deriva, pertanto, che la continuazione del rapporto contrattuale fino alla sua naturale scadenza, conferirà di fatto il diritto dell'agente a pretendere il risarcimento del danno, da quantificarsi nel mancato guadagno per la rimanente durata del rapporto.

Con riferimento al contratto a tempo indeterminato, la questione si poneva in termini differenti prima della riforma dell'art. 1750 c.c. che è stato così sostituito dall'art. 3 d. lgs. 10 set. 1991, n. 3030, in attuazione della direttiva 86/653/CE. Con la riforma, infatti, è stato eliminato il riferimento dell'art. 1750 c.c., che concedeva alle parti la facoltà di sostituire il preavviso con il pagamento di un'indennità, la cui determinazione era (ed è tutt'ora) determinata dagli accordi economici collettivi (cfr. anche(cfr. calcolo indennità ex AEC 2014, calcolo indennità ex AEC 2009, calcolo indennità ex ANA 2003).

A seguito di tale intervento normativo, l'orientamento maggioritario della giurisprudenza e di parte della dottrina (Bortolotti), considera che l'abrogazione della possibilità delle parti di sostituire il preavviso con un'indennità, ha di fatto attribuito una "efficacia reale" al preavviso con la conseguenza di riconoscere, almeno da un punto di vista teorico, il diritto della parte non recedente di proseguire il rapporto fino alla scadenza del preavviso.

La Corte di Cassazione, sul punto ha recentemente ribadito, con sentenza n. 8295 del 25 maggio 2012, il principio, dell'efficacia reale del preavviso ovvero di ultrattività del rapporto contrattuale.

"In base al principio di ultrattività del rapporto durante il periodo di preavviso, il contratto di agenzia a tempo indeterminato non cessa nel momento in cui uno dei contraenti recede dal contratto, ma solo quando scade il termine di preavviso, sancito nell'interesse e a tutela della parte non recedente."

Secondo la sopra richiamata giurisprudenza, attribuire efficacia "reale" al preavviso, conferisce alla parte non recedente il diritto a continuare il rapporto fino alla naturale scadenza. Seppure, come si è detto sopra, nella pratica è di difficile continuare un rapporto che è stato di fatto interrotto da una delle parti, il diritto delle parti alla continuazione del rapporto fino alla naturale scadenza, si traduce nel diritto a chiedere un risarcimento del danno, che, nel caso dell'agente, potrà essere superiore rispetto all'indennità di mancato preavviso (pari alle provvigioni perse dall'agente durante il preavviso, sulla media di quelle dell'anno precedente).

Il danno ulteriore che l'agente potrebbe fare valere a titolo di risarcimento del danno, si può riscontrare, ad esempio, nel caso di vendita di beni stagionali. Si pensi alla vendita di un prodotto stagionale (ad es. uovo pasquale, costume da bagno, ski-pass, etc.): è chiaro che se il recesso dovesse avvenire nel momento in cui sta per iniziare la stagione delle vendite, le provvigioni perse dall'agente durante il preavviso, saranno quasi sicuramente superiori rispetto alla media dell'anno precedente.

Nel caso di recesso illecito dell'agente, il preponente, potrà, ad esempio subire un danno derivante dalla perdita di una fetta di mercato, causato dallo sviamento della clientela verso concorrenti del preponente.

Va comunque sottolineato che secondo parte della dottrina (Toffoletto, Baldi-Venezia) e della giurisprudenza (Cass. Civ. 1999 n. 5577), nel contratto a tempo indeterminato il preavviso, contrariamente, costituisce un'obbligazione della parte recedente e non viene attribuita una efficacia "reale". L'eventuale inadempimento a tale obbligazione, dunque, non inficia la validità del recesso, dando luogo soltanto ad un obbligo di risarcimento del danno, corrispondente all'indennità di mancato preavviso.

Se tale discussione dell'efficacia reale ed obbligatoria del preavviso è tutt'ora in corso per quanto riguarda la disciplina civilistica del rapporto di agenzia, di cui all'art. 1750 c.c., le contrattazioni collettive ad oggi in vigore, AEC 2009 per il commercio e AEC 2014 per l'industria, conferiscono espressamente il diritto alle parti di terminare anticipatamente il rapporto, salvo il diritto della controparte all'indennità di fine rapporto.

Nello specifico, all'art. 11 del AEC 2009 e l'art. 9 dell'AEC 2014, dispongono che:

"ove la parte recedente, in qualsiasi momento, intenda porre fine, con effetto immediato al rapporto, essa dovrà corrispondere all'altra parte, in sostituzione del preavviso, una somma a titolo di risarcimento pari a tanti dodicesimi delle provvigioni di competenza dell'anno solare precedente quanti sono i mesi di preavviso dovuti. Qualora il rapporto abbia avuto inizio nel corso dell'anno civile precedente, saranno conteggiati i successivi mesi dell'anno in corso per raggiungere i dodici mesi di riferimento.

Inoltre, è previsto un criterio di calcolo alternativo a quello qui sopra evidenziato, in base al quale:

"Ove più favorevole. la media retributiva per la determinazione dell'indennità di cui trattasi sarà calcolata sui dodici mesi immediatamente precedenti la comunicazione di recesso. Qualora il rapporto abbia avuto un durata inferiore a dodici mesi, il detto computo si effettuerà in base alla media mensile delle provvigioni liquidate durante il rapporto stesso."

Pertanto, per calcolare l'ammontare della somma dovuta a titolo di sostituzione del preavviso, sarà necessario effettuare un doppio calcolo, seguendo i due differenti periodi e applicare quello dei due che risulti essere più favorevole per l'agente.


Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale

Il contratto di concessione di vendita e il contratto di agenzia sono tra le forme più diffuse di organizzazione della distribuzione. Tali contratti sono accumunati dal fatto che sia l'agente, che il concessionario, si assumono l'obbligo di organizzare e promuovere, in maniera autonoma, le vendite conformemente alle politiche del produttore, integrandosi all’interno della rete distributiva dello stesso. Quello che differenzia principalmente questi due intermediari è il fatto che, mentre l’agente si impegna, a fronte di una provvigione, a promuovere la conclusione di contratti tra il produttore e i clienti che l'agente stesso ha procurato, il concessionario opera in qualità di acquirente-rivenditore e la sua fonte di guadagno si basa sulla differenza tra il prezzo di acquisto e quello di rivendita.

La concessione di vendita è uno strumento di particolare rilievo per l’organizzazione della distribuzione sui mercati, sia nazionali che stranieri, che si distingue dagli altri rivenditori non integrati (ad es. i "grossisti"), in quanto esso svolge un’autonoma attività di promozione ed organizzazione delle vendite dei prodotti del concedente, in un determinato territorio, che, in linea di massima, gli viene concesso in esclusiva.

Una definizione di tale tipologia contrattuale, non viene data dal codice civile, in quanto esso non è stato regolamentato nel nostro ordinamento e va, dunque, qualificato come un contratto atipico.  Ad ogni modo, se si vuole dare una definizione del concessionario di vendita, esso si può inquadrare come un imprenditore commerciale, che stipula con il produttore un contratto quadro, a tempo determinato o indeterminato, atto a regolare, in una determinata zona, tutte le vendite che vengo effettuate in maniera stabile e continua da parte del concedente nei confronti del concessionario.

La definizione di agente, o meglio, di contratto di agenzia è, invece, data dal codice civile, che dispone all’art. 1742 c.c. che “col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione la conclusione di contratti in una zona determinata” (cfr. anche Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?).

Pertanto, mentre il concessionario tratta in nome e per contro proprio, acquistando la merce direttamente dal concedente e rivendendola a terzi, contrariamente l’agente agisce per conto e in qualità di autonomo collaboratore del preponente, promuovendo la conclusione di contratti di vendita ai terzi e, solamente quanto è munito del potere di rappresentanza, anche in nome del preponente.

Quindi, seppure l’agente e il concessionario svolgono una funzione molto simile, in quanto entrambi si occupano di organizzare la distribuzione dei prodotti di un preponente, in un determinato territorio a loro affidato, in qualità di imprenditori autonomi, ma integrati nella rete di vendita del fabbricante, allo stesso tempo, essi si distinguono in maniera molto pronunciata, nella modalità di gestione delle vendite l’agente è un puro e semplice intermediario del preponente, il concessionario, invece, acquista direttamente i prodotti dal concedente e si occupa lui stesso di rivenderli direttamente al cliente finale, che è stato da esso procurato.

Se si guardano le due figure da un punto di vista strategico, si rileva che l’agente di commercio permette al preponente di avere un controllo più forte e diretto sulla clientela, in quanto la vendita viene effettuata dal preponente stesso e l’agente ha invece il compito di passare l’ordine al preponente, il concessionario ha invece il compito di organizzare la fase di vendita al cliente finale e, spesso, anche di assistenza e, pertanto, di norma ha un controllo più diretto sul cliente, svolgendo anche attività correlate alla promozione della vendita, quali appunto lo sdoganamento della merce, la spedizione al destinatario ed il magazzinaggio.

Tali tipologie contrattuali si distinguono anche dal punto di vista dei rischi commerciali che il fabbricante si assume: nel contratto di distribuzione il il rischio è spostato sicuramente più sul concessionario, il quale si accolla il potenziale pericolo di non riuscire a rivendere i prodotti acquistati. Al contrario nel caso di agenzia, il rischio di inadempimento del cliente finale, si ribalta direttamente sul preponente, soprattutto se le parti hanno applicato il diritto italiano, in quanto nel nostro ordinamento l’utilizzabilità della cosiddetta clausola dello "star del credere" è stata di fatto cancellata. Si ricorda brevemente, che con tale clausola, l’agente si assume in parte od integralmente, il rischio del mancato pagamento da parte di un terzo da lui introdotto, impegnandosi a rimborsare al preponente, entro i limiti pattuiti, la perdita da questi subita.

Bisogna comunque rilevare, che in buona parte dei contratti di distribuzione di vendita è prevista una clausola, che posticipa l’obbligo del concessionario di pagare la merce, solamente a seguito del pagamento del prodotto da parte del cliente finale. È evidente che una tale pattuizione andrà a spostare fortemente il rischio imprenditoriale nei confronti del concedente.

Sicuramente, un aspetto che fortemente distingue le due figure contrattuali è l’indennità di fine rapporto (in tema cfr. anche calcolo indennità ex art. 1751 c.c., calcolo indennità ex AEC 2014 calcolo indennità ex AEC 2009 e calcolo indennità ex ANA 2003). Come è noto, il contratto di agenzia prevede espressamente, all'art. 1751 c.c., il diritto dell'agente a percepire, a determinate condizioni, un'indennità a seguito dello scioglimento del rapporto contrattuale. Parimenti non si può dire per il contratto di concessione di vendita. La giurisprudenza italiana, infatti, distaccandosi da quella che è la giurisprudenza di diversi paesi europei - ad es. Austria e Germania) non riconosce al concessionario tale diritto.

Autorevole dottrina, si dissocia da tale orientamento giurisprudenziale, affermando che "pur in assenza di norme legislative, il diritto all'indennità nel contratto di agenzia nel quale l'agente è anche autorizzato ad effettuare acquisti in proprio quale concessionario, potrebbe essere esteso agli affari posti in essere dal concessionario. Ci pare infatti che in tali ipotesi, trattandosi di contratto misto, nel quale è prevalente la causa del contratto di agenzia, l'indennità di risoluzione, per il principio dell'assorbimento, potrebbe essere estesa all'attività che l'agente ha svolto come concessionario" (Venezia-Baldi).


diritto dell'agente alla provvigione

Il diritto dell'agente alle provvigioni sugli affari diretti, indiretti e di zona.

L’art. 1748 c.c. prevede che il diritto dell’agente alla provvigione sussiste essenzialmente in tre casi: per gli affari promossi direttamente dall'agente; per gli affari conclusi dal preponente, senza l'intervento dell'agente con clienti procurati in precedenza dall'agente ("affari successivi") e affari conclusi direttamente dalla preponente senza l'intervento dell'agente con clienti appartenenti ad una zona o clientela riservata all'agente.

Come è noto, il compenso dell’agente è costituito da una provvigione che, normalmente, consiste in una percentuale sull’ammontare dell’affare portato a compimento da parte del preponente con un proprio cliente, tramite l’intermediazione dell’agente. Prima di procedere ad individuare per quali affari la provvigione sia effettivamente dovuta, vale la pena ricordare che le parti sono libere di determinare contrattualmente le modalità di computo del compenso dell’agente, tramite modalità differenti rispetto a quelle di carattere provvigionale,[1] tramite ad esempio il pagamento di:

  • un sovrapprezzo, ossia la percentuale legata alla differenza, completa o parziale, fra il prezzo di listino e il maggior prezzo di vendita;
  • un compenso a somma fissa per ogni contratto concluso, indipendentemente dal suo ammontare; oppure
  • la remunerazione tramite un fisso garantito, spesso abbinato ad un compenso provvigionale variabile. (Importante ricordare che se la remunerazione viene determinata unicamente in forma fissa può essere un elemento che, abbinato ad altri indizi di subordinazione, può portare a qualificare il rapporto come di lavoro subordinato.)[2]

Ciò premesso, il diritto dell’agente alle provvigioni viene disciplinato dall’art. 1748 c.c. che così dispone:

Per tutti gli affari conclusi durante il contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento.

La provvigione è dovuta anche per gli affari conclusi dal preponente con terzi che l’agente aveva in precedenza acquisito come clienti per affari dello stesso tipo o

appartenenti alla zona, o alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente, salvo che sia diversamente pattuito.”

La provvigione dell’agente è quindi dovuta essenzialmente in tre casi:

  1. per gli affari promossi direttamente dall'agente;
  2. per gli affari conclusi dal preponente, senza l'intervento dell'agente con clienti procurati in precedenza dall'agente ("affari successivi");
  3. affari conclusi direttamente dalla preponente senza l'intervento dell'agente con clienti appartenenti ad una zona o clientela riservata all'agente (c.d. "affari diretti").

Qui di seguito si vanno brevemente ad analizzare le tre “categorie” di provvigioni sopraelencate.


1. Affari promossi direttamente dall'agente.

L'art. 7, 1 lettera a) della direttiva 86/653/CEE stabilisce quanto segue:

"per un'operazione commerciale conclusa durante il contratto di agenzia, l'agente commerciale ha diritto alla provvigione: a) quando l'operazione è stata conclusa grazie al suo intervento [..]"

Principio che è stato integralmente recepito nel nostro ordinamento con l'art. 3 del d.lgs 65/99, che ha modificato l'art. 1748 c.c.

Tenuto conto che la normativa subordina il diritto dell’agente alla provvigione ad un suo effettivo intervento nella conclusione dell’affare, è essenziale comprendere quando si può affermare un affare venga realmente concluso grazie all’intervento dell’agente. Se non ci sono dubbi nel caso in cui l’agente raccoglie direttamente l’ordine dal cliente e lo trasmette al preponente, meno chiaro sarà certamente il caso in cui all’attività iniziale di contatto posta in essere dall’agente faccia seguito una trattativa condotta dal preponente o da un altro agente.[3]

Non è invece necessario verificare l’intervento dell’agente nella conclusione dell’affare, qualora a questi venga riservata una zona e l’affare viene concluso nel territorio esclusivo dell’agente; in tale ipotesi all’agente sarà comunque riconosciuta una provvgione, salvo il caso che le parti non abbiano contrattualmente deciso di escludere il diritto alle provvigioni sugli gli affari direttamente posti in essere dal preponente (questione che verrà trattata al successivo paragrafo 3). 

Ancora differente è il caso dell’agente di zona che ha promosso l'affare con clienti estranei al proprio territorio. Secondo autorevole dottrina,[4] in tal caso l’agente non maturerebbe alcuna provvigione trattandosi di affari estranei all'ambito di applicazione del contratto di agenzia. Seguendo tale orientamento, l’agente maturerebbe una provvigione, solamente se emerge che le parti abbiano convenuto - espressamente o tacitamente - di far rientrare l'affare sotto il contratto, in caso contrario, ossia se non emerge con sufficiente chiarezza una volontà di considerare l'attività dell'agente come promozione rientrante nel contratto, non spetterà all'agente alcun compenso provvigionale.

Gli AEC industria 2014 (art. 6) e 2009 commercio (art. 5) vanno a disciplinare l’ancora diversa circostanza, relativa al caso in cui la promozione e l’esecuzione di un affare interessi zone e/o clienti affidati in esclusiva ad agenti diversi. In tal caso, gli AEC dispongono che, salvo diverso accordo

la relativa provvigione verrà riconosciuta all’agente, che abbia effettivamente promosso l’affare, salvo diversi accordi fra le parti per un’equa ripartizione della provvigione stessa.”

Va da ultimo tenuto presente che l’art. 1748 comma 1, non determina il momento in cui viene acquisito il diritto alla provvigione, problema che viene affrontato nel successivo articolo 1748 comma 4.

- Leggi anche: Quando è obbligato il preponente al pagamento della provvigione?


2. Affari conclusi direttamente dal preponente, con clienti procurati dall'agente.

Il secondo caso è quello introdotto dall'art. 7,1 lettera b) della direttiva, che prevede che l’agente ha diritto alla provvigione:

" quando l'operazione è stata conclusa con un terzo che egli aveva precedentemente acquisito come cliente per operazioni dello stesso tipo.”

Il nostro ordinamento ha recepito tale disposizione nell'art. 1748 c.c. 2 comma; in base a tale disposizione l'agente senza esclusiva, una volta che ha trasmesso un ordine al preponente per un cliente da lui acquisito, avrà quindi diritto anche alla provvigione per gli affari che il preponente conclude in seguito, purché si tratti di affari dello stesso tipo.

La norma è volta a tutelare i rapporti con agenti non esclusivi, ai quali spetta unicamente un compenso per gli affari da lui promossi e quindi evitare che il preponente eluda il diritto dell’agente (non esclusivo) alla remunerazione, mettendosi semplicemente in contatto diretto i clienti da questi acquisiti per affari successivi.

Per comprendere cosa si debba intendere per affare dello “stesso tipo”, può venire in aiuto una sentenza della Corte di Giustizia del 2016,[5] che (seppure abbia ad oggetto la differente questione relativa alla qualificazione di “nuovo cliente” ai fini della quantificazione dell’indennità di fine rapporto)[6], ha affermato che possono essere considerati nuovi clienti, anche quelli con cui la preponente intrattenesse già rapporti commerciali in merito alle medesime tipologie di merci (nel caso di specie occhiali da sole) ma di marchi differenti, qualora la vendita dei nuovi marchi ai clienti già acquisti dal preponente abbi imposto di porre in essere rapporti commerciali specifici.

Guardando tale sentenza da una differente prospettiva (ossia dal lato del preponente) ed applicandola alla disciplina delle provvigioni (e non dell’indennità di fine rapporto) si potrebbe affermare che l’agente (non esclusivo), non possa maturare alcuna provvigione su affari conclusi dal preponente con clienti che l’agente aveva precedentemente procacciato, non solo se si tratta di prodotti appartenenti ad un differente settore merceologico, ma addirittura dello stessa tipologia, ma di un  marchio differente, se il preponente dimostra che tale attività di vendita sia stata la conseguenza di un’attività commerciale attiva.


3. Affari diretti all'interno della zona dell'agente o con i suoi clienti esclusivi.

Nel caso in cui all'agente sia riconosciuta una zona, l'agente ha ex art. 1748 c.c. secondo comma il diritto alla provvigione sugli affari conclusi dal preponente con terzi appartenenti al proprio territorio, prescindendo quindi dal luogo di esecuzione dell'affare.

Tale principio era stato altresì sancito all'art. 5 sesto comma dell'AEC 20 giugno 1956 per gli agenti di imprese industriali, avente efficacia erga omnes, che ha previsto il diritto dell'agente di zona alla provvigione sugli affari conclusi direttamente dal preponente, senza esigere che nella zona debba aver luogo l'esecuzione.

Posto che nel nostro ordinamento l’esclusiva dell’agente costituisce ex art. 1743 c.c. un elemento naturale del contratto e che quindi essa si presume sussistere nel rapporto contrattuale, il diritto dell'agente alle provvigioni sugli affari diretti del preponente sussiste sempre, salvo pattuizione contraria delle parti. Secondo la dottrina e la giurisprudenza, in caso di deroga delle parti all'esclusiva, verrà meno automaticamente il diritto alla provvigione sugli affari diretti, non esistendo, in tal caso, più la "zona o [...] categoria di clienti riservati all'agente" così come previsti dall'art. 1748 c.c.[7]

Si evidenzia da ultimo che le parti possono comunque espressamente stipulare un patto con il quale escludono il diritto alla provvigione sugli affari diretti, seppure venga mantenuta all'agente l'esclusiva, in tale ipotesi, l'agente avrà diritto alla provvigione solamente per gli affari che ha personalmente promosso (punto 1) e sugli affari "successivi" (punto 2).

Meno pacifica è la questione se la provvigione per gli affari spetti all’agente di zona ove il cliente poi di fatto invierà la merce per la rivendita (punti vendita). In difetto di accordo, se i contratti vengono conclusi presso la sede della cliente e poi è quest’ultimo che distribuisce i prodotti alle proprie filiali/punti vendita si pensa essere preferibile la tesi della provvigione riconosciuta all’agente dove ha sede il cliente, irrilevante essendo dove poi il contratto viene eseguito.[8]

Diversa questione è se l’agente possa rivendicare il diritto alla provvigione sulle vendite che il cliente  (gorssista) effettua al pubblico nella zona dell’agente, attraverso i propri punti vendita. La giurisprudenza italiana[9] e della Corte di Giustizia,[10] propende per escludere il diritto dell’agente a conseguire le provvigioni per le tali vendite, posto che l’art. 1748, comma 2, c.c., presuppone che si tratti di vendite concluse da un soggetto, appunto il preponente, in immediato rapporto con la controparte acquirente, nelle quali, cioè, lo scambio fra le prestazioni corrispettive avvenga in maniera immediata e diretta tra le due parti, senza l’intervento di soggetti interposti e senza ulteriori passaggi intermedi.


[1] La nostra normativa non dà una definizione di provvigione e a questo provvede invece la direttiva europea 86/653/CEE  che all’art. 6§2 stabilisce quanto segue: “Tutti gli elementi della retribuzione che variano secondo il numero o il valore degli affari sono considerati come costituenti una provvigione ai sensi della presente direttiva.”

[2] Cfr. Cass. Civ. 2012 n. 12776; Cass. Civ. 2009 n. 9686; Cass. Civ. 1998, n. 1737.

[3] Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, pag. 266, Wolters Kluver.

[4] Ibidem.

[5] Corte di Giustizia 7 aprile 2016, n. C-315/2014, Marchon vs. Karaszhiewicz.

[6] Quagliarella, I nuovi clienti nel contratto di agenzia: la recente giurisprudenza comunitaria.

[7] Cfr. Venezia, Il contratto di agenzia, 2014,  Giuffré.

[8] Ibidem, pag. 275.

[9] Cass. Civ. 2001 n. 11197, (nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza di merito che aveva riconosciuto la provvigione in relazione a vendite effettuate da un grossista, che aveva acquistato i prodotti commerciati presso il preponente e li aveva successivamente posti in vendita al dettaglio mediante propri venditori).

[10] Sentenza del 17 gennaio 2008, n. 19/17, con nota di Venezia, Il necessario intervento del preponente per il diritto dell’agente alla provvigione per l’affare concluso da un terzo, in I Contratti 2008, pag. 307 e s.


La clausola di "minimi di fatturato" nel contratto di agenzia

Una tra le clausole maggiormente utilizzate e di grande diffusione nel contratto di agenzia è sicuramente quella dei “minimi di fatturato”. Con tale clausola le parti stabiliscono la soglia minima di fatturato annuo che l’agente deve apportare al preponente.

A tal proposito ci si chiede quale è la validità di tale clausola e quali siano le conseguenze nel caso in cui l’agente non riesca a raggiungere le soglie concordate.

In primo luogo, in via per così dire preliminare, secondo la giurisprudenza il fatturato concordato deve essere equo, ossia fissato dalle parti in relazione alle effettive possibilità di assorbimento del mercato; in secondo luogo, si rileva che una clausola che attribuisce al preponente la facoltà di modificare unilateralmente, nel corso del rapporto, i minimi di fatturato è di dubbia validità: in linea di principio, infatti, le parti non posso introdurre sempre e in maniera indistinta clausole contrattuali che conferiscono ad una parte la facoltà di modificare discrezionalmente il contratto, soprattutto se hanno ad oggetto elementi fondamentali del rapporto, quali, ad esempio, la zona, il pacchetto clienti dell’agente, le provvigioni, minimi contrattuali, etc..

Tale diritto potestativo conferito al preponente, in linea di massima soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c.[1] In generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare elementi essenziali del rapporto, deve “essere giustificato dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo[2]non può tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali.

Tanto premesso, in linea di principio, la giurisprudenza ritiene che il mancato raggiungimento di un minimo concordato implica di fatto un inadempimento dell’agente. Il problema maggiore è comprendere se ciò costituisca un inadempimento di gravità tale da giustificare il recesso in tronco o la risoluzione per inadempimento da parte del preponente.

Nel caso in cui le parti non avessero previsto nulla in merito, sarà necessario valutare, caso per caso, la gravità di tale inadempimento e se questo possa configurare una recesso per giusta causa oppure la risoluzione del contratto.

Qualora, contrariamente, le parti avessero espressamente previsto nel contratto che il mancato raggiungimento dei minimi comporti lo scioglimento immediato del rapporto e, pertanto, avessero previsto una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., si deve ritenere che fino a qualche anno fa la giurisprudenza riteneva univocamente che:

quando […] le parti, nella loro autonomia e libertà negoziale, abbiano preventivamente valutato l’importanza di un determinato inadempimento, facendone discendere la risoluzione del contratto senza preavviso, il giudice non può compiere alcuna indagine sull’entità dell’inadempimento stesso rispetto all’interesse dell’altro contraente, ma deve unicamente accettare se esso sia imputabile al soggetto obbligato quanto meno a titolo di colpa, che peraltro si presume a norma dell’art. 1218 c.c.”.[3]

Tale indirizzo giurisprudenziale è stato radicalmente cambiato da un più recente (ed ormai consolidato) orientamento della Corte del 2011,[4] con il quale la Cassazione, seppure da un lato ha riconosciuto la legittimità dell’inserimento all’interno del contratto di una clausola risolutiva espressa, dall’altro lato ne ha in parte limitato la sua efficacia: con tale pronuncia la Corte ha precisato che l’interruzione di un contratto di agenzia in forza di una clausola risolutiva espressa, comporta la preliminare e necessaria verifica da parte del giudice dell’esistenza di un inadempimento. Il giudice, nello specifico, dovrà verificare se:

  • l’inadempimento è di gravità tale da escludere l’indennità di mancato preavviso ex art. 1750 c.c.;
  • l’inadempimento è di gravità tale da escludere il diritto dell’agente di percepire l‘indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c.

Si vanno qui di seguito ad analizzare brevemente tali fattispecie.

a) Indennità di mancato preavviso

È ormai consolidato che il contratto di agenzia sia soggetto ad un’applicazione analogia dell’art. 2119 c.c., che prevede la facoltà dei contraenti di recedere senza preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.

Sulla base di tale presupposto, la sopra richiamata Giurisprudenza ha quindi affermato che in caso di ricorso da parte dell’impresa preponente ad una clausola risolutiva espressa, questa può ritenersi valida nei limiti in cui venga a giustificare un recesso in tronco, non potendo la libertà delle parti di fatto essere assoluta. Il Giudice, in tali casi, dovrà accertare se il mancato raggiungimento del budget sia una “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.[5]

 Applicando tale principio alla clausola dei minimi di fatturato la giurisprudenza di merito ha recentemente ritenuto che di per sé il mancato raggiungimento del budget di vendita non legittima una chiusura immediata del rapporto da parte del preponente,

poiché […] non rientra tra le obbligazioni dell’agente quella di far conseguire al preponente un certo fatturato e poiché non è possibile, in linea di principio, addebitare all’agente il mancato raggiungimento di obiettivi a prescindere dal fatto che tale evenienza sia addebitale o meno al comportamento inadempiente dell’agente.”[6]

b) Indennità di fine rapporto

Parimenti, per quanto l’indennità di fine rapporto, la valutazione di gravità dell’inadempimento dovrà essere effettuata sul parametro di cui all’art. 1751 c.c., che anch’esso subordina il venir meno a tale indennità, qualora si verifichi un inadempimento che per la sua gravità “non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.

Posto che l’art. 1751 c.c. prevede espressamente che tutte le disposizioni in esso contenute sono inderogabili a svantaggio dell’agente, la possibilità di escludere il diritto dell’agente all’indennità di fine rapporto, dovrà essere subordinata all’esistenza di un inadempimento grave, indipendentemente dall’inserimento all’interno del contratto di una clausola risolutiva espressa.[7]

Ne consegue che il mancato raggiungimento degli obiettivi, qualora sia svincolato da precise e specifiche inadempienze dell’agente che devono essere specificamente provate dalla preponente, non può essere posto a fondamento del venire meno del vincolo fiduciario tale da impedire la prosecuzione del rapporto.[8]

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[1] Sul punto cfr. Cass. Civ. n. 9924, 2009.

[2] Cass. Civ. n. 5467, n. 2000.

[3] Cass. Civ. n 7063, 1987.

[4] Cass. Civ. 2011 n. 10934

[5] Cass. Civ. 14.2.2011 n. 3595.

[6] Corte d’Appello di Brescia del 15.9.2019.

[7] Cfr. sul punto Tribunale di Modena 10 giugno 2011.

[8] Id. Corte d’Appello di Brescia del 15.9.2019.